Abbiamo già parlato in passato della conversione di Giosué Carducci (v. qui).
Oggi parliamo della conversione di un altro scrittore: Oscar Wilde.
Il percorso che ha portato il dandy d’origine
irlandese Wilde alla fede cattolica non è stato piano e privo di
ostacoli. Esso, al contrario, è stato intriso di diverse difficoltà, non foss’altro
perché egli – almeno da principio – era attratto dal cattolicesimo unicamente
perché, da esteta qual era, attratto dalla bellezza dei riti cattolici. Come,
però, spesso accade in questi casi, «per tutta la vita cercò la Bellezza e finì
per incontrare la Verità», come nota Paolo Gulisano. Del resto è significativo
che, benché battezzato solo sul letto di morte, ammettesse la forza
rigeneratrice della fede cattolica, tanto da voler aderire alla Chiesa
cattolica, «dove – come dirà Chesterton – tutte le verità si danno appuntamento».
Con tono scherzoso, disse ad un amico: «La Chiesa cattolica è soltanto per i
santi e i peccatori. Per le persone rispettabili va benissimo quella
anglicana».
Tre settimane prima di morire, dichiarò ad un
corrispondente del Daily Chronicle: «Buona parte della mia perversione morale
è dovuta al fatto che mio padre non mi permise di diventare cattolico.
L’aspetto artistico della Chiesa e la fragranza dei suoi insegnamenti mi avrebbero
guarito dalle mie degenerazioni. Ho intenzione di esservi accolto al più presto»
(R. Ellmann, Oscar Wilde, Rizzoli, Milano 1991, p. 669). Il padre, noto
oftalmologo dell’epoca, nonché massone ed anti-cattolico, proibì al giovane
Oscar quando era studente universitario di battezzarsi nella fede cattolica, minacciandolo
di tagliargli i viveri. Nonostante ciò, nel 1877, incontrò in segreto Papa il
beato Pio IX , che ammirava fortemente, a cui dedicò persino un sonetto, e per
il quale nutriva profondo rispetto - e all’epoca non era certo di moda stimare
Pio IX - tanto che, a quanti gli chiedevano della sua fede, rispondeva: «Non sono
cattolico, sono solo papista». Da allora Wilde divenne apertamente sostenitore
della causa di Papa Pio IX, quella del potere temporale dei papi su Roma e
sullo Stato Pontificio. Altrettanta venerazione ebbe verso il successore, Leone
XIII, alla cui benedizione pasquale attribuì la guarigione da una grave forma
di dermatite: «Quando vidi il vecchio bianco Pontefice, successore degli
Apostoli e padre della Cristianità, portato in alto sopra la folla, passarmi
vicino e benedirmi dove ero inginocchiato, io sentii la mia fragilità di corpo
e di anima scivolare via da me come un abito consunto, e ne provai piena
consapevolezza». Riguardo alla guarigione dichiarò: «Il Vicario di Cristo ha
fatto tutto». Da quel momento iniziò ad andare molto spesso, durante il suo soggiorno
romano, alle udienze pontificie. Per approfondimenti, v. Oscar Wilde: un'icona gay?; La conversione di Oscar Wilde; La conversione di Oscar Wilde; Lo strabiliante cattolicesimo di Oscar Wilde.
Volentieri rilancio questa recensione di Luca
Fumagalli su un testo dedicato ad Oscar Wilde nella festa di san Lorenzo
arcidiacono e martire.
Guercino, La
Vergine col Bambino appare a S. Lorenzo, 1624, Chiesa del Seminario (chiesa di Sant'Agostino), Finale
Emilia
|
Jean Baptiste de Champaigne, Martirio di S. Lorenzo, 1660 circa, National Gallery of Art, Washington |
Oscar Wilde: una vita per la Bellezza, un incontro con la Verità
«Il cattolicesimo è la sola religione in cui
morirei»
(Oscar Wilde)
Di Luca
Fumagalli
Autunno del
1900. Oscar Wilde si trova a Parigi. Un vecchio problema all’orecchio, eredità
di due anni di dura prigionia, si ripresenta sotto forma di emorragie che,
oltre a spossarlo, lo obbligano ad assidue cure mediche. Ormai è praticamente
costretto a letto. L’unico amico che gli rimane è Robbie Ross, una vecchia
fiamma degli anni felici della gioventù che, scontati i peccati del passato, si
è convertito al cattolicesimo e svolge ora la professione di giornalista.
Sentendo prossima la fine anche Oscar decide di compiere il grande passo,
quello che aveva rimandato per tutta la vita. Rendendosi conto che l’agonia è
iniziata, Ross si precipita a cercare un sacerdote presso il vicino convento
dei passionisti. Per un singolare scherzo del destino riesce a trovare un
religioso irlandese, padre Cuthbert Dunne, che immediatamente amministra i
sacramenti a Wilde. Lo stanco scrittore muore in pace mentre stringe tra le
mani un rosario. È il 30 novembre.
Noto
comunemente come grande scrittore esponente dell’estetismo, dandy imperituro
che con abiti e atteggiamenti anticonvenzionali scosse il perbenismo della
società vittoriana, in realtà Oscar Wilde (1854-1900) fu molto di più del poeta
maledetto con cui, soprattutto in Italia, la critica ha cercato di etichettare
sbrigativamente una personalità sfuggente e contraddittoria. Accanto a
immortali capolavori come Il ritratto di Dorian Gray, Il fantasma di Canterville o L’importanza di chiamarsi Ernesto, della suo
biografia sopravvivono nell’immaginario collettivo solamente pochi frammenti,
legati soprattutto alle relazioni scabrose come quella con Lord Alfred Douglas
che, oltre alla carriera, gli costarono anche diversi mesi di detenzione. In
altre parole, l’unico Wilde che resiste agli assalti del tempo è il cantore degli
eccessi: «Non c’è nulla che faccia bene se usato con moderazione. Non puoi
sapere che cosa ci sia di buono in una cosa finché non le avrai strappato il
cuore».
