Già il mancato riconoscimento, nella Carta
costituzionale, del matrimonio quale vincolo “indissolubile” costituì una delle
più gravi colpe del partito, asseritamente “cattolico”, qual era la Democrazia
cristiana.
Se si leggono gli Atti dell’Assemblea
costituente, quando si doveva votare in maniera decisiva su quest’aggettivo,
molte furono le defezioni, non tanto negli schieramenti avversi, comunista e “liberale”,
quanto proprio tra le fila della D.C.
In effetti, il c.d. emendamento Grilli,
che escludeva dalla formulazione dell’elaborando futuro art. 29 Cost. l’aggettivo
– al matrimonio – “indissolubile” passò nell’Aula per appena tre voti! Nella
notte del 23 aprile 1947, il suddetto emendamento fui approvato con 194 voti
contro 191, a scrutinio segreto. Per questo, il termine indissolubile non fu
inserito nella Costituzione.
Ciò fu possibile perché tradirono ben
trentasei deputati “democristiani”, che risultarono assenti. Anzi, addirittura
molti di questi uscirono dall’Aula al momento del voto e vi rientrarono subito
dopo, a votazione conclusa.
Anni dopo, nel 1969, il 16 ottobre, un deputato MSI, on.le Giuseppe (Beppe) Niccolai, riportò, durante la discussione della
legge sul divorzio, uno dei classici aneddoti di Giulio Andreotti: «Signor Presidente,
onorevoli colleghi, onorevole sottosegretario, l'onorevole Andreotti su Concretezza,
in un articolo dal titolo: “Per tre voti”, scrive che “la sconfitta
sulla parola indissolubile il 23 aprile 1947, fu una sconfitta occasionale,
perché banale fu la causa di molte assenze nelle file della democrazia
cristiana”. “Un collega era” - scrive l'onorevole Andreotti – “in un'aula del
palazzo con il mal di pancia, una collega a fare da relatrice in un congresso
eucaristico. Quattro democristiani in più presenti a Montecitorio in quel
momento avrebbero evitato che si dovesse parlare oggi dell'argomento”. “Per
questo” - conclude Andreotti – “noi possiamo affermare che anche storicamente è
più che legittimo l'opporsi alla dissolubilità del matrimonio”. Dunque, è una battaglia
storica questa della democrazia cristiana, battaglia sui punti fermi, sui
principi irrevocabili, irrinunciabili» (Atti parlamentari, Camera dei
deputati, V Legislatura, Discussioni, Seduta antimeridiana del 16 ottobre 1969,
p. 11095).
L’on.le
Niccolai, dunque, ricordò come nel ’47, i democristiani erano col mal di pancia
o dovevano relazionare ad un congresso eucaristico e non si accorsero che si doveva
votare sull’indissolubilità ….
Nel ’47,
però, le forze della Chiesa erano ancora sane: poche ore dopo la vergognosa
votazione nella quale erano risultati assenti innumerevoli democristiani, il
card. Adeodato Giovanni Piazza, insigne Patriarca di Venezia, e presidente, all’epoca,
della Commissione Episcopale Italiana (l’antesignana della CEI), che presiedeva anche l'Azione Cattolica Italiana, scrisse una
dura lettera di riprovazione ad Alcide De Gasperi (presidente della DC) ed all'on.le Attilio Piccioni (segretario della DC), nella quale il prelato
concludeva: «gli assenti considerino se non abbiamo insieme tradito la causa
della religione e della famiglia cristiana e la fiducia dei loro elettori» (la lettera è riprodotta
in Giovanni Sale, Il Vaticano e
la Costituzione, con Prefazione di Francesco
Paolo Casavola, Jaca Book, Milano, 2008, p. 276).
E De Gasperi, che si vorrebbe ahinoi santificare, non ebbe problemi morali di sorta … . Evidentemente.
Tra gli assenti - e lo si vede dagli Atti dell'Assemblea Costituente (Atti dell'Assemblea Costituente, Seduta di Mercoledì 23 aprile 1947, pp. 3286-3287) - vi era il c.d. "Sindaco santo", cioè Giorgio La Pira, che anch'egli si vorrebbe canonizzare, ma che ritenne evidentemente, alquanto incoerentemente con la fede che diceva di professare, poca cosa votare a favore dell'indissolubilità del matrimonio e della causa della religione, come lamentò il card. Piazza. Un cripto-divorzista allora? Non lo possiamo affermare, ma anche non lo possiamo assolutamente negare: certa è la sua assenza ingiustificata in un momento cruciale dell'Assemblea costituente, proprio quando doveva definirsi l'indissolubilità del vincolo nuziale.
