Quest’oggi,
mediante l’effusione dello Spirito Santo, Gesù risorto da morte ed assiso alla
destra del Padre, comunica alle membra del suo mistico corpo la sua vita
divina. Così la Chiesa che fino ad oggi vagiva come in culla tra le ristrette
mura del cenacolo, conseguita ormai la sua integrale perfezione, tutta radiante
di santità e di verità, fa la prima apparizione al mondo. Lo Spirito Santo, che
fluisce quest’oggi nelle sue vergini membra, le comunica la vita di Gesù,
associandola ai suoi ideali, all’opera sua redentrice; onde Paolo ha potuto ben
dire che le fatiche apostoliche degli operai evangelici fanno parte dell’opera
della Redenzione; anzi, il Salvatore stesso, sulla via di Damasco, ha
dichiarato al medesimo apostolo che Egli appunto era colui che veniva
perseguitato e soffriva nelle membra della sua Chiesa.
Il protagonista
della prima Pentecoste cristiana è Pietro, intorno al quale si stringe il
piccolo gregge del Sion: egli inizia quest’oggi l’esercizio del primato
pontificio annunziando per il primo la novella evangelica ai rappresentanti
delle varie nazioni, senza distinzione di patria e d’origine, senza differenza
di confini di regni o di città; a nome della Chiesa intera, è parimente Pietro
che protesta contro la volgare calunnia di ebrietà apposta agli apostoli; è
egli infine che in quella prima predica converte e battezza i primi tremila
neofiti, che aumentano la famiglia del Nazareno.
Perciò l’odierna
stazione, a differenza del giorno di Pasqua, è nella Basilica vaticana, dove
una volta il Papa celebrava i primi vespri, le vigilie notturne e la messa. Secondo
il rito romano delle maggiori solennità dell’anno, questa notte l’ufficio
vigiliare era doppio; dapprima si celebrava nell’ipogeo sotterraneo, dove si
venerava l’arca sepolcrale dell’Apostolo, poi un secondo all’altare maggiore.
In quest’ultimo, che era il più solenne, i canonici cantavano la prima lezione,
i cardinali la seconda e il Papa stesso la terza. Dopo la messa il pontefice
veniva incoronato col regnum, e ritornava processionalmente in
Laterano (cfr. Schuster, Liber
Sacramentorum, IV, pp. 152-153).
La sequenza che
figura oggi nel Messale è attribuita da alcuni ad Innocenzo III; in ogni caso,
ne sostituisce un’altra che era molto bella: Sancti Spiritus adsit
nobis gratia, menzionata negli Ordines Romani del XV
secolo e di cui l’autore è il famoso monaco Notker I di San Gallo, noto anche
come Notkero il balbuziente (*840 - + 6 aprile 912), sebbene alcuni l’attribuiscano
all'arcivescovo di Canterbury dell'inizio del XIII sec., Stephen Langton. Si
racconta che, quando, nel 1215, Innocenzo III sentì questa composizione
melodica piena di una sì grande devozione, si stupì che il suo autore non fosse
stato ancora canonizzato. Bisogna notare come sia una prosa musicale e ritmica,
ad imitazione delle composizioni dello stesso genere di origine bizantina. Il
testo solo non dice grandi cose, bisogna tenere conto, però, del suo
rivestimento melodico (la traduzione offerta dal beato Schuster, però, ha delle
varianti rispetto al testo latino).
Durante tutta
l’Ottava di Pentecoste s’inseriscono nel Canone consacratorio le commemorazioni
dello Spirito Santo che abbiamo già riferite nella messa vigiliare. Questa
volta tali rievocazioni della primitiva Pentecoste cristiana nel Cenacolo sulla
collina di Sion, riescono tanto più commoventi quando si pensa alla funzione
speciale che compì lo Spirito Santo sul Calvario. Allora egli negli ardori
della sua ineffabile santità consumò la divina vittima, la quale per
Spiritum Sanctum semetipsum obtulit immaculatum Deo, «Con uno Spirito
eterno offrì se stesso senza macchia a Dio» (Eb 9, 14). Onde i
Padri invocando il Paraclito nelle antiche epiclesi eucaristiche, lo invitavano
a discendere sull’altare e ad adombrare le sacre oblate quale testis
passionum Christi tui, «Testimone delle sofferenze di Cristo» (1 Pt 5, 1). È sempre questa la
funzione dello Spirito Santo: Ille testimonium perhibebit de me, «Egli
mi renderà testimonianza» (Gv 15, 26). Egli che era ben conscio
dell’ineffabile martirio del Crocifisso, giacché l’aveva santificato nei suoi
ardori, deve ora renderne testimonianza al mondo. E in qual modo? Assicurando
nelle anime gli effetti della redenzione mediante l’effusione dei doni
carismatici.
Tertulliano ha
definito il Cristiano come composto di corpo, d’anima e di Spirito Santo. La
frase ha un po’ del paradossale, ma dev’essere spiegata nel senso inteso
dall’autore. È lo Spirito Santo che, con la sua grazia, eleva interiormente
l’anima all’essere soprannaturale di figlia adottiva di Dio. La mozione del
Paraclito è dunque quella che determina tutti i nostri atti meritori: di modo
che, quando invochiamo Gesù, quando gemiamo ai suoi piedi, quando soffriamo,
quando operiamo per Dio, è sempre lo Spirito Santo che prega, che geme, che opera
in noi. Egli inoltre testimonium reddit spiritui nostro
quod sumus filii Dei, «Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che
siamo figli di Dio» (Rm. 8, 16); anzi è precisamente lo Spiritum
Filii sui, «Lo Spirito del suo Figlio» (Gal. 4, 6), che Dio ci ha
infuso per metterci a parte insieme con Gesù del carattere di figli suoi
prediletti. Questo medesimo Spirito, che durante la vita abita in noi e
c’imprime l’impulso verso il cielo, non termina l’opera sua con la morte. Egli
all’ultimo giorno esige la riedificazione del suo mistico tempio formata
nell’anima credente, e questo propter inhabitantem Spiritum eius in
nobis, «per mezzo del suo Spirito che abita in noi» (Rm 8, 11).
