Le origini di questa festa sono
del tutto assimilabili a quelle della festa del Santissimo Sacramento.
Nel Liber
Sacramentorum, la festa del Sacro Cuore si trova ancora nel ciclo
santorale, il traduttore ne dà la ragione: «Conformemente alle ultime rubriche,
questa festa dovrebbe trovarsi al Proprio del Tempo, tra l’II e la III Domenica
dopo la Pentecoste. Il tomo III del Liber Sacramentorum era stato
stampato già quando la decisione della S. C. dei Riti era stata promulgata.
Conserviamo dunque alla festa del Sacro Cuore il posto che occupava nelle
antiche edizioni del Messale, pur sostituendo al precedente il nuovo testo
della messa».
Il simbolismo del costato di Gesù, aperto dalla lancia di Longino e da
cui sgorgarono il sangue e l’acqua, è conosciuto già dagli antichi Padri della
Chiesa; sant’Agostino e san Giovanni Crisostomo hanno delle pagine splendide
sui divini Sacramenti, nati dal Cuore amante del Redentore, e sulla Chiesa che,
radiosa di giovinezza, esce dal costato del nuovo Adamo addormentato sulla
Croce.
La tradizione patristica fu conservata e sviluppata a cura della scuola
ascetica benedettina; anche, quando, nel XII sec., il santo abate di Clairvaux
orientò infine la pietà mistica dei suoi monaci verso un culto completamente speciale
reso all’umanità del Salvatore, si può dire che la devozione al Sacro Cuore,
nel senso che gli attribuisce oggi la sacra liturgia, era già nata. Dalla
semplice meditazione sulle piaghe di Gesù, la scuola benedettina era passata
alla devozione particolare per quella del costato, ed attraverso il fianco
trapassato dalla lancia di Longino, essa era penetrata nell’intimo del Cuore,
ferito anch’esso dalla lancia dell’amore.
Il Cuore di Gesù rappresenta, per san Bernardo, quell’incavo della roccia
dove lo Sposo divino invita la sua colomba a cercare un rifugio. Il ferro del
soldato è giunto fino al Cuore del Crocifisso per svelarcene tutti i segreti
dell’amore. Ci ha, difatti, rivelato il grande mistero della sua misericordia,
queste viscere di compassione che l’hanno indotto a scendere dal cielo per
visitarci (In Cantic. Serm. 61, nn. 3-4, in PL 183,
col. 1071-72).
I discepoli di san Bernardo svilupparono meravigliosamente la dottrina
mistica del Maestro, quando intervennero le grandi rivelazioni del Sacro Cuore
di Gesù a santa Lutgarda (+1246), a santa Gertrude ed a santa Mechtilde (Matilde).
Un giorno, il Signore scambiò il suo Cuore con quello del santa Lutgarda;
ed una notte che la santa, malgrado la malattia, si era alzata per l’ufficio
vigiliale, Gesù, per ricompensarla, l’invitò ad avvicinare le sue labbra alla
ferita del suo Cuore, dove Lutgarda attinse una tale soavità spirituale, che,
provò, in seguito, sempre forza e dolcezza nel servizio di Dio.
Verso il 1230 sopraggiunse la celebre rivelazione del Sacro Cuore a quell’illustre
Mechtilde di Magdeburgo, che, più tardi, fece parte della comunità di Helfta
dove vivevano santa Gertrude e santa Mechtilde (Matilde) di Hackeborn.
“Nelle mie grandi sofferenze, ella scrisse, Gesù mi mostrò la piaga del
suo Cuore e mi dice: Vedi qual male mi hanno fatto!”.
Quest’apparizione l’impressionò vivamente, tanto che, da allora, la
devota religiosa non smise di contemplare questo Cuore afflitto ed oltraggiato,
ma che, allo stesso tempo, gli appariva simile ad una massa di oro arroventato,
collocato dentro ad un’immensa fornace. Gesù avvicinò il cuore di Mechtilde al
suo, affinché vivesse della stessa vita di Lui.
