Nella Vigilia dell’Assunzione della Beata Vergine Maria e nella memoria di S. Massimiliano
Maria Kolbe e dei SS. Ottocento Martiri di Otranto, rilancio quest’articolo del
puntuale ed attento prof. De Mattei vertente sui temi del prossimo sinodo di ottobre di cui abbiamo denunciato, nei giorni scorsi, alcune ulteriori manovre (v. qui), oltre ovviamente al c.d. sinodo ombra (v. qui) .... . L'articolo è tradotto in inglese da Rorate caeli.
Komeseis o Dormitio Virginis, XIV sec., chiesa di San Salvatore in Chora, ora museo Kariye, Istanbul |
Dormizione della Vergine, 1291 circa, Basilica di S. Maria in Trastevere, Roma |
Dormizione della Vergine, 1296 circa, Abside, Basilica di S. Maria Maggiore, Roma |
Vergine dormiente, Cripta, Chiesa della Dormizione in Sion o della Santa Sion, Gerusalemme |
Epitaffio della Madre di Dio, Monastero, Moni Mantzari Evia |
Angelo Cesselon, S. Massimiliano M. Kolbe e l'Immacolata, 1984, museo diocesano, Cassano alla Jonio |
Angelo Cesselon, S. Massimiliano M. Kolbe, XX sec. |
Angelo Cesselon, S. Massimiliano M. Kolbe, XX sec. |
Uno degli armadi con le reliquie degli 800 martiri idruntini, Cappella dei Martiri, Cattedrale, Otranto |
L’Instrumentum
laboris 2015: un attacco alla Veritatis splendor
di Roberto de Mattei
L’Instrumentum
Laboris del
21 giugno 2015 offre tutti gli elementi per comprendere qual’è la partita in
gioco nel prossimo Sinodo. La prima considerazione è di metodo. Il paragrafo 52
della Relatio Synodi del
2014 non ha ricevuto (come i paragrafi 53 e 55) la maggioranza qualificata dei
due terzi, necessaria a norma di regolamento per la approvazione, ma è stato
ugualmente inserito nel documento definitivo. Si è trattato di un’evidente
forzatura, che conferma il progetto di aprire le porte ai divorziati risposati,
nonostante l’opposizione di una parte consistente dei Padri sinodali.e
soprattutto malgrado l’insegnamento contrario della Chiesa. Siamo molto vicino
ad una sottile linea rossa che però nessuno, neanche il Papa, può varcare.
Nell’udienza generale del 5
agosto, Papa Francesco ha detto che “i divorziati risposati non sono affatto scomunicati e non vanno assolutamente trattati
come tali: essi fanno sempre parte della Chiesa“. Non
ci risulta però che nessuno tratti i divorziati risposati da scomunicati. Non
bisogna confondere la
privazione del sacramento dell’eucarestia a cui essi sono soggetti, con la scomunica, che è la più grave delle pene ecclesiastiche ed esclude
dalla comunione della Chiesa . I divorziati risposati continuano ad essere membri della Chiesa e sono tenuti ad
osservarne i precetti, ad assistere al Sacrificio della Messa e a perseverare
nella preghiera (Catechismo della Chiesa cattolica, n. 1651).
L’indissolubilità del matrimonio resta però una legge divina proclamata da Gesù
Cristo e solennemente confermata dalla Chiesa nel corso di tutta la sua storia.
La Chiesa esige per l’accesso all’Eucarestia lo stato di grazia, ottenuto
normalmente attraverso il sacramento della penitenza. I coniugi divorziati e
risposati si trovano oggettivamente “in stato di peccato grave manifesto”
(Codice di Diritto canonico, n. 915), ovvero “in oggettivo stato di
peccato mortale, stato che, se di pubblica notorietà, è aggravato dallo
scandalo” (Opzione
preferenziale per la famiglia. Cento domande e cento risposte intorno al Sinodo, Edizioni Supplica Filiale, Roma 2015, n.
63). Se i divorziati risposati non hanno l’intenzione di rimuovere questa
situazione di offesa a Dio, pubblics e permanente, non possono neanche accedere
al Sacramento della penitenza, che esige il proposito di non ricadere nel
peccato. La figura del divorziato risposato, come ha giustamente notato il
cardinale De Paolis, “contraddice l’immagine e la figura del matrimonio e
della famiglia, secondo l’immagine che la Chiesa ne offre”.
Come quadrare il cerchio? Per
un’analisi globale dell ‘Instrumentum
laboris rimando
all’eccellente analisi di Matthew McCusker, sul sito di “Voice of the Family”. Mi limito da parte
mia a qualche considerazione sull’approccio del documento al tema delle
convivenze extra-matrimoniali.
