Nelle prime ore del giorno dell’11 luglio scorso, quando ancora era buio, si è addormentato nel Signore il card. Giacomo
Biffi, arcivescovo emerito di Bologna (v. qui e qui).
La notizia era già
data da noi nella giornata di ieri. Si sono, quindi, succeduti i ricordi di chi
ha sottolineato come fosse un grande italiano (v. qui) e la sua esistenza fosse stata
interamente cristocentrica (v. qui e qui), corroborata da una fede incrollabile (v. qui): «formidabile
crociato anticonformista di una Chiesa che non c’è più» l’ha definito Giuliano
Ferrara (v. qui). Il compianto cardinale era uno che aveva saputo leggere davvero i
segni dei tempi (v. qui), fautore di un cattolicesimo vivace, capace di entusiasmare i
fedeli e di sfidare senza timidezza la “mentalità mondana” (v. ad es. qui).
In suo ricordo, nella
memoria liturgica di San Giovanni Gualberto, abate, e dei Santi martiri Nabore
e Felice, rilancio questo contributo di Chiesa e post concilio.
Maestro di Marradi, S. Giovanni Gualberto, XV sec., Museo diocesano, Faenza |
Alessandro Allori, Miracolo del grano di S. Giovanni Gualberto, 1603, Museo di Palazzo Pretorio, Prato |
Anonimo, S. Giovanni Gualberto, XVIII sec., Philadelphia Museum of Art, Philadelphia |
Giuseppe Sanmartino, S. Giovanni Gualberto, 1773-1790, Cattedrale di San Cataldo, Taranto |
È morto nella notte a
Bologna il cardinale Giacomo Biffi, arcivescovo di Bologna dal 1984 al 2003. Ne
dà notizia la diocesi bolognese. Aveva 87 anni e da tempo era ricoverato in una
clinica bolognese dove, attorno alle tre, è morto. Requiem aeternam ...
“Vidi
salire dal mare una bestia” (Ap 13,1)
L’ottimismo è di
rigore.
Una delle mode
culturali più curiose invalse nella cristianità in questi decenni interdice a
chi si accinge a stilare un documento o proporre una riflessione sulla odierna
condizione umana e sui tempi presenti di iniziare dai rilievi “negativi”: è d’obbligo
partire da una rassegna dei dati improntata a un robusto ottimismo; bisogna
sempre collocare in capo a tutto un esame della realtà che non tralasci di
mettere in giusta luce i valori, la sostanziale santità, la “positività
prevalente”.
Qualche volta mi sorprendo a immaginare, per mio personale
divertimento, come sarebbe stata la lettera ai Romani se, invece che da quell’uomo
difficile e sdegnoso che era l’apostolo Paolo, fosse stata stesa da qualche
commissione ecclesiale o da qualche gruppo di lavoro dei nostri giorni.
L’epistola avrebbe
cominciato a notare nel primo capitolo col dovuto risalto tutte le ricchezze
spirituali e culturali espresse dal mondo pagano: le altezze sublimi raggiunte
dalla filosofia greca; la sete del trascendente e il naturale senso religioso
rivelati dalla molteplicità dei culti mediterranei; gli esempi di onestà
morale, di correttezza civica, di abnegazione disinteressata, offerte dalle
vicende edificanti della storia romana che una volta si insegnavano al
ginnasio. Senza dubbio se la litanìa immisericorde dei vizi e delle aberrazioni
mondane contenuta nell’attuale pagina ispirata, fosse suggerita oggi come
contributo al testo da qualche incauto collaboratore, susciterebbe una concorde
indignazione. E in realtà il giudizio di Paolo suona alle nostre orecchie
insopportabilmente sgradevole: per lui gli uomini senza Cristo sono “colmi di
ogni sorta di ingiustizia, di malvagità, di cupidigia, di malizia; diffamatori,
maldicenti, nemici di Dio, oltraggiosi, superbi, fanfaroni, ingegnosi nel male,
ribelli ai genitori, insensati, sleali, senza cuore, senza misericordia” (Rm
1,29-31).