Quando la Provvidenza condusse a Helfta la pia estatica di Magdeburgo,
questo avvenne per avvicinarla a due altre figlie di san Benedetto, Gertrude e
l’omonima Mechtilde (di Hackeborn), che erano state favorite da doni analoghi.
Il carattere particolare della devozione di santa Gertrude per il Verbo
Incarnato brilla specialmente nel suo rendere devozione al Sacro Cuore, che,
per lei, è il simbolo dell’amore del Crocifisso, ed un tipo di sacramento
mistico mediante il quale la Santa partecipa ai sentimenti di Gesù ed, al
medesimo tempo, ai suoi meriti.
Un giorno che Gertrude è invitata da san Giovanni a riposare con lui sul
Cuore sacro del Signore, chiede all’evangelista perché non ha rivelato alla
Chiesa le delizie ed i misteri di amore gustati da lui nell’ultima Cena, quando
appoggiò la sua testa sul petto del Divin Maestro. Giovanni risponde che la sua
missione era stata quella di rivelare agli uomini la natura divina del Verbo,
mentre il linguaggio di amore espresso dai battiti del Sacro Cuore sentito da
lui doveva rappresentare la rivelazione degli ultimi tempi, allorché il mondo,
invecchiato e raffreddato, avrebbe avuto bisogno di riscaldarsi per mezzo di
questo mistero di ardente carità (Ivan
Gobry, Margherita Maria
Alacoque e le rivelazioni del Sacro Cuore, Roma 20024, p. 15).
Gertrude comprese che l’apostolato del Sacro Cuore di Gesù era stato
affidato a lei stessa, perché, con le sue parole e nei suoi libri, ella
scrivesse tutta la teologia, per così dire, di questa ferita divina e sacra,
propagandone con ardore la devozione. In questa missione evangelizzatrice, ebbe
per compagna la devota cantrix Mechtildis,
la quale era stata invitata similmente dal Signore a stabilire la sua dimora
nella piaga del suo Cuore. Come la sua compagna, santa Mechtilde mise pure lei
per iscritto le sue rivelazioni, dove paragona il Sacro Cuore ora ad una coppa
d’oro dove si dissetano i santi, ora ad una lampada luminosa, ora ad una lira
che diffonde nel cielo le sue dolci armonie. Un giorno Gesù e Mechtilde
scambiarono i loro cuori, e da allora sembrò alla Santa che erano i battiti del
Cuore del suo divino Sposo che sentiva in se stessa.
Le rivelazioni delle due estatiche di Helfta furono accolte molto
favorevolmente, soprattutto in Germania, cioè in un luogo già risolutamente
orientato verso il Cuore di Gesù, grazie alla precedente influenza della scuola
benedettina. Gli scrittori della famiglia dominicana e francescana seguirono
anch’essi con ardore questo movimento, e lo diffusero soprattutto grazie a san
Bonaventura, al beato Enrico Suso, a santa Caterina ed a san Bernardino da Siena.
Si arriva così fino al tempo di santa Francesca Romana, che, nelle sue rivelazioni
sul Sacro Cuore, in cui ella si immerge anche come in un oceano arroventato di
amore, non fa che accentuare l’orientamento ascetico dell’antica scuola mistica
dei figli di san Benedetto. L’azione della fondatrice del monastero Turris Speculorum a Roma rimase, è vero,
circoscritta all’ambito romano; ma rappresenta uno dei più preziosi anelli di
tutta una catena di santi e di scrittori ascetici che, in Germania, in Belgio
ed in Italia prepararono le anime alle grandi rivelazioni di Paray-le-Monial. Quando
infine queste furono comunicate ai fedeli, grazie soprattutto a san Claudio de
La Colombière ed al P. Croiset, il trionfo del Cuore di Gesù e del regno del
suo amore fu assicurato oramai alla devozione cattolica. I figli di sant’Ignazio
si dedicarono con uno zelo particolare a questa forma nuova di apostolato del Sacro
Cuore. Nel 1765, il papa Clemente XIII approvò un ufficio in onore del Sacro
Cuore di Gesù, ma fu concesso solamente ad alcune diocesi. Nel 1856, Pio IX,
sullo spirito del quale aveva influito grandemente l’illustre restauratore dell’ordine
benedettino in Francia, Dom Guéranger, rese questa festa obbligatoria per la
Chiesa universale inserendola nel Calendario, nel ciclo del Santorale, dandone
il relativo formulario ed ordinandone la celebrazione sotto il grado di doppio
di II classe. Nel 1889, Leone XIII l’elevò al rito doppio di I classe.
