mercoledì 8 luglio 2015

Realismo e volontarismo. Cosa c’è alla base di una sentenza assurda



Nella memoria di S. Elisabetta del Portogallo, regina e vedova del tirannico re portoghese Diniz, morta nel 1336 e pronipote dell'omonima Santa sovrana d'Ungheria, rilancio quest’interessante saggio di Carlo Manetti sulla sentenza della Corte Suprema USA che ha liberalizzato, in tutti gli Stati USA, il c.d. matrimonio omosessuale, di cui abbiamo già parlato (v. qui).



Realismo e volontarismo. Cosa c’è alla base di una sentenza assurda

La sentenza del 26 giugno 2015 della Corte Suprema Americana sul cosiddetto “matrimonio” tra omosessuali rappresenta una vittoria dell’irrazionalismo volontarista. Si immagina la vita come regolata dalla volontà; ma la volontà, privata della guida della ragione, viene snaturata nella sua stessa essenza, privata del suo fine e ridotta a delirante strumento dell’opposto del suo scopo…

di Carlo Manetti

La sentenza di venerdì 26 giugno scorso della Corte Suprema degli Stati Uniti d’America ripropone, in maniera tragica, il tema dello scontro tra il realismo razionale e l’irrazionalismo volontarista. Se, a prima vista, essa appare (confronta articolo) come l’ultima battaglia, anche se, oggettivamente, la più importante, della guerra tra la concezione testualista ed originalista (il diritto e, soprattutto, la Costituzione dicono ciò che dicono, indipendentemente dagli interessi materiali ed ideologici delle parti in causa) e quella ideologica del diritto (la Costituzione ha indicato un modello ideologico, una via, in continua evoluzione, e tocca all’interprete e, quindi, in primo luogo al giudice interpretare e, se del caso, forzare il diritto fino a renderlo docile strumento attuativo dell’ideologia), questa lotta ne sottende un’altra più antica e più generale: quella tra la natura e la volontà.
Da sempre, le concezioni del diritto e, conseguentemente, della legge si possono raggruppare due grandi filoni: quello, lato sensu, giusnaturalista e quello, lato sensu, giuspositivista. Il giusnaturalismo è l’applicazione al diritto della filosofia realistica, mentre il giuspositivismo è la branca giuridica della filosofia volontarista.
La lettura realistica della realtà (altro modo di definire la filosofia realistica) è un’ovvietà, quasi una tautologia, come il bisticcio di parole che la esprime significa molto bene: la realtà è ciò che esiste “realmente”, vale a dire in sé e non solo nel pensiero del soggetto che la pensa. Risulta, quindi, ovvio che un pensiero, per essere realistico, veritiero e non illusorio, deve rappresentare in maniera fedele il suo oggetto; il compito del pensiero è, pertanto, eminentemente passivo: il pensiero è come una pellicola fotografica, che si deve lasciare impressionare dalla luce, con la conseguenza che maggiore è la sensibilità (e, dunque, la profondità) del pensiero e maggiore sarà la sua fedeltà al reale. Lo stesso processo astrattivo, che permette di passare dalla conoscenza sensibile dei fenomeni a quella razionale dei concetti, non è altro che un riconoscimento più profondo della realtà: una fotografia fatta con una pellicola molto più sensibile, nel paragone precedente.
La filosofia realistica non è altro che il riconoscimento del fatto che esiste una realtà e che compito dell’uomo, in quanto essere razionale, è quello di conoscerla e, conseguentemente, prendere atto, anche nel comportamento, della realtà conosciuta. Questo compito non è solo doveroso, ma anche possibile. La ragione umana è comune a tutti gli uomini e, qualora non sia intaccata da patologie e/o da incrostazioni ideologiche, procede nella medesima maniera in tutti gli uomini.
Esistono, però, correnti di pensiero che si oppongono a tanta linearità. Il punto di partenza è la passività del processo astrattivo: esso è passivo, semplice acquisizione della realtà, solo se esistono realmente gli universali, vale a dire le realtà di cui i concetti, che, con tale processo, la mente acquisisce, sono rappresentazione. La teoria che ne nega l’esistenza e li riduce a semplice flatum vocis si chiama, appunto, nominalismo. La sua prima conseguenza è l’eliminazione del concetto stesso di natura.
