Su questo blog avevamo già dato conto
della presentazione a Brindisi e Lecce, da parte del card. Raymond Leo Burke,
il 7 e l’8 maggio scorsi, del libro Permanere nella Verità di Cristo (v. qui e qui).
A presentare
le relazioni del porporato ci ha pensato don Nicola Bux, il quale gentilmente
ci ha girato – e lo pubblichiamo in anteprima qui, su questo blog – il testo
della sua Introduzione.
Introduzione alla Conferenza del cardinal Raymond Leo Burke
Brindisi-Lecce,
7-8 maggio 2015
di don Nicola Bux
In vista del Sinodo ordinario del
prossimo ottobre, a che punto siamo?
Adesso c’è una
discussione molto più estesa sui temi trattati dal Sinodo e questo è un bene. C’è
un numero maggiore di cardinali, vescovi e laici che stanno intervenendo e
questo è molto positivo. Questo si deve anche al libro “Permanere nella
Verità di Cristo”, a cui il card. Burke ha contribuito insieme ad altri 4
cardinali e 4 specialisti sul matrimonio, edito da Cantagalli. Un
libro che presenta quello che la Chiesa ha sempre insegnato e
praticato sul matrimonio e sulla comunione. È certo che il libro è stato
scritto come aiuto in vista del Sinodo per rispondere alla tesi del cardinale
Kasper. Ma non è polemico, è una presentazione fedelissima alla tradizione, ed
è anche della più alta qualità scientifica possibile.
Una delle giustificazioni teologiche a
sostegno del cardinale Kasper che oggi viene molto ripetuta è quella dello “sviluppo della
dottrina”. Non un
cambiamento, ma un
approfondimento che può portare a una nuova prassi.
Qui
c’è un grande equivoco. Lo sviluppo della dottrina, come è stato per esempio
presentato dal beato cardinale Newman o da altri buoni teologi, significa un
approfondimento nell’apprezzamento, nella conoscenza di una dottrina, non il
cambiamento della dottrina. Lo sviluppo in nessun caso porta al cambiamento.
Non
si può mai ammettere nella Chiesa un contrasto tra dottrina e prassi perché noi
viviamo la verità che Cristo ci comunica nella sua santa Chiesa e la verità non
è mai una cosa fredda. È la verità che apre a noi lo spazio per l’amore, per
amare veramente si deve rispettare la verità della persona, e della persona
nelle situazioni particolari in cui si trova. Così stabilire un tipo di
contrasto tra dottrina e prassi non rispecchia la realtà della nostra fede. Chi
sostiene le tesi del cardinale Kasper – cambiamento della disciplina che non
tocca la dottrina – dovrebbe spiegare come sia possibile. Se la Chiesa ammette
alla comunione una persona che è legata in un matrimonio ma sta vivendo con un’altra
persona un altro rapporto matrimoniale, cioè è in stato di adulterio, come si
può permettere questo e ritenere nello stesso tempo che il matrimonio sia indissolubile?
Quello tra dottrina e prassi è un falso contrasto che dobbiamo rigettare (Intervista
al card. Burke, 1
aprile 2015, di R. Cascioli).
Servendomi di uno studio del prof. Antonio Livi, richiamo solo
alcuni criteri per impostare il rapporto tra dottrina, magistero e
disciplina, che sarebbe
poi il vero nome della
cosiddetta ‘pastorale’.
1. Quanti hanno
la responsabilità, per dovere di ufficio ecclesiastico, di evitare il
disorientamento dottrinale tra i fedeli devono saper rifiutare ogni opinione
che abusivamente si presenti come teologica,
quando in realtà è meramente umana. Non
si tratta quindi di criticare un’opinione umana a partire da un’altra opinione
umana, né si tratta di contrapporre a un’ideologia un’altra ideologia: si
tratta piuttosto della necessità pastorale di non riconoscere come “teologica”
una tesi che, quale che sia l’autorità scientifica (filosofica, esegetica, sociologica,
psicologica, storiografica) di chi la propone, risulti basata su presunte
verità umane e non sulle verità rivelate da Dio. Un caso frequente di presunte
verità umane che servono da premesse di false argomentazioni teologiche miranti
a cambiare la dottrina della fede è la categoria immaginaria del cosiddetto “uomo
di oggi”, categoria basata su superficiali analisi psicologiche o
socioculturali che ignorano le sostanziali differenze tra la cultura
occidentale e quella orientale o africana, e identifica ingenuamente l’uomo di
oggi con le manifestazioni esteriori della coscienza umana quali sono elaborate
dall’industria dei media. Le
congetture circa ciò che dovrebbero essere le aspettative e le pretese del
cosiddetto “uomo di oggi” non possono portare il teologo a ignorare quello che
ha detto Cristo stesso, redentore dell’uomo, stabilendo i principi morali
fondamentali sulla sessualità e sul matrimonio, principi che la Chiesa non può
che considerare come assolutamente validi per gli uomini di ogni tempo e di
ogni luogo.