Messi in bella evidenza i pregi del paganesimo, la nuova lettera ai Romani passerebbe poi a esaltare le prerogative dell’ebraismo e la funzione già incoattivamente salvifica della Legge mosaica, della circoncisione, delle prescrizioni rituali.
Infine, arrivata al capitolo quinto, chiarirebbe che l’opera di Adamo non è stata poi così nefasta come una volta si diceva, dal momento che la creazione resta in se stessa buona; anzi in quanto è uscita dalle mani di Dio non può non essere già santa e sacra, senza che siano necessarie altre sopravvenienti consacrazioni.
Certo, a questo punto il discorso su Gesù Cristo, la sua redenzione, il suo intervento indispensabile per il riscatto dell’umanità dall’ingiustizia, dal peccato, dalla morte, dalla catastrofe, diventerebbe meno incisivo e convincente di quanto non sia nella prosa scabra e drammatica di Paolo; ma non si può avere tutto.
Messi in bella evidenza i pregi del paganesimo, la nuova lettera ai Romani passerebbe poi a esaltare le prerogative dell’ebraismo e la funzione già incoattivamente salvifica della Legge mosaica, della circoncisione, delle prescrizioni rituali.
Infine, arrivata al capitolo quinto, chiarirebbe che l’opera di Adamo non è stata poi così nefasta come una volta si diceva, dal momento che la creazione resta in se stessa buona; anzi in quanto è uscita dalle mani di Dio non può non essere già santa e sacra, senza che siano necessarie altre sopravvenienti consacrazioni.
Certo, a questo punto il discorso su Gesù Cristo, la sua redenzione, il suo intervento indispensabile per il riscatto dell’umanità dall’ingiustizia, dal peccato, dalla morte, dalla catastrofe, diventerebbe meno incisivo e convincente di quanto non sia nella prosa scabra e drammatica di Paolo; ma non si può avere tutto.
Non è che i
ragionamenti qui giocosamente ipotizzati siano del tutto erronei in se stessi.
Al contrario, contengono molta verità e vanno doverosamente compiuti, ma non
come primo approccio alla realtà delle cose. Da essi non si può partire; ad
essi si può solo approdare al termine di un lungo pellegrinaggio ideale:
soltanto dopo che la visione della spaventosa miseria dell’uomo ci avrà aperto
la mente e il cuore a desiderare e a capire la sospirata salvezza di Cristo, ci
sarà consentito di apprezzare tutto quanto di bello, di giusto, di vero, riluce
già nella notte del mondo, come riverbero del Redentore, che è la verità, la
giustizia, la bellezza rese persona e divenute percepibili in un volto d’uomo.
Ogni autore cristiano
ha sempre avviato il suo canto da un’ode tragica sull’umano destino per
arrivare all’inno di vittoria e di gratitudine al Figlio di Dio crocifisso e
risorto, unica nostra speranza, che solo ci ha ottenuto la salvezza.
L’uomo, che voglia
celebrare veramente la propria grandezza, non può che principiare da un “epicèdio”,
cioè da una lamentazione sullo stato di morte che enigmaticamente dall’inizio
ha colpito l’universo e lo serra ancora in una morsa ineludibile.
Il fondamento dell’ottimismo
cristiano non può essere la volontà di tener chiusi gli occhi. Bisogna per
prima cosa guardare in faccia alla “Bestia” e renderci conto di quanto siano
aguzzi i suoi denti e terrificanti i suoi artigli, se si vuole onorare e amare
il “Cavaliere”, e si desidera capire davvero quale dono sia la nostra
liberazione e la felicità che ci è stata assegnata in sorte.
(Giacomo Biffi, La Bella, la
Bestia e il Cavaliere. Saggio di teologia inattuale, JACA BOOK 1984)
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