Natura ed universale coincidono[1]. Ridurre gli universali a semplici nomi o, come fa, genialmente, quanto improvvidamente, Abelardo[2] (1079-1142), a concetti, privi di una loro esistenza reale, significa ridurre la natura all’insieme delle caratteristiche accidentalmente comuni a più individui, riuniti in un insieme arbitrariamente deciso dal classificatore.
L’eliminazione del concetto di natura apre la strada a tutte quelle dottrine note, nel loro complesso, con il nome di Volontarismo. Se non esiste una natura, ma esistono solo enti singoli, all’essere umano è preclusa ogni conoscenza veramente scientifica, essendo stata completamente eliminata ogni forma di metafisica. Essendo, così, eliminato il suo stesso fine, vale a dire la conoscenza della verità, la ragione tende a perdere quasi ogni valore. Si immagina la vita come regolata dalla volontà; ma la volontà, privata della guida della ragione, viene snaturata nella sua stessa essenza, privata del suo fine e ridotta a delirante strumento dell’opposto del suo scopo.
Negli animali l’istinto è perfetto, in quanto non è stato creato per sottomettersi a null’altro che a se stesso. Negli uomini, invece, gli istinti non hanno la perfezione e l’impermeabilità che posseggono negli animali, poiché debbano essere governati ed incanalati dalla ragione. L’anima razionale dell’uomo deve governare tutto l’essere umano e, quindi, gli istinti umani sono fatti per essere governati dalla ragione e, dunque, necessitano della guida razionale per raggiungere il loro grado di perfezione. La volontà è lo strumento attraverso il quale la ragione conduce gli istinti a servire le finalità che ella determina; la volontà è la determinazione dell’uomo a perseguire le finalità della sua anima razionale.
Risulta di ogni evidenza che, senza le finalità prodotte dalla ragione, la volontà non ha uno scopo verso cui indirizzare gli istinti. La gravità dell’irrazionalismo volontarista sta proprio qui: la volontà – che per natura non ha fini propri, ma attua fini che le vengono dalla ragione – nel momento in cui la ragione non esercitasse più la sua guida, si troverebbe, inesorabilmente, a dover obbedire agli istinti, con un assoluto e totale ribaltamento delle gerarchie all’interno della persona. Questo è quanto affermato da Sigismund Schlomo Freud (1856-1939), attraverso il concetto di inconscio: l’inconscio, che per Freud è, di fatto, sempre subconscio (vale a dire istinti), governa la ragione, che finge di dare ordini alla volontà, ma, in realtà, esegue gli ordini degli istinti.
Il volontarismo, normalmente, tenta di coprire questo ribaltamento, evitando spiegare che cosa intenda per volontà ed esaltando termini quali «sentimenti», «passioni»… Si giunge persino a parlare di «dedizione», senza, ovviamente, specificare a chi o a cosa.
Il volontarismo nasce in ambito teologico, come estrema esaltazione dell’onnipotenza della libertà di Dio. Si afferma che Dio non può essere limitato dalla ragione, altrimenti la ragione sarebbe più grande di Dio; se ne deduce che di Dio noi possiamo conoscere ed apprezzare unicamente la volontà; fino a ridurre Dio a pura volontà. L’ovvia conseguenza di ciò è l’assoluta inconoscibilità di Dio, nella sua ontologia, ed il rifiuto di ogni esame razionale sia della Fede che della morale. Questa visione si adatta perfettamente all’Islam, come ha molto ben chiarito il persiano Abu Hāmid Mohammad ibn Mohammad al-Ghazālī (1058-1111), forse il più grande teologo islamico.
Il volontarismo teologico trova la sua massima espressione nella cosiddetta «teologia afasica»[3], che nega che di Dio si possa dire alcunché. Queste teorie hanno avuto una certa penetrazione anche nel Cristianesimo, soprattutto nel tentativo di esaltare la trascendenza divina, contro le riduzioni della Fede a pura filosofia.
Il volontarismo lascia qualche traccia in alcuni settori della teologia francescana, a partire da Giovanni Duns Scoto (1265-1308), che esaltava la superiorità della volontà rispetto alla conoscenza. La teologia francescana ha condotto una durissima lotta contro l’intellettualismo all’interno del Cattolicesimo, esaltando sempre la dimensione mistica ed il rapporto amoroso con Dio. È in questo senso che vanno intese le parole di Duns Scoto, geniale complesso teologo, che, però, è stato portato alle sue estreme conseguenze e, forse, stravolto da Guglielmo d’Occam (1285-1347), il vero fondatore del volontarismo teologico in seno al Cristianesimo. Occam separa in senso assoluto Fede e ragione, disprezzando ogni tentativo razionale di comprensione.