Quando, il 26 gennaio
1765, Clemente XIII autorizzò il culto liturgico del Sacro Cuore di Gesù per la
Polonia e per l’Arciconfraternita romana (sul contesto storico, cfr. Aa. Vv., La Chiesa nell’epoca dell’assolutismo e dell’illuminismo, in Hubert Jedin (dir. da), Storia della Chiesa, Milano 20075,
vol. VII, pp. 499-500), si avverava una predizione fatta trent’anni prima dalla
devota badessa di San Pietro di Montefiascone, la serva di Dio Maria Cecilia Baij. Il Signore, mostrando
il suo Cuore a questa serva di Dio, le aveva detto: «Un giorno verrà, in cui il
culto del mio Cuore si estenderà trionfalmente nella Chiesa militante, e ciò
grazie alla festa solenne che se ne celebrerà, con l’ufficio del Sacro Cuore» (cfr.
Ursmer Berlière, La dévotion au Sacré-Cœur dans l’Ordre de Saint-Benoît, Paris, 1923).
«Tuttavia, aggiungeva la pia Benedettina, non so se ciò giungerà dai nostri
tempi».
Ella fu, del resto,
assai felice di vedere infine questo giorno desiderato, e si ricordò certamente
allora di queste altre parole che aveva sentito dal suo divino Sposo parecchi
anni prima: «Un tempo verrà in cui sarai molto gradita al mio Cuore facendo
adorarlo e conoscere da un gran numero di persone per mezzo del culto e degli
atti di devozione che gli sono dovuti».
Nel 1899, Leone XIII
pubblicò l’Enciclica Annum Sacrum,
nella quale prescriveva a tutto l’universo cattolico di consacrarsi al Sacro
Cuore di Gesù. Il Pontefice si era deciso a quest’atto dopo un ordine formale
che una pia superiora del Buon Pastore di Oporto, la beata Maria del Divin
Cuore di Gesù (Maria Droste zu Vischering), diceva avere ricevuto dallo stesso
divin Redentore affinché fosse comunicato al Papa. La rivelazione privata
presentava del resto tutti i caratteri dell’autenticità, e lo spirito della
religiosa era già stato provato dal saggio abate di Seckau, Dom Ildefons Schober
(1849–1918).
È così Dom Ildebrando de Hemptinne (1848-1913), abate di
Sant’Anselmo all’Aventino, prese l’affare in mano e presentò la supplica della
religiosa a Leone XIII. L’8 giugno 1899, mentre le campane di tutte le chiese
del mondo cristiano annunciavano la festa del Sacro Cuore ed il nuovo atto di
consacrazione prescritto dal Papa, la veggente di Oporto rendeva la sua anima
purissima a Dio, a testimonianza del compimento della sua missione terrena.
La
festa del Sacro Cuore riceveva da Pio XI, poi, un sovrappiù di importanza e di
onore poiché si accordava a questa il privilegio dell’ottava, riservato alle
più grandi solennità del Signore. Semplice coincidenza o misteriosa disposizione
di Dio? La nuova liturgia romana per l’ottava della festa del Sacro Cuore fu
approvata dal Papa allo stesso tempo del famoso Concordato, che metteva fine
alla funesta Questione romana, nel 1929. Nella stessa epoca, il “perfetto amico
del divin Cuore”, il P. de La Colombière, era iscritto solennemente nel catalogo
dei beati (poi canonizzato da Giovanni Paolo II), e Pio XI, alcune settimane
più tardi, uscendo infine dal Vaticano, portò in trionfo Gesù Eucarestia, in mezzo
ad un glorioso corteo di ministri sacri nel numero di settemila.