Il nuovo Catechismo della
Chiesa cattolica al n. 2390 dice che l’espressione “libere unioni” (o
convivenze) “abbraccia situazioni diverse: concubinato, rifiuto del
matrimonio come tale, incapacità di legarsi con impegni a lungo termine. Tutte queste situazioni costituiscono un’offesa alla dignità del
matrimonio; distruggono l’idea stessa della famiglia; indeboliscono il senso
della fedeltà. Sono contrarie alla legge morale: l’atto sessuale deve avere
posto esclusivamente nel matrimonio; al di fuori di esso costituisce sempre un
peccato grave ed esclude dalla comunione sacramentale“.
L’Instrumentum laboris suggerisce invece l’idea che le convivenze extra-matrimoniali non
siano intrinsecamente, ma solo “parzialmente” illecite.
“Nel caso in cui la
maturazione della decisione di giungere al matrimonio sacramentale da parte di
conviventi o sposati civilmente sia ancora ad uno stato virtuale, incipiente, o di graduale approssimazione, si chiede che la Chiesa non si sottragga al compito di
incoraggiare e sostenere questo sviluppo. Nello stesso tempo, farà cosa buona
se mostrerà apprezzamento e amicizia nei confronti dell’impegno già preso, del
quale riconoscerà gli elementi di coerenza con il disegno creaturale di Dio.” (n. 57).
Si tratta, in una parola, di
cogliere il bene che è presente nel male, o meglio di non considerare come
“assoluto” alcun male. C’è qui un’implicita confusione tra il livello
ontologico e quello morale. Se sul piano ontologico solo il bene è assoluto,
mentre il male è sempre privazione di bene, sul piano morale, bene e male hanno
una dimensione di assolutezza che non può essere ignorata. Ma il documento è
ancora più chiaro nei paragrafi successivi. Le convivenze, afferma, non sono
“cattive” o intrinsecamente illecite, ma “meno buone” del matrimonio, di cui ad
esse manca solo la “pienezza” (nn. 62-65). Infatti, “il sacramento del matrimonio, come unione fedele e indissolubile tra
un uomo e una donna chiamati ad accogliersi reciprocamente e ad accogliere la
vita, è una grande grazia per la famiglia umana”, ma la Chiesa“deve essere anche capace
di accompagnare quanti vivono il matrimonio civile o la convivenza nella
graduale scoperta dei germi del Verbo che vi si trovano nascosti, per
valorizzarli, fino alla pienezza dell’unione sacramentale” (n. 99). “La
scelta del matrimonio civile o, in diversi casi, della convivenza molto spesso
non è motivata da pregiudizi o resistenze nei confronti dell’unione
sacramentale, ma da situazioni culturali o contingenti. In molte circostanze,
la decisione di vivere insieme è segno di una relazione che vuole strutturarsi
e aprirsi ad una prospettiva di pienezza” (n. 102).
Che le convivenze
extramatrimoniali non sono ritenute illecite, lo dimostra il fatto che, per l’Instrumentum
laboris, esse non vanno in alcun modo condannate. “L’atteggiamento dei
fedeli nei confronti delle persone non ancora giunte alla comprensione dell’importanza del sacramento nuziale si esprima soprattutto
attraverso un rapporto di amicizia personale, accogliendo l’altro così come è, senza giudicarlo, rispondendo ai suoi bisogni fondamentali e allo stesso tempo
testimoniando l’amore e la misericordia di Dio” (n. 61).
“Il messaggio cristiano deve
essere annunciato prediligendo un linguaggio che susciti la speranza. È necessario adottare una comunicazione chiara ed invitante,
aperta, che non moralizzi, giudichi e controlli, e renda testimonianza dell’insegnamento morale della Chiesa,
restando contemporaneamente sensibile alle condizioni delle singole persone”(n. 78); “una comunicazione aperta al dialogo e scevra da pregiudizi è necessaria particolarmente nei confronti di quei cattolici che in materia di matrimonio e
famiglia non vivono, o non sono in condizione di vivere, in pieno accordo con
l’insegnamento della Chiesa” (n.
81).
Ciò che è assente dal testo,
prima ancora della condanna, è ogni forma di giudizio o valutazione morale. Eppure sappiamo che non
esistono atti umani neutri o ingiudicabili. Ogni azione può e deve essere
valutata secondo il metro della verità e della giustizia, come ci insegna a
fare san Paolo (Rm, 1-26-32: 1 Cor. 6,
9-10; 1 Tim, 1,9).
L’approccio sociologico e
avalutativo dell’Instrumentum laboris è confermato dall’uso del termine “irreversibilità”, che nella versione italiana ricorre due volte, con riferimento
alla situazione dei divorziati risposati. In realtà, il fallimento di un legame
matrimoniale può essere irreversibile, ma uno stato abituale di peccato, quale
è la convivenza more
uxorio non
è mai irreversibile. Eppure, nel documento, leggiamo: “È bene che questi cammini di integrazione pastorale
dei divorziati risposati civilmente siano preceduti da un opportuno
discernimento da parte dei pastori circa l’irreversibilità della situazione e la vita di fede della coppia in nuova unione, (…) secondo una legge di gradualità (cf. FC, 34), rispettosa della
maturazione delle coscienze” (n. 121). “Per affrontare la tematica suddetta, c’è un comune
accordo sulla ipotesi di un itinerario di riconciliazione o via penitenziale,
sotto l’autorità del Vescovo, per i fedeli divorziati risposati civilmente, che si trovano in
situazione di convivenza irreversibile (n. 123).
