lunedì 25 maggio 2015

Don Nicola Bux: Introduzione alla Conferenza del cardinal Raymond Leo Burke

Su questo blog avevamo già dato conto della presentazione a Brindisi e Lecce, da parte del card. Raymond Leo Burke, il 7 e l’8 maggio scorsi, del libro Permanere nella Verità di Cristo (v. qui e qui).
A presentare le relazioni del porporato ci ha pensato don Nicola Bux, il quale gentilmente ci ha girato – e lo pubblichiamo in anteprima qui, su questo blog – il testo della sua Introduzione.


Introduzione alla Conferenza del cardinal Raymond Leo Burke

Brindisi-Lecce, 7-8 maggio 2015

di don Nicola Bux


In vista del Sinodo ordinario del prossimo ottobre, a che punto siamo?
Adesso c’è una discussione molto più estesa sui temi trattati dal Sinodo e questo è un bene. C’è un numero maggiore di cardinali, vescovi e laici che stanno intervenendo e questo è molto positivo. Questo si deve anche al libro “Permanere nella Verità di Cristo”, a cui il card. Burke ha contribuito insieme ad altri 4 cardinali e 4 specialisti sul matrimonio, edito da Cantagalli. Un libro che presenta quello che la Chiesa ha sempre insegnato e praticato sul matrimonio e sulla comunione. È certo che il libro è stato scritto come aiuto in vista del Sinodo per rispondere alla tesi del cardinale Kasper. Ma non è polemico, è una presentazione fedelissima alla tradizione, ed è anche della più alta qualità scientifica possibile.
Una delle giustificazioni teologiche a sostegno del cardinale Kasper che oggi viene molto ripetuta è quella dello sviluppo della dottrina”. Non un cambiamento, ma un approfondimento che può portare a una nuova prassi.
Qui c’è un grande equivoco. Lo sviluppo della dottrina, come è stato per esempio presentato dal beato cardinale Newman o da altri buoni teologi, significa un approfondimento nell’apprezzamento, nella conoscenza di una dottrina, non il cambiamento della dottrina. Lo sviluppo in nessun caso porta al cambiamento.
Non si può mai ammettere nella Chiesa un contrasto tra dottrina e prassi perché noi viviamo la verità che Cristo ci comunica nella sua santa Chiesa e la verità non è mai una cosa fredda. È la verità che apre a noi lo spazio per l’amore, per amare veramente si deve rispettare la verità della persona, e della persona nelle situazioni particolari in cui si trova. Così stabilire un tipo di contrasto tra dottrina e prassi non rispecchia la realtà della nostra fede. Chi sostiene le tesi del cardinale Kasper – cambiamento della disciplina che non tocca la dottrina – dovrebbe spiegare come sia possibile. Se la Chiesa ammette alla comunione una persona che è legata in un matrimonio ma sta vivendo con un’altra persona un altro rapporto matrimoniale, cioè è in stato di adulterio, come si può permettere questo e ritenere nello stesso tempo che il matrimonio sia indissolubile? Quello tra dottrina e prassi è un falso contrasto che dobbiamo rigettare (Intervista al card. Burke, 1 aprile 2015, di R. Cascioli).
Servendomi di uno studio del prof. Antonio Livi, richiamo solo alcuni criteri per impostare il rapporto tra dottrina, magistero e disciplina, che sarebbe poi il vero nome della cosiddetta ‘pastorale’.

1. Quanti hanno la responsabilità, per dovere di ufficio ecclesiastico, di evitare il disorientamento dottrinale tra i fedeli devono saper rifiutare ogni opinione che abusivamente si presenti come teologica, quando in realtà è meramente umana. Non si tratta quindi di criticare un’opinione umana a partire da un’altra opinione umana, né si tratta di contrapporre a un’ideologia un’altra ideologia: si tratta piuttosto della necessità pastorale di non riconoscere come “teologica” una tesi che, quale che sia l’autorità scientifica (filosofica, esegetica, sociologica, psicologica, storiografica) di chi la propone, risulti basata su presunte verità umane e non sulle verità rivelate da Dio. Un caso frequente di presunte verità umane che servono da premesse di false argomentazioni teologiche miranti a cambiare la dottrina della fede è la categoria immaginaria del cosiddetto “uomo di oggi”, categoria basata su superficiali analisi psicologiche o socioculturali che ignorano le sostanziali differenze tra la cultura occidentale e quella orientale o africana, e identifica ingenuamente l’uomo di oggi con le manifestazioni esteriori della coscienza umana quali sono elaborate dall’industria dei media. Le congetture circa ciò che dovrebbero essere le aspettative e le pretese del cosiddetto “uomo di oggi” non possono portare il teologo a ignorare quello che ha detto Cristo stesso, redentore dell’uomo, stabilendo i principi morali fondamentali sulla sessualità e sul matrimonio, principi che la Chiesa non può che considerare come assolutamente validi per gli uomini di ogni tempo e di ogni luogo.