E De Gasperi, che si vorrebbe ahinoi santificare, non ebbe problemi morali di sorta … . Evidentemente.
Tra gli assenti - e lo si vede dagli Atti dell'Assemblea Costituente (Atti dell'Assemblea Costituente, Seduta di Mercoledì 23 aprile 1947, pp. 3286-3287) - vi era il c.d. "Sindaco santo", cioè Giorgio La Pira, che anch'egli si vorrebbe canonizzare, ma che ritenne evidentemente, alquanto incoerentemente con la fede che diceva di professare, poca cosa votare a favore dell'indissolubilità del matrimonio e della causa della religione, come lamentò il card. Piazza. Un cripto-divorzista allora? Non lo possiamo affermare, ma anche non lo possiamo assolutamente negare: certa è la sua assenza ingiustificata in un momento cruciale dell'Assemblea costituente, proprio quando doveva definirsi l'indissolubilità del vincolo nuziale.
Si
asserì che l’aggettivo “indissolubile” sarebbe stato superfluo, visto che l’art.
7 Cost., recependo il Concordato lateranense nel quale il matrimonio era
considerato indissolubile, di fatto rendeva il matrimonio – da un punto di
vista costituzionale – indissolubile. Per cui sarebbe stata – sostenne anche l’on.le
Grilli promotore dell’emendamento segnalato – un’inutile ripetizione.
In
realtà, non fu così visto che quando si discussero alla Camera le pregiudizialità
costituzionali e poi quando affrontò la questione la Corte costituzionale, si
argomentò che il mancato inserimento dell’aggettivo «indissolubile» legittimava
l’introduzione del divorzio e che non era sufficiente a rendere tale il
matrimonio il recepimento del Concordato lateranense.
La
Consulta, infatti, ritenne la questione di costituzionalità infondata, giacché
il legislatore italiano non aveva assunto l’obbligo – col Concordato – di non
introdurre il divorzio, rilevando che, in sede di trattative tra lo Stato
italiano e la Santa Sede, fu proposto di impegnare il primo per l’indissolubilità
del matrimonio, ma che poi tale idea fu abbandonata (Corte cost. 8.7.1971 n.
169).
Sempre l’on.le Niccolai, nella stessa
seduta che abbiamo ricordato, stigmatizzando le colpe della D.C., aggiungeva: «Stanno così le cose? Me lo
chiedo perché, quando ho letto l'articolo: “Per tre voti”, per cui gli assenti
scriverebbero storia, altre assenze e altre latitanze, molto più vicine nel
tempo, si sono affollate alla mia mente. Voto della Commissione giustizia della
Camera: la proposta di legge unificata Fortuna-Baslini passa con 18 voti contro
5; democristiani presenti al voto: su 20, 5. Tutti colpiti da mal di pancia? Ho
fatto ricerche: quel giorno non si celebrava alcun congresso eucaristico, né
l'ambulatorio di palazzo Montecitorio registrava mali di pancia. E dove erano
quei 15 democristiani? Come si spiega un così massiccio assenteismo su un
problema che meno degli altri divide la democrazia cristiana? Voto tecnico, si
dirà; ma il chiasso che da quel voto della Commissione giustizia venne fuori
non convalida certo questa tesi» (Atti parlamentari, cit., p. 11096).
Certamente
il divorzio fu voluto dalle forze anticristiane, ma sicuramente non sarebbe
passato senza la complicità dei politici fantomaticamente “cristiani”, nascosti
dietro lo “scudo crociato” e del clero che lo sosteneva.
La legge
divorzile in Italia fu approvata il 28 nov. 1969 alla Camera, con 325 voti a
favore e 283 contrari.
Il 1°
dicembre 1970, il Senato approvò la legge. E c’erano sedicenti cattolici al
governo, i quali non sbarrarono mai la strada alla legge divorzile!
Papa
Montini che fece? Paolo VI era ... in Australia e non pare che disse qualcosa. Il segretario
di Stato, l’equivoco card. Jean Marie Villot, chiosò che il divorzio era
vigente in Francia da tantissimi anni e, quindi, non era il caso di farsi
troppi problemi.