Se la situazione dei divorziati
risposati è in alcuni casi irreversibile, vuol dire che è irreversibile la
situazione morale in cui essi si trovano di peccato mortale, pubblico e
permanente. A meno di considerare non peccaminosa, ma virtuosa, tale
situazione. E’ questa la linea che l’Instrumentum Laboris sembra suggerire. Il matrimonio indissolubile viene additato come
l’ideale cristiano, elevato, ma difficilmente raggiungibile, Nella vita
concreta le unioni civili possono rappresentare fasi imperfette ma positive di
una vita in comune, che non può prescindere dall’esercizio della sessualità.
L’unione sessuale non è considerata intrinsecamente illecita, ma atto di amore
valutabile secondo le circostanze. Una relazione sessuale perde il suo
carattere morale negativo, se i partner la intrattengono in modo convinto,
stabile e duraturo..
L’Instrumentum laboris non nega tanto l’Esortazione Familiaris consortio di Giovanni Paolo II (22 novembre 1981), quanto l’enciclica Veritatis Splendor dello stesso pontefice (6 agosto 1993), con cui sembra voler
chiudere i conti. Fin
dagli anni Sessanta del Novecento si sono diffuse all’interno della Chiesa le nuove
teorie morali di autori come iil gesuita Josepf Fuchs, gesuita, e il
redentorista Bernhard Häring, che, in nome del primato della persona sulla
natura umana, negavano la assolutezza delle norme morali, considerandole solo
come esigenza di autorealizzazione (cfr. ad esempio, del padre Fuchs, The Absolutness of Moral Terms, in “Gregorianum”, 52 (1971) pp. 415-457). Da questo
personalismo, che influenzò la costituzione pastorale Gaudium et Spes del Vaticano II (7 dicembre 1965), discendono gli errori del
“proporzionalismo”, del “teleologismo” e del “consequenzialismo” esplicitamente
condannati dall’enciclica Veritatis
Splendor (nn.74
e 75). Contro queste teorie hanno scritto, in maniera più che convincente,
Ramon Garcia de Haro (La
vita cristiana, Ares,
Milano 1995) e, più recentemente, Livio Melina, José Noriega e Juan José Perez
Soba (Camminare nella luce, i fondamenti della morale cristiana,
Cantagalli, Siena 2008), riaffermando la dottrina degli assoluti morali, per la
quale esistono atti illeciti che non possono essere giustificati da alcuna
intenzione o circostanza. L’unione sessuale al di fuori del matrimonio
legittimo è uno di questi. “Gii atti che, nella tradizione morale della
Chiesa, sono stati denominati «intrinsecamente cattivi» (intrinsece malum) – stabilisce la Veritatis Splendor – lo sono sempre e per sé, ossia per il loro stesso oggetto,
indipendentemente dalle ulteriori intenzioni di chi agisce e dalle circostanze” (n. 89).
Nel suo discorso alla Curia
Romana del 20 dicembre 2010, Benedetto XVI ha ribadito che un’azione in sé
cattiva non potrà mai essere ammessa. Denunciando il crimine della pedofilia, il Papa ne rintracciava il
fondamento ideologico in una“perversione di fondo del concetto
di ethos. Si asseriva – persino nell’ambito della teologia cattolica – che
non esisterebbero né il male in sé, né il bene in sé. Esisterebbe soltanto un
“meglio di” e un “peggio di”. Niente sarebbe in se stesso bene o male. Tutto
dipenderebbe dalle circostanze e dal fine inteso. A seconda degli scopi e delle
circostanze, tutto potrebbe essere bene o anche male. La morale viene
sostituita da un calcolo delle conseguenze e con ciò cessa di esistere. Gli
effetti di tali teorie sono oggi evidenti. Contro di esse Papa Giovanni
Paolo II, nella sua Enciclica Veritatis splendor del 1993, indicò con forza profetica nella grande tradizione
razionale dell’ethos cristiano le basi essenziali e permanenti dell’agire
morale.”
Da queste parole escono
polverizzate le teorie del male minore e dell’etica della situazione. La
discussione è tutta lì. Da una parte i cattolici che, in conformità al
Magistero della Chiesa, credono nel carattere oggettivo e assoluto della morale;
dall’altra i novatori che reinterpretano l’etica in chiave soggettiva e
relativista, piegandola ai loro desideri o interessi. E’ più di cinquant’anni
che se ne discute, ma ora i nodi vengono al pettine.
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