2. In questo senso, nella nozione teologica di “dottrina cattolica” vanno distinti due livelli. Il primo livello è il “nucleo dogmatico”, costituito da vari elementi dottrinali, che vanno dalla predicazione degli Apostoli e dalla dottrina unanime dei Padri della Chiesa, alle “formule dogmatiche” definite dai concili ecumenici o dal solo Romano Pontefice quando parla ex cathedra, fino al magistero ordinario e universale del medesimo Romano Pontefice; il “nucleo dogmatico” della dottrina cattolica esprime dunque la verità della divina rivelazione, la quale è stata sì donata da Dio e recepita dagli uomini nella storia - nella storia della salvezza e nella storia della Chiesa - ma è di per sé soprastorica, e quindi universale e immutabile. Il secondo livello è invece quello che si deve intendere come “interpretazione ecclesiastica” e che per sua natura è relativo alla storia e alle diverse circostanze sociali che ne determinano la varietà di contenuti e di forme espressive. Quando si parla di “interpretazione ecclesiastica” non ci si riferisce alle tante forme di libera interpretazione che, entro precisi limiti di contenuto, è consentita ai semplici fedeli, siano essi studiosi di teologia, artisti, letterati o maestri di spiritualità. Questa interpretazione “privata” ha un suo ruolo nell’economia della salvezza, e la Chiesa le riconosce un grande valore come sussidio della catechesi, come potenziamento dei “santi segni” nel culto divino (arte sacra), come edificazione del Popolo di Dio nella ricerca della santità personale (ascetica e mistica) e nella missionarietà, soprattutto quando si tratta dei carismi apostolici e dell’esperienza spirituale dei santi. Non è però tale da sviluppare il dogma con dottrine nuove, come invece avviene nel caso dell’interpretazione ecclesiastica, i cui risultati impegnano i cattolici all’assenso interno dell’intelletto e anche all’obbedienza esterna quando si tratta di disposizioni ecclesiastiche obbliganti. Alla categoria logica dell’interpretazione ecclesiastica appartengono: (a) la catechesi nelle sue diverse forme, tra le quali ha un particolare valore ecclesiale la redazione dei catechismi per la Chiesa universale, come il Catechismus ad parochos, redatto dopo il Concilio di Trento, e il Catechismo della Chiesa Cattolica, redatto dopo il Vaticano II; (b) la sacra liturgia, le cui variazioni o riforme rispondono sempre all’esigenza di adattare ilo rito alle diverse epoche e situazioni sociali, mantenendo sempre immutata la funzione di “lex orandi” come fedele espressione della “lex credendi”; (c) le norme di diritto ecclesiastico, rapportate tutte al criterio pastorale per cui “salus animarum suprema lex esto”.

3. In entrambi i livelli – quello del dogma e quello dell’interpretazione – è impossibile che possa o addirittura debba essere creduto un enunciato che risulti essere in chiara contraddizione logica con quelli che la Chiesa ha già definito come irriformabili. Pertanto, il vaglio critico delle proposte che sono state presentate in occasione del Sinodo deve portare a respingere – in quanto teologicamente infondate e dunque irricevibili – tutte quelle che con il pretesto di presunte urgenze di tipo “pastorale” esercitano sul magistero un’indebita pressione perché accondiscenda a quella che in realtà sarebbe una vera e propria “riforma” della dottrina della Chiesa, a cominciare proprio da quelle dottrine che sono da considerate irriformabili; ciò vale in particolare per l’indissolubilità naturale del matrimonio e la sua sacramentalità per i battezzati, come pure per le condizioni che consentono l’accesso all’Eucaristia). Mai comunque la Chiesa può enunciare delle proposizioni di fede che risultino in contraddizione con quelli precedentemente formulati. Ma più frequentemente il Magistero, invece di enunciare nuovi dogmi, si limita a interpretare autorevolmente il contenuto del nucleo dogmatico, traendone talune conseguenze dottrinali che ritiene pastoralmente opportune in vista della catechesi e dell’evangelizzazione in un dato momento storico (questo è il caso delle dottrine contenute nei documenti del Vaticano II, la cui ermeneutica, secondo papa Benedetto XVI, è quella di una «riforma nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa»).

4. Per questo ha ragione chi, come il cardinale Raymond Burke, va ripetendo che, quando si parla di “sviluppo della dottrina”, non si deve pensare a “una modifica” ma solo a «una comprensione più profonda» delle verità della fede. Invece, non ha alcuna giustificazione teologica la proposta di sostanziali modifiche della prassi liturgica e delle leggi canoniche che taluni presentano come provvedimenti meramente “pastorali”. Nessuna prassi pastorale può essere lecita e valida se risulta in contraddizione con la dottrina della fede, perché – come ho spiegato più sopra – ogni scelta pastorale altro non è se non un’interpretazione (esplicitazione, applicazione, adattamento) del dogma.

In conclusione: la vera riforma della Chiesa, dipende dal ‘permanere nella verità di Cristo’, altrimenti è falsa. È vero che tutti i cristiani si riferiscono a Gesù Cristo, ma «secondo la persuasione dei cattolici – ricordava Giovanni Paolo II agli evangelici di Germania – il dissenso verte su “ciò che è di Cristo”, su “ciò che è suo”: la sua Chiesa e la sua missione, il suo messaggio, i suoi sacramenti e i ministeri posti al servizio della parola e del sacramento» (Incontro con il consiglio della chiesa evangelica di Germania, Magonza, 17 novembre 1980, in Insegnamenti, vol. III, t. 3, p. 1256).

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