Oggi, senza alcuna opposizione della Chiesa “francescana” e solo con blande ed innocue prese di posizione, è stata approvata una legge,
che accorcia ancor più i tempi per ottenere il divorzio …. .
Nella memoria liturgica di S. Giovanni, apostolo ed evangelista, davanti a Porta Latina, posto questo contributo di Cristina Siccardi.
La devastazione morale si allarga con il
divorzio breve
di Cristina Siccardi
Ancora un colpo di machete sulla famiglia, l’ennesimo. «Un altro impegno mantenuto. Avanti, è la
#volta buona» ha twittato tutto soddisfatto il premier Matteo
Renzi, quando il Parlamento italiano ha approvato in via definitiva (con 398
sì, 28 no e 6 astenuti) la riforma delle norme sul divorzio, che stabilisce che
una famiglia si può cancellare in soli sei mesi.
Non ci sono soltanto gli attentati terroristici islamici a colpire
l’Occidente, ma gli stessi legislatori occidentali innestano suicidi a catena,
con scelte politiche i cui danni sono incalcolabili. Da oggi in Italia
basteranno sei mesi per rompere il legame matrimoniale ed essere divorziati; al
massimo un anno, se si decide di ricorrere al giudice, contro i tre anni che
servivano fino a oggi. E se ci sono bambini? E se ci sono disabili? Che importa
allo Stato? Si saranno creati individui sempre più deboli, sempre più fragili,
sempre più in pericolo e in balia del totalitarismo delle libertà di questa
breve vita, quelle che ti fanno scivolare, dritte, dritte, veloci, veloci nellaGeenna.
Da oggi nella “cattolica” Italia ogni cittadino coniugato avrà la
possibilità di accedere al divorzio, tramite una negoziazione tra i coniugi,
assistiti da avvocati, senza passaggio in Tribunale, anche nel caso in cui ci
siano figli minori o disabili non autosufficienti. La procedura lampo è
scaricata sulle Procure della Repubblica: il pubblico ministero incaricato avrà
tempo solo cinque giorni per valutare che i diritti dei figli siano garantiti
e, in caso di parere negativo, per rivolgersi al giudice. Nessuna pietà per
nessuno: né per moglie e marito, che potrebbero avere un ripensamento sulla
loro situazione, né per i figli.
A biasimare una simile legge non sono soltanto i soliti
reazionari. Si legge, infatti, nell’articolo di Luciano Moia, apparso su
“Avvenire” il 23 aprile scorso, dal titolo La devastante china anti-familiare. Divorzio
breve, un incivile traguardo: «Servono
leggi e provvedimenti che sostengano l’impegno della famiglia e che
contribuiscano alla crescita di consapevolezza della coppia. E ci ritroviamo,
invece, con norme che, favorendo e incentivando il già drammatico senso di
precarietà delle relazioni, finiscono per sancire il malcostume
dell’instabilità affettiva e del disimpegno familiare. Questo sì ‒
abbiamo il dovere di gridarlo dai tetti ‒ autentico “traguardo di inciviltà”».
Ha dichiarato, il Direttore di “Famiglia Cristiana”, don Antonio
Sciortino: «(…) non riusciamo proprio a
condividere il clima di festosa celebrazione che ha accolto, in Parlamento e su
quasi tutti i mass media, l’approvazione della legge sul cosiddetto “divorzio
breve”, che ha ridotto da tre anni a sei o dodici mesi il tempo che può passare
dalla separazione al divorzio vero e proprio. (…) È come se la società dicesse
agli sposi: “Se volete separarvi, fate più in fretta che potete, ma da noi non
aspettatevi nulla” (…) non possiamo considerare l’approvazione della legge sul
divorzio breve come una conquista di civiltà: oggi, sia i coniugi, sia i figli,
sia la società… tutti sono più poveri e più soli, in una falsa libertà, che
diventa una solitudine sempre più abbandonata. Abbiamo smarrito la serietà del
matrimonio. Abbiamo banalizzato l’amore e gli impegni duraturi, soccombendo
alla prima difficoltà». Monsignor Nunzio Galantino, Segretario
generale della Cei, è intervenuto in questi termini: «Una accelerazione per quel che riguarda il divorzio
non fa che consentire una deriva culturale. Togliere spazio alla riflessione
non risolverà. Il matrimonio e la famiglia restano il fondamento della nostra
società» (http://www.famigliacristiana.it/articolo/mons-galantino-una-fretta-che-peggiora-le-cose.aspx).