Con
dotando la Festa di un’Ottava, Pio XI equiparava la stessa alle più importanti
feste del ciclo del Temporale (facendola uscire dal ciclo del Santorale).
L’eresia,
che caratterizza lo spirito dell’odierna società, potrebbe essere facilmente
chiamata laicismo, in quanto vuol
livellare, abbassare il divino ed il soprannaturale alla misura delle
istituzione umane, e tenta di far rientrare la Chiesa nell’orbita delle pure
energie statali. Di fronte al giudaismo ed alla massoneria che persistono
ancora nel loro odio furibondo contro Gesù: tolle, tolle, crucifige, i cattolici infetti da questo laicismo e
liberalismi o cercano, come Pilato, una via mezzo, e sono pronti a rimandare
assolto Cristo, purché prima si lasci strappare il diadema sovrano che gli
cinge la fronte, e si contenti di vivere soggetto al nume di Cesare. Contro
questo doppio insulto sacrilego il Pontefice Supremo (Pio XI) protesta in
faccia al cielo e alla terra che non v’è altro Dio che il Signore, ed
istituisce la doppia festa di Cristo Re e dell’Ottava del Sacratissimo Cuore di
Gesù. L’una è la solennità della
potenza, l’altra quella dell’amore.
Il Breviario romano doveva arricchirsi di un ufficio per l’ottava del
Sacro Cuore e così il Sovrano Pontefice Pio XI volle che la liturgia di questa
solennità fosse rifatta interamente.
Si sa che l’ufficio del Sacro Cuore aveva una volta, prima del 1929, un certo carattere frammentario e sporadico
che rifletteva bene l’incertezza dei teologi incaricati della sua redazione.
Era un po’ un ufficio della festa del Corpus Domini (con degli elementi, come i Responsori del Mattutino,
da cui ne erano tratti) ed un po’
quello della Passione, senza parlare delle letture del III notturno, spigolato
qua e là nella Patrologia, con tre omelie.
Dom Guéranger (o almeno i suoi continuatori) testimoniavano delle ragioni
di questa composizione esitante: «Il est peu fait mention du Cœur de chair
du Sauveur dans les formules liturgiques de ce jour. Lorsqu’au dernier siècle
(XVIIIe) il fut question d’approuver une Messe et un Office en l’honneur du
Sacré-Cœur, les Jansénistes, qui avaient jusque dans Rome leurs dévoués partisans,
suscitèrent de telles oppositions, que le Siège apostolique ne crut pas le
moment venu encore de se prononcer ouvertement sur les points débattus. Dans la
Messe et l’Office qui de Rome devaient plus tard (1856) s’étendre au monde
entier, il s’en tint par prudence à la glorification de l’amour du Sauveur, dont
on ne pouvait nier raisonnablement que son Cœur de chair ne fût au moins le
vrai et direct symbole» (Année Liturgique,
Temps après la Pentecôte, I, p. 504).
Ora, papa Ratti – che, sul suo tavolo da lavoro, aveva sempre davanti
agli occhi una bella statua del Sacro Cuore, dinanzi alla quale aveva costume
di cercare la sua ispirazione quando trattava gli affari della Chiesa – volle
un ufficio perfettamente organico, cioè in cui risplendesse l’unità e che mettesse
pure in piena luce il carattere speciale della solennità della festa del Sacro
Cuore, che non doveva essere una ripetizione né di quella del Santo Sacramento
né degli uffici quaresimali della Passione.