2. In questo
senso, nella nozione teologica di “dottrina cattolica” vanno distinti due
livelli. Il primo livello è il “nucleo dogmatico”, costituito da vari
elementi dottrinali, che vanno dalla predicazione degli Apostoli e dalla
dottrina unanime dei Padri della Chiesa, alle “formule dogmatiche” definite dai
concili ecumenici o dal solo Romano Pontefice quando parla ex cathedra, fino al
magistero ordinario e universale del medesimo Romano Pontefice; il “nucleo
dogmatico” della dottrina cattolica esprime dunque la verità della divina
rivelazione, la quale è stata sì donata da Dio e recepita dagli uomini nella storia - nella storia della
salvezza e nella storia della Chiesa - ma è di per sé soprastorica, e quindi universale e immutabile. Il secondo
livello è invece quello che si deve intendere come “interpretazione
ecclesiastica” e che per sua
natura è relativo alla storia e alle
diverse circostanze sociali che ne determinano la varietà di contenuti e di
forme espressive. Quando si parla di “interpretazione ecclesiastica” non ci si
riferisce alle tante forme di libera interpretazione che, entro precisi limiti
di contenuto, è consentita ai semplici fedeli, siano essi studiosi di teologia,
artisti, letterati o maestri di spiritualità. Questa interpretazione “privata”
ha un suo ruolo nell’economia della salvezza, e la Chiesa le riconosce un
grande valore come sussidio della catechesi, come potenziamento dei “santi
segni” nel culto divino (arte sacra), come edificazione del Popolo di Dio nella
ricerca della santità personale (ascetica e mistica) e nella missionarietà, soprattutto
quando si tratta dei carismi apostolici e dell’esperienza spirituale dei santi.
Non è però tale da sviluppare il dogma con dottrine nuove, come invece avviene
nel caso dell’interpretazione ecclesiastica, i cui risultati impegnano i
cattolici all’assenso interno dell’intelletto e anche all’obbedienza esterna
quando si tratta di disposizioni ecclesiastiche obbliganti. Alla categoria
logica dell’interpretazione ecclesiastica appartengono: (a) la catechesi nelle sue diverse forme, tra le quali ha un
particolare valore ecclesiale la redazione dei catechismi per la Chiesa
universale, come il Catechismus ad
parochos, redatto dopo il Concilio di Trento, e il Catechismo della Chiesa Cattolica, redatto dopo il Vaticano II; (b)
la sacra liturgia, le cui variazioni o riforme rispondono sempre all’esigenza
di adattare ilo rito alle diverse epoche e situazioni sociali, mantenendo
sempre immutata la funzione di “lex
orandi” come fedele espressione della “lex
credendi”; (c) le norme di diritto
ecclesiastico, rapportate tutte al criterio pastorale per cui “salus animarum suprema lex esto”.
3. In entrambi
i livelli – quello del dogma e quello
dell’interpretazione – è impossibile che possa o addirittura debba essere creduto un enunciato che risulti essere
in chiara contraddizione logica con quelli che la Chiesa ha già definito come
irriformabili. Pertanto, il vaglio critico delle proposte che sono state
presentate in occasione del Sinodo deve portare a respingere – in quanto
teologicamente infondate e dunque irricevibili – tutte quelle che con il pretesto
di presunte urgenze di tipo “pastorale” esercitano sul magistero un’indebita
pressione perché accondiscenda a quella che in realtà sarebbe una vera e
propria “riforma” della dottrina della Chiesa, a cominciare proprio da quelle
dottrine che sono da considerate irriformabili; ciò vale in particolare per l’indissolubilità
naturale del matrimonio e la sua sacramentalità per i battezzati, come pure per
le condizioni che consentono l’accesso all’Eucaristia). Mai comunque la Chiesa
può enunciare delle proposizioni di fede che risultino in contraddizione con quelli precedentemente formulati. Ma più
frequentemente il Magistero, invece di enunciare nuovi dogmi, si limita a
interpretare autorevolmente il contenuto del nucleo dogmatico, traendone talune
conseguenze dottrinali che ritiene pastoralmente opportune in vista della
catechesi e dell’evangelizzazione in un dato momento storico (questo è il caso
delle dottrine contenute nei documenti del Vaticano II, la cui ermeneutica, secondo
papa Benedetto XVI, è quella di una «riforma nella continuità dell’unico
soggetto-Chiesa»).
4. Per questo
ha ragione chi, come il cardinale Raymond Burke, va ripetendo che, quando si
parla di “sviluppo della dottrina”, non si deve pensare a “una modifica” ma
solo a «una comprensione più profonda» delle verità della fede. Invece, non ha
alcuna giustificazione teologica la proposta di sostanziali modifiche della
prassi liturgica e delle leggi canoniche che taluni presentano come
provvedimenti meramente “pastorali”. Nessuna
prassi pastorale può essere lecita e valida se risulta in contraddizione con la
dottrina della fede, perché – come ho spiegato più sopra – ogni scelta
pastorale altro non è se non un’interpretazione (esplicitazione, applicazione, adattamento)
del dogma.
In
conclusione: la vera riforma della Chiesa, dipende dal ‘permanere nella
verità di Cristo’, altrimenti è falsa. È vero che tutti i cristiani si riferiscono a Gesù
Cristo, ma «secondo la
persuasione dei cattolici – ricordava Giovanni Paolo II agli evangelici di
Germania – il dissenso verte su “ciò che è di Cristo”, su “ciò che è suo”: la
sua Chiesa e la sua missione, il suo messaggio, i suoi sacramenti e i ministeri
posti al servizio della parola e del sacramento» (Incontro con il consiglio della chiesa evangelica
di Germania, Magonza, 17 novembre 1980, in Insegnamenti, vol. III,
t. 3, p. 1256).
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