La Pentecoste,
espressione greca che vuole dire cinquantesimo giorno, è l’ottava
doppia e giubilare della festa di Pasqua (7 x 7 +1). È, allo stesso tempo, il
secondo punto culminante del ciclo festivo di Pasqua. La Pentecoste non è una
festa indipendente dunque; è il completamento e la conclusione della festa di
Pasqua. Potremmo dire forse che la Pentecoste è per Pasqua ciò che l’Epifania è
per Natale. Bisogna tenere tuttavia conto della differenza essenziale. I due
cicli festivi dell’anno liturgico sono costruiti alla stessa maniere: c’è
dapprima una salita che è la preparazione, poi un avanzamento sulle altezze
durante il tempo delle feste, poi una discesa nella pianura durante il tempo
che conclude il ciclo. Il tempo di preparazione del ciclo invernale è
l’Avvento. Terminato questo tempo, restiamo stupiti davanti alle ricchezze di
poesia simbolica e drammatica che la Chiesa ha riunito. La stessa liturgia ci
parla di ciò nei suoi canti e le sue lezioni. Possiamo affermare che nessuno
tempo dell’anno liturgico possiede una tale sovrabbondanza di cantici, di
versetti, di canti come quello natalizio. Come un corno di abbondanza la
liturgia ci versa la profusione variegata dei suoi canti.
Segue, senza
soluzione di continuità, come un’emanazione naturale dell’Avvento, la festa del
Natale. Il tempo festivo dei due cicli ha ancora questo di comune che
comprende, nell’uno e nell’altro caso, due grandi feste che sono come i piloni
del ponte che sopportano sempre i tempi festivi. Nel ciclo d’inverno, abbiamo
il Natale e l’Epifania; nel ciclo d’estate, la Pasqua e la Pentecoste. C’è
tuttavia una differenza tra queste due coppie di feste. Pasqua e Pentecoste rappresentano
un sviluppo organico dello stesso pensiero di salvezza, il Natale e l’Epifania
sono la ripetizione dello stesso pensiero. La celebrazione di queste due feste
si spiega soltanto per ragioni storiche. Natale è la festa della Natività
nell’Occidente e l’Epifania quella nell’Oriente. L’Occidente ha adottato
l’Epifania e l’Oriente il Natale. Queste due feste dell’Oriente e
dell’occidente sono un monumento venerabile dell’unione che regnava una volta
tra le due Chiese, unione che vorremmo vedere rinascere, dopo una separazione
millenaria.
Le circostanze
storiche che hanno fatto di queste due feste dei doppioni c’aiuteranno a
comprendere molte particolarità ed a risolvere bene delle difficoltà che
risultano da questo doppio impiego. Per noi Occidentali, la festa di Natale sembrerà
sempre più importante di quella dell’Epifania, malgrado il rango più elevato di
questa ultima. Il Natale è e rimane la nostra festa, l’Epifania ci tocca meno da
vicino. Dopo quattro settimane dove il desiderio ha teso fortemente il nostro
spirito, Natale è il vero compimento dell’Avvento. Bisogna confessare tuttavia
che tra l’Avvento e l’Epifania la parentela di pensieri è più stretta. Natale è
tuttavia la chiusura dell’Avvento. È sufficiente percorrere i testi della
Vigilia notturna. Riprendiamo sempre questo canto: Domani il peccato
originale sarà distrutto. Il Natale è la festa della Redenzione. Invece,
c’occorre aspettare fino all’Epifania per vedere realizzarsi la gloriosa visita
del Re il cui pensiero domina l’Avvento.
Del resto il Natale
e l’Epifania non sono dei semplici doppioni. La Chiesa occidentale ha ricevuto
dalla Chiesa orientale la sua festa della Natività col suo contenuto spirituale
orientale e l’ha sviluppata secondo il suo genio proprio. L’ha fecondata
magnificamente e l’ha arricchita. Il suo sguardo si è alzato dal circolo
storico ristretto della nascita del Signore fino ad abbracciare la prospettiva
della monarchia del Cristo che domina i tempi. L’Avvento dell’Occidente e la
sua festa di Natale hanno beneficiato di quest’allargamento di visuale.
Finalmente le due feste della Natività sono diventate due solennità distinte
con un oggetto indipendente ed una progressione interiore.
Abbiamo qualche
cosa di analogo a quello che vediamo nel ciclo di Pasqua. A Pasqua il sole
della Risurrezione si alza ed illumina il mondo con i suoi raggi brillanti.
Alla Pentecoste, questo sole è al suo mezzogiorno, è al suo zenit,
e la sua calda luce crea la vita e la fecondità, scalda e fa maturare. A Natale,
il sole della Natività si alza sulle pianure di Betlemme, all’Epifania “la
gloria del Signore” è raggiante su Gerusalemme. A Natale nasciamo e rinasciamo
col Cristo nostro fratello, all’Epifania il Cristo celebra con la Chiesa e
l’anima le sue nozze mistiche. A Natale “il Cristo c’è nato”; è come una festa
intima di famiglia alla quale partecipano soltanto alcuni privilegiati con
Maria ed i pastori; all’Epifania, “il Cristo c’è apparso”, cioè ha manifestato
la sua apparizione al mondo.
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