La deriva culturale è comunque dovuta ad una deriva religiosa: la
Chiesa, da diversi anni, ha rinunciato a denunciare i peccati e segue
l’andamento del mondo, ogni giorno più lontano da Dio.
Possibile, però, che i commenti critici arrivino sempre il giorno
dopo, a fatto compiuto? Si sa che prevenire è meglio che curare, e non solo a
livello sanitario. Una battaglia non soltanto culturale, ma anche ecclesiastica
era possibile, era doverosa: era l’occasione giusta per ritornare a difendere
l’istituto sacramentale del matrimonio! «La
sua fede cristiana quanto conta, se conta, nel suo fare politica?»,
chiese a Matteo Renzi, nel 2013, il giornalista Antonio Sanfrancesco di
“Famiglia Cristiana” (http://www.partitodemocratico.it/doc/257939/renzi-sono-un-cattolico-ma.htm)
e così il “cattolico” fiorentino rispose: «La
mia fede arricchisce tutto quello che faccio perché credo nella risurrezione.
Da cattolico impegnato in politica non mi vergogno della mia appartenenza
religiosa. Al contempo, non rispondo al mio vescovo o alla gerarchia religiosa
ma ai cittadini che mi hanno eletto. Per me questa è la laicità. Sui temi etici
e morali io sono per un confronto, purché si abbia l’onestà intellettuale di
non scivolare in un moralismo senza morale».
La peste nera, abbattutasi sulla famiglia italiana con il
femminismo prima, il divorzio poi, per arrivare alla 194 e oggi con il
“matrimonio usa e getta”, è il risultato di quella Democrazia che osava
definirsi Cristiana. La stessa domanda posta a Renzi, sarebbe stata da porre a
molti membri dello scudo crociato il 12 maggio 1974: 59,1 % la percentuale di
voti contrari, nel Referendum, all’abrogazione della legge sul divorzio. Giulio
Andreotti, fino all’ultimo, provò a percorrere la via del “doppio binario”:
matrimonio religioso indissolubile e matrimonio civile con la possibilità del
divorzio… l’importante era evitare lo scontro con il Pci e i radicali. Aldo
Moro, quando la campagna elettorale entrò nel vivo, rimase in disparte. Allora,
ci chiediamo, quale differenza passa fra i cattolici di allora e i cattolici di
oggi? Probabilmente, nella sostanza, nessuna. Oggi, si potrebbe dire, sono più
disinibiti e sono più lesti nel seminare gli errori.
Quando Enrico Berlinguer incontrò lo storico Pietro Scoppola,
punto di riferimento di molti di quei cattolici per il “No” referendario, gli
confessò: «Abbiamo vinto troppo».
Berlinguer era un politico intelligente, aveva compreso che non aveva vinto la
struttura del Pci, la sua capacità di mobilitazione, bensì aveva vinto il
pensiero laico e radicale.
Per la prima volta vinse un voto slegato dalle organizzazioni di
massa; scelte individuali, non voto d’appartenenza. Molti cattolici votarono a
favore del divorzio perché volevano emanciparsi dalla legge divina e guardare
all’uomo moderno che sogna un mondo privo di doveri e di regole. Ma la natura,
in tutte le sue multiformi manifestazioni, è libera soltanto in virtù del suo
seguire le norme del Creatore. Altrimenti è la rovina.
Il piano di Dio è che il matrimonio sia un impegno per tutta la
vita terrena: «quello dunque che Dio ha unito,
l’uomo non lo separi» (Mt 19, 6). Con il divorzio breve è logico
che le convivenze aumenteranno ancora di più, così come i divorzi civili e,
come già rilevano le statistiche, verranno sempre meno le domande alla Rota
romana di richiesta per le cause di nullità matrimoniali… La lussuria, in
definitiva, è la grande protagonista di questi tempi: «Quando giungon davanti a la ruina, / quivi le
strida, il compianto, il lamento; / bestemmian quivi la virtù divina. / Intesi
ch’a così fatto tormento / enno dannati i peccator carnali, /che la ragion
sommettono al talento» (Dante, Inferno, Canto V, vv. 34-39).
Soltanto la Chiesa bimillenaria ha argomenti idonei per porre
finalmente freno al neopaganesimo: il Sinodo sulla famiglia sarà in grado di
esporli e Papa Francesco avrà misericordia delle anime?
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