Nominò allora una commissione di teologi incaricati di redigere, dunque,
il nuovo ufficio; ma i loro lavori li presiedeva lui stesso; in modo che, dopo
un semestre di studi, all’aurora del suo giubileo sacerdotale, Pio XI poté
offrire la nuova messa e l’ufficio al mondo cattolico per l’ottava del Sacro
Cuore, che non
fosse né una ripetizione della festa del Corpus
Domini né un duplicato dell’Ufficio della Passione.
Il pensiero che domina tutta la composizione è
quella che espresse Gesù stesso quando, tramite santa Margherita Maria, chiese
all’intera famiglia cattolica l’istituzione di questa festa: “Ecco il Cuore che
ha tanto amato gli uomini, e che ne è così poco amato!”. Si tratta, quindi, di
una festa di riparazione verso l’Amore che non è ri-amato; riparazione
che fa, del resto, ammenda onorevole glorificando i pacifici trionfi di quest’Eterno
Amore.
La
Messa era doppia di I classe prima del 1929. Doppia di I classe con ottava
privilegiata di III ordine dal 1929 al 1955. Di I classe dal 1955.
Lo scopo della solennità
di questo giorno è doppio: mentre offriamo il nostro tributo di amore a questo
Cuore che, a causa di sua eccellenza e dell’unione ipostatica, è il centro ed
il re di ogni altro cuore umano, espiamo il crimine, allo stesso tempo, di
avere trapassato con i nostri peccati questo Cuore adorabile e di averlo
incoronato delle spine dell’ingratitudine e del disprezzo.
Gesù invita l’umanità
tutta intera a cercare un asilo di dolce riposo nel suo Cuore. Ma perché siamo
tutti tormentati e stanchi? Sant’Agostino ce lo dice: a causa della nostra vita
mortale stessa, vita fuggitiva e soggetta a numerose tentazioni, in cui
portiamo il tesoro della fede nel vaso fragile della nostra umanità. Una tale
condizione c’affligge, ma il dolce invito di Gesù ci consola. È anche vano, in
questo mondo, di sperare un altro conforto, perché, come dice molto bene un
antico logion evangelico, riportato
da Origene e da Didimo il cieco: Qui
iuxta me est, iuxta ignem est; qui longe a me est, longe a regno est;
Colui che si avvicina a me, si avvicina
al fuoco, mentre quegli che si allontana da me si allontana dal regno (Origene, Omelia latina su Geremia
20, 3 in PG 13, col. 532; Didimo il cieco, Commento ai Salmi
88, 8, in PG 39, col. 1488D: Διο φησιν ο
σωτηρ· Ο εγγυς μου, εγγυς του πυρος· ο δε μακραν απ εμου, μακραν απο της
βασιλειας). Questa parola d’oro, pronunziata dal divin Salvatore, e che c’è stata
trasmessa dalla tradizione dei Padri, garantisce anche per la sua bellezza la
sua autenticità, e sembra molto degna di essere unita all’altro logion che c’è stato conservato da san
Paolo: “Gesù ha detto: È meglio dare che ricevere”.
La lettura evangelica è
chiesta in prestito a san Giovanni (Gv 19, 31-37), e descrive, con la rottura
delle gambe dei due ladroni, l’apertura del costato di Gesù morto. Da questa
ferita sgorgarono il sangue e l’acqua, per simboleggiare i sacramenti nei quali
la Chiesa nasce ed è nutrita. È il Nuovo Testamento nel sangue. Giovanni, che
esercita al tempo stesso le funzioni di scrittore e di testimone, vuole
mostrare ai fedeli la continuità del piano divino nell’antica e nella nuova
alleanza, e cita a questo scopo le profezie che ricevettero il loro compimento
sul Golgota, dopo la morte di Gesù.