Eppure, al
di là degli scandali, la vita di Wilde è come attraversata da una sorta di
fiume carsico che ha la sua sorgente nella nativa Irlanda. L’isola di smeraldo,
patria di miti e leggende, è anche la terra del cristianesimo, dove la fede è
stata preservata con singolare tenacia nonostante le calamità che, nel corso
dei secoli, si sono abbattute su di essa. Dalle violenze di Cromwell alla
carestia di metà ‘800, l’Irlanda è stata sovente vittima dei soprusi della
vicina Inghilterra, eppure ha saputo mantenere inalterato quel legame di
figliolanza che da sempre ha nutrito nei confronti di Roma.
La biografia
di Wilde è dunque una ricerca della Bellezza e della Verità che, a partire
dalle circostanze storiche e poetiche, si sostanzia in una conversione che
giunge poco prima della morte. “L’arte per l’arte”, celebre motto coniato da
Walter Peter e fatto proprio da Wilde, corrisponde solo a una parte – e
certamente la meno importante – di un’esistenza condotta sul crinale, sempre in
bilico tra la fede e la mondanità.
Del resto la
storia del famoso scrittore è simile a quella di altri artisti che, a cavallo
tra XIX e XX secolo, trovarono un appagamento al loro disordinato desiderio di
felicità proprio nella Chiesa cattolica. John Gray – amico personale di Wilde e
ispiratore del personaggio di Dorian Gray che, non a caso, porta il suo cognome
– Ernest Dowson, Aubrey Beardsley, Ronald Firbank e Frederick Rolfe sono solo
alcuni dei tanti che abbandonarono i riprovevoli costumi giovanili per convertirsi
al cattolicesimo, sovente attratti dalla bellezza della liturgia e dal latino,
una lingua senza tempo che con il suo carisma costituiva l’unico possibile
baluardo alla decadenza della società moderna. Molti di questi exbohémien, compresi
diversi amici di Wilde, presero poi i voti, diventando sacerdoti o monaci.
A rendere
ancora più ostico il percorso dello scrittore verso la conversione vi era la
sua naturale socialità e la disponibilità a venire a patti con qualsiasi
tentazione. Questo aspetto è verificabile anche nella distanza che separa il
suo Il ritratto di Dorian Gray da A rebours di Karl
Huysmans, il primo narratore del decadentismo a diventare cattolico. Se il protagonista
del fortunato romanzo del francese si rinchiude in una sorta di prigione
dorata, fatta di bellezza e sensazioni amplificate, per sfuggire a un mondo
meschino che deplora, Dorian Gray, al contrario, prova un piacere perverso a
sguazzare tra i bassifondi esistenziali di un’Inghilterra degradata: «Non
mancare mai di rispetto alla buona società… solo chi non riesce ad accedervi lo
fa». Tutto sommato, però, anche nel libro che è considerato il manifesto
dell’estetismo non sono affatto secondari temi morali come il peccato, la
perversione e il tentativo luciferino di sconfiggere la morte venendo a patti
con il male. L’arte, in Wilde, non è mai qualcosa di superficiale e scontato. É
uno strumento impiegato per sondare l’anima e, anche quando lo scrittore sembra
dimenticarsene, il suo attrezzo è così accurato che continua a lavorare
indisturbato.
Basterebbe
descrivere l’arredamento della sua casa a Londra, nel 1879, per rendersi conto
del valore di questa forza operante lungo l’arco esistenziale dell’irlandese.
Viveva con l’amico pittore Frank Miles, e quella che più tardi avrebbero
ribattezzato come la “Casa del Tamigi” era in realtà un’abitazione trasandata,
vecchia e buia. A Wilde toccò il secondo dei tre piani e lo riempì presto di
porcellane cinesi, libri, statuette di Tanagra, tappeti greci, ma anche oggetti
religiosi come una Madonna di gesso, una foto di Pio IX e una del cardinale
Manning. Gli scaffali, stracolmi di esotismo, funzionano come una sorta di
correlativo oggettivo dell’animo del poeta, drammaticamente lacerato nel gioco
dell’esistenza.
Il ritratto
di Oscar Wilde di Paolo
Gulisano si incarica dunque di presentare al lettore italiano una biografia a
tutto tondo di una delle penne più geniali del XIX secolo. E lo fa con
singolare fortuna, coniugando una prosa leggera e godibile a una mole
impressionante di dati e annotazioni (chiudendo tra l’altro ogni capitolo con
un piccolo elenco degli aforismi più brillanti di Wilde). Per la prima volta il
saggio di Gulisano rende giustizia alla complessità caratteriale dello
scrittore facendo riemergere dall’oblio quegli elementi religiosi fortemente
presenti nella sua vita ma troppo spesso taciuti. Il risultato è un affresco
incantevole, la storia portentosa del riscatto di un’anima in limine mortis. Molto probabilmente
lo stesso Wilde dovette sentirsi un po’ come il buon ladrone – un fortunato
paradosso – quando scrisse: «Il vero stolto è colui che non conosce se stesso».
PAOLO GULISANO, Il ritratto di Oscar Wilde, Milano, Ancora, 2009, pp. 192.
Fonte: Radiospada, 8.8.2015
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