Nella memoria liturgica di S. Raimondo
Nonnato, cardinale e confessore, rilancio quest’editoriale di Radicati nella
fede del mese di settembre 2015.
Vicente Carducho, Martirio di S. Raimondo, XVI-XVII sec., Museo del Prado, Madrid |
Jerónimo Jacinto de Espinosa, S. Raimondo Nonnato, XVII sec., Museo del Prado, Madrid |
Francisco Pacheco, Ultima comunione di S. Raimondo, 1611 |
Francisco de Zurbarán, Madre implora benedizione di S. Raimondo, XVII sec. |
Juan de Mesa, San Ramón Nonato, 1626-27, Museo de Bellas Artes, Siviglia |
LA MESSA DELL’ASSEMBLEA CULLA L’AGNOSTICISMO
Editoriale “Radicati nella fede”
Anno VIII n. 8 - Settembre 2015
Ciò che non c’è più nella Messa,
scompare inevitabilmente anche dalla vita cristiana. È solo questione di tempo,
e nemmeno molto.
Così è stato con l’ultima riforma
liturgica: i “vuoti” del rito sono diventati “vuoti” del nuovo cristianesimo.
Ne vorremmo sottolineare uno tra
tutti: la scomparsa del submissa voce per il prete, che
corrisponde all’assenza del silenzio per i fedeli. Ci sembra questo uno dei
punti che più evidentemente indicano un cambiamento radicale nel rito
cattolico. D’altronde è questo che soprattutto appare come scandaloso, per i
fedeli che oggi si imbattono nella Messa tradizionale: le lunghe parti in cui
il sacerdote, specialmente nel canone, pronunciando le parole sottovoce, non fa
sentire alcunché ai fedeli, obbligandoli al silenzio.
Più volte abbiamo constatato che
è questo a far problema, più dell’uso del latino.
Eppure questo è un aspetto
determinante, che se eliminato, cambia tutto non solo nella messa, ma nel cristianesimo
stesso.
Il submissa voce, il
sottovoce per il prete e il corrispondente lungo silenzio per i fedeli, “incastra”
prete e fedeli alla fede, senza appoggi umani. Il sacerdote all’altare deve
stare di fronte a Dio, ripetendo sottovoce le parole di Nostro Signore,
rinnovando il Sacrificio del Calvario. È un rapporto diretto, personale, intimo
con Dio; certo mediato dalla consegna della Chiesa, che custodisce e trasmette
le parole che costituiscono la forma del sacramento, ma che in quell’istante
non si posa sull’umano della Chiesa, ma sul miracolo della grazia. Così facendo
il prete, nel rito tradizionale, immediatamente insegna ai fedeli che ciò che
conta è Dio stesso, la sua azione, la sua salvezza, e che queste ci raggiungono
personalmente.
La nuova messa non è così, è
tutta comunitaria. Il prete in essa, oltre ad essere tutto rivolto ai fedeli,
opera come colui che narra ai fedeli ciò che il Signore ha fatto nell’ultima cena:
racconta ai fedeli le parole e i gesti del Signore, così che l’azione
sacramentale che ne scaturisce appare tutta mediata dall’attenzione che questi
ultimi vi devono mettere. Scompare così per il prete il rapporto personalissimo
con Dio nel cuore della messa cattolica, il canone, sostituito da questo
estenuante rapporto con chi è di fronte all’altare. La nuova forma della messa
comunitaria ha così trasformato il sacerdote, gettato in pasto all’attivismo
più sfiancante, che è quello di farsi mediare la fede e il rapporto con Dio
sempre dai fedeli. La nuova messa ha prodotto un nuovo clero non più aiutato a
stare con Dio, non più ancorato all’atto di fede.
Il continuo dialogo nella messa,
tra sacerdote e assemblea, ha anche modificato la concezione di Chiesa: oggi
pensiamo la Chiesa come nascente dal basso, dal battesimo e quindi dal popolo
cristiano; non la pensiamo più come realmente è, nascente dall’alto, da Dio,
dal sacramento dell’Ordine. Chi pensa che la Chiesa sorga dal battesimo, non
sopporta più quel prete all’altare, che sottovoce pronuncia le parole che
costituiscono il miracolo del sacramento.
Anche i fedeli sono direttamente
rovinati dal nuovo rito perché, continuamente intrattenuti dal parlare del prete,
hanno disimparato anch’essi a stare di fronte a Dio. Così Dio stesso si trova
sostituito dall’assemblea celebrante, che diventa ingombrante ostacolo nell’educazione
al personale atto di fede.
In questi ultimi tempi si è
tentato nella messa moderna di correre ai ripari, cercando invano di reintrodurvi
un po’ di silenzio, collocato dopo la lettura del Vangelo, ma anche questo
espediente rivela la gravità della nuova posizione. Questo silenzio
reintrodotto, solitamente brevissimo, è un silenzio di riposo umano, di meditazione:
esso è di tutt’altra natura rispetto a quello prodotto dal submissa
voce. Il submissa voce produce un silenzio che avvolge il
rapporto intimo del sacerdote con Dio, che dà la sua persona affinché accada l’azione
divina che salva. Il silenzio del submissa voce è incentrato sull’azione di Dio
e non sulla meditazione dell’uomo, ed è uno dei più grandi richiami al primato
della vita soprannaturale, al primato della grazia.
Non c’è nulla da fare, occorre
tornare alla Messa di sempre, per tornare alla centralità dell’atto di fede, personale
risposta all’azione di Dio.
Sacerdoti e fedeli non possono
resistere di fronte al mondo, se non sono costituiti in forza da questo rapporto
personalissimo, che nessuna assemblea può sostituire.
L’alternativa? Un agnosticismo
pratico, un dubbio di fede pratico, un sospeso dell’anima, riempito dalle parole
di un’assemblea che intrattiene per non far pensare.
Osiamo dirlo: la nuova messa,
tutta ad alta voce, tutta narrazione e predica, ha cullato i vari agnosticismi,
dei preti e dei fedeli, non fermando il dramma dell’apostasia, cioè dell’abbandono
pratico della vita cristiana. Ha illuso, dando, nel migliore dei casi, un po’
di calore umano a buon mercato, diseducando a una posizione di fede vera,
assolutamente necessaria per attraversare la battaglia di questa vita.
Torniamo alla Messa tradizionale, prima palestra del cristianesimo, quello vero.
Torniamo alla Messa tradizionale, prima palestra del cristianesimo, quello vero.
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