Non si doveva rompere
alcun osso dell’agnello pasquale, perché l’immolazione della Vittima divina non
fosse seguita dalla decomposizione del suo corpo nel sepolcro, ma, al contrario,
dalla gloria della risurrezione. Di più, sebbene Gesù nella santa Comunione sia
preso in cibo dai fedeli, non è consumato per ciò. Nec sumptus consumitur (San Tommaso d’Aquino, Lauda Sion, sequenza della Messa del Corpus
Domini, «se ne nutre senza consumarlo»), e l’agnello, stesso dopo che i fedeli se ne sono nutriti,
rimane vivente, glorioso ed intero. Ma esiste un’altra profezia (Zac 12, 10),
alla quale si riferisce più volte san Giovanni: i popoli contempleranno Colui
che è stato trafitto.
Il passo del Vangelo
letto in questo giorno è stato commentato con eleganza da Paolino di Aquileia (+
802) (cfr. A. Willart, L’Hymne de Paulin sur Lazare dans un
manuscrit d’Autun, Rev. Bénéd.,
XXXIV, 1922, p. 42):
Quando se pro nobis sanctum
Fecit sacrificium,
Tunc de lateris fixura
Fons vivus elicuit;
De quo mystice fluxerunt
Duo simul flumina:
Sanguis nam redemptionis
Et unda baptismatis.
Quando si fece per noi
Sacrificio,
dalla ferita del suo
costato
una sorgente viva allora
uscì;
da essa colarono allo
stesso tempo
e misticamente due
fiumi:
il sangue del riscatto
e l’acqua del battesimo.
L’antifona per l’offertorio
è la stessa della domenica delle Palme (Sal. 69 (68), 21).
Molto più atroci delle
sofferenze fisiche furono le pene morali patite dal Salvatore durante la sua
passione, allorché, mentre era caricato del peso degli errori degli uomini, e
condannato a morte dal Sinedrio, rimase come schiacciato sotto l’angoscia della
maledizione lanciata da Dio Padre contro il peccato.
Sentiva che il peccato
aveva innalzato come una muraglia tra il Creatore e le creature, ed ecco
perché, in virtù di un giusto giudizio di Dio, la sua umanità, abbandonata agli
oltraggi, ai tormenti ed alla morte obbrobriosa della Croce, intonò il misterioso
cantico: Elì, Elì, lemà sabactàni («Dio mio, Dio mio, perché mi hai
abbandonato?»: Sal. 22 (21)). Soffrendo per noi, Gesù ha voluto che noi, a
nostra volta, ci assimilassimo alla sua Passione benedetto, rivivendola con la
fede e con le opere delle mortificazione cristiana.
Nelle messe votive
durante il tempo pasquale, quest’antifona così malinconica dell’offertorio è
rimpiazzata da un’altra che esalta, al contrario, l’eccellenza del sacrificio
del Cristo su tutte le oblazioni dell’Antica Legge (Sal. 40 (39), 7-9).
I sacrifici dell’Antica
Legge smisero di piacere a Dio quando arrivò infine la pienezza dei tempi, in
cui doveva essere compiuto ciò che questi antichi riti facevano soltanto preannunciavano.
Venne allora il Verbo incarnato, per offrire un olocausto che solo era degno di
Dio. E poiché ogni offerta deve sempre compiersi secondo un cerimoniale ed un
rito gradito alla Divinità, Gesù visse e si immolò durante trentatré anni
conformemente a ciò che il Padre eterno aveva prescritto per Lui nei Libri
santi dell’Antica Alleanza.
Nella preghiera che
precede l’anafora è si fa di nuovo allusione al doppio significato della
solennità di questo giorno. Innanzitutto, è una festa di espiazione verso l’amore
non riamato e disprezzato; ed è per questo che noi uniamo la nostra ammenda
onorevole a questo stesso Amore, che, nel Sacrificio eucaristico, espia per
noi. Inoltre, è una celebrazione di azione di grazie e di trionfo del Cuore sacratissimo
di Gesù. Per questo motivo, offriamo questo stesso Cuore eucaristico, affinché,
perpetuando sui nostri altari l’inno di azione di grazie intonato con gli
Apostoli nel Cenacolo un tempo, Tibi
gratias agens («E Ti rendiamo grazie»: cfr. Luc. 17, 16 e 1 Cor. 11,
24), l’amore incarnato ed immolato sia lui stesso il ringraziamento dell’umanità
all’eterno Amore.