Dal volontarismo teologico, il passo verso il volontarismo gnoseologico è breve: se Dio non è razionale e, conseguentemente, non è razionalmente comprensibile, nemmeno il creato è comprensibile attraverso la ragione. La conseguenza è l’impossibilità di comprendere il mondo circostante, gli altri uomini e, in ultima analisi, se stessi. Il vuoto, lasciato dall’eliminazione della ragione del suo ruolo, viene riempito dalla sovra esaltazione di tutto ciò che non è razionale: passioni, sentimenti, istinti, potere…
Sul piano della filosofia politica, il passaggio dal volontarismo teologico a quello gnoseologico e politico avviene con l’Illuminismo, anche se vi sono tentativi che lo precedono, quali, ad esempio, la scuola giuridica gallicana di Marsilio da Padova (1275-1342), Niccolò Machiavelli (1469-1527) o tutto il contrattualismo inglese seicentesco; ma nessuno di questi precursori raggiunge la completa coerenza dell’irrazionalismo della filosofia dei Lumi. L’Illuminismo è, dottrinalmente, la completa negazione della capacità della ragione di conoscere il vero e, conseguentemente, è la dottrina (rectius l’insieme delle dottrine) che porta a più completo compimento il volontarismo.
Con la filosofia realistica, la politica è parte dell’etica e l’etica discende dalla conoscenza della realtà, attraverso la ragione. La politica è, quindi, subordinata al diritto naturale, discende dall’etica naturale, che, a sua volta, deriva dalla natura stessa dell’uomo. Il fine della politica è il bene comune, vale a dire l’applicazione alla situazione concreta del diritto naturale, che, rispecchiando, come abbiamo detto, la natura umana, fa il bene dei singoli e delle comunità, che, in ultima analisi, coincidono.
Con il volontarismo e, in modo particolare, con l’Illuminismo, è l’attuazione della volontà del detentore del potere politico; tale volontà diviene bene per definizione e, quindi, tanto i singoli quanto le comunità debbono piegarsi ad essa.
Sul piano più squisitamente giuridico, la filosofia realistica conduce al giusnaturalismo, vale a dire alla diretta applicabilità del diritto naturale quale norma, diremmo con linguaggio contemporaneo, «di rango sovra costituzionale», con la conseguenza che una legge che dovesse violare il diritto naturale non sarebbe, già sul piano giuridico, una legge, bensì un crimine sotto le mentite spoglie di norma. In quest’ottica, non esiste differenza concettuale tra le norme interne di un’organizzazione criminale e, ad esempio, la nazista «Soluzione Finale» o la legge 194 del 1978 per la legalizzazione dell’aborto in Italia.
Con il volontarismo, invece, come abbiamo visto, non esiste nessun diritto superiore alla volontà del legislatore (o del detentore del potere politico che dir si voglia), con l’ovvia conseguenza che, negli esempi fatti sopra, la «Soluzione Finale» o la legge 194 del 1978 divengono leggi vigenti, con l’obbligo giuridico di osservarle.
Ecco che, in quest’ottica, chiunque si trovi nella materiale possibilità di farlo può imporre al resto dei consociati ogni suo capriccio. Ecco che la Corte Suprema degli Stati Uniti può imporre che in tutta l’Unione la volontà di due persone del medesimo sesso di consumare stabilmente ripetutamente rapporti contro natura debba essere definita «matrimonio»[4], qualora ottenga il timbro governativo.

[1] Quando usiamo il termine «universale», sottolineiamo l’aspetto concettuale di questa realtà; quando, invece, usiamo il termine «natura», sottolineiamo l’aspetto ontologico della medesima realtà.

[2] Vedi articolo.

[3] dal verbo greco φημί (femì), che significa «parlare», preceduto dall’α, cosiddetto «privativo», che nega il significato della parola che lo segue.

[4] L’etimologia della parola matrimonio rende queste affermazioni pseudo giuridiche ancora più ridicole. «Matrimonio» deriva dall’unione delle parole latine mater (madre) e munus (compito, dovere); il matrimonio è, quindi, la situazione giuridica che permette alla donna di compiere il suo dovere di madre, cioè di mettere al mondo dei figli legittimi.

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