Bisogna notare con una
grande soddisfazione la tendenza della Santa Sede a dotare le messe più insigni
di un prefazio proprio. Dopo quella dei defunti, di san Giuseppe, di Cristo re,
ecco oggi quella del Sacro Cuore di Gesù. Si ritorna così all’antica tradizione
latina, rappresentata soprattutto dai Sacramentari romani, nei quali ogni
solennità aveva il suo prefazio. Attualmente la liturgia milanese è sola
rimasta fedele alla sua antica tradizione; ma bisogna sperare che, presto o
tardi, come accadde sotto Pio X per il canto gregoriano, Roma ammetterà di
nuovo nel suo messale questi antichi e così bei prefazi dei Sacramentari detti
di Leone Magno, di Gelasio I e di Gregorio Magno, che, senza che l’autorità sia
intervenuta, si sono come persi nei manoscritti durante i lunghi secoli del
basso Medioevo.
L’antifona per la
Comunione, conformemente alla regola, è tratta dal Vangelo (Gv 19, 34). Il
significato speciale di questo sangue e di quest’acqua c’è spiegato nella
seguente antifona per la Comunione durante il ciclo pasquale (Gv 7, 37): come
la bevanda che prendiamo si incorpora a noi e si cambi nel nostro sangue, così
i tesori della redenzione, che ci sono stati conferiti nei sacramenti,
diventano il nostro bene, il nostro patrimonio spirituale, in quanto c’uniscono
e c’incorporano misticamente al Cristo che è il Capo del Corpo della Chiesa.
Tuttavia queste acque di
eterno riscatto sono promesse solamente a colui che ne è avido, perché la
grazia di Dio è offerta con amore come un dono, non è imposta violentemente
come un arruolamento obbligatorio. Per questo, il santo cardinale Andrea
Ferrari diceva molto giustamente ai piccoli bambini di Milano: Si salva chi vuole.
Quando si è gustato una
volta Dio, tutti i beni creati diventano insipidi e fastidiosi. Ma, per gustare
Dio, abbiamo bisogno di quel dono speciale di pietà che, esso stesso, è una grazia
dello Spirito Santo. Non merita, difatti, di gustare Dio, colui che cerca le
sue delizie al di fuori di Lui; perciò la sacra liturgia chiede oggi, molto a
proposito, questo dono, dopo che la partecipazione ai misteri della morte del Signore ha stampato nel nostro cuore le stimmate
della Passione di Gesù, consacrandoci così ad una vita di mortificazione e di
immolazione.
Alle lodi
del Sacro Cuore, espresso dai Padri della chiesa latina, aggiungeremo oggi
quelle della Chiesa bizantina, che le canta nel Tropario del Mattutino del
Venerdì Santo delle “Beatitudini” (Τροπάριο τῶν Μακαρισμῶν, Ὄρθρος Μ. Παρασκευῆς):
Ἡ ζωηφόρος σου πλευρά, ὡς ἐξ Ἐδέμ πηγή ἀναβλύζουσα, τήν Ἐκκλησίαν σου, Χριστέ, ὡς λογικόν ποτίζει παράδεισον, ἐντεῦθεν μερίζουσα, ὡς εἰς ἀρχάς, εἰς τέσσαρα Εὐαγγέλια, τόν κόσμον ἀρδεύουσα, τήν κτίσιν εὐφραίνουσα καί τά ἔθνη πιστῶς διδάσκουσα προσκυνεῖν τήν βασιλείαν σου.
Il tuo costato, che porta la vita,
Simile alla sorgente che sgorgava dall’Eden,
Annaffia la Tua Chiesa, o Cristo,
Come un giardino spirituale.
Poi si divide
Come un tronco unico, in quattro Vangeli.
Annaffia il mondo.
Rallegra la creazione;
Insegna ai popoli
Ad adorare il tuo regno con fede.
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