mercoledì 30 settembre 2015

“Inaccettabile”. Il documento base del sinodo “compromette la verità”. Questo è parlare chiaro!

Finalmente un parlare chiaro!
L’Instrumentum laboris, che riprende la Relazione finale dello scorso Sinodo straordinario e che riesuma – arbitrariamente – anche le proposizioni che non erano state approvate a maggioranza qualificata, si presenta nel complesso inaccettabile per un cattolico, in quanto contenente opinioni erronee, contrarie alla Rivelazione ed alla Tradizione della Chiesa; ovvero proposizioni false ed inesatte, favorevoli all’eresia ed al peccato, scandalose e temerarie; insomma un documento da rigettare e che nessun cattolico, degno di questo nome e del suo Battesimo, potrà accogliere!
Nella memoria di S. Girolamo, dottore della Chiesa, rilancio questo contributo dei tre teologi estensori, ringraziandoli per il loro lavoro indefesso a favore della Verità, nello smontare, pezzo dopo pezzo, gli errori.

Tintoretto, S. Girolamo nel deserto, 1571-72, Kunsthistorisches Museum, Vienna

Guercino, S. Girolamo nel deserto e la tromba del giudizio, 1650 circa, Hermitage, San Pietroburgo


Guercino, S. Girolamo nel deserto e la tromba del giudizio, XVII sec., Hermitage, San Pietroburgo

Francisco Camilo, S. Girolamo frustrato dagli angeli, 1651, museo del Prado, Madrid

Juan de Valdés Leal, Tentazione di S. Girolamo, 1657, museo de Bellas Artes, Siviglia

Juan de Valdés Leal, Flagellazione di S. Girolamo, 1657, museo de Bellas Artes, Siviglia

Alonso Cano, S. Girolamo penitente, 1660 circa, museo del Prado, Madrid


“Inaccettabile”. Il documento base del sinodo “compromette la verità”

Alla vigilia dell’assise, tre teologi con il sostegno di cardinali e vescovi criticano e rigettano l’“Instrumentum laboris”. Ecco il testo integrale del loro atto d’accusa

di Sandro Magister


ROMA, 29 settembre 2015 – Il testo che qui è reso pubblico si aggiunge ai numerosi pronunciamenti di diverso segno sui temi della famiglia, del matrimonio, del divorzio, dell’omosessualità, che si sono susseguiti con intensità crescente, nell’avvicinarsi dell’apertura del sinodo.
Si presenta come opera collettiva. Non solo perché sono tre i firmatari del testo, ma più ancora perché esso è nato e cresciuto, nell’arco di quasi un anno, per iniziativa e con l’apporto di numerosi altri cattolici, sacerdoti e laici, di varie nazioni d’Europa, e con l’attenzione e il sostegno di vescovi e cardinali, alcuni dei quali prossimi padri sinodali.
Il testo ha per oggetto i paragrafi più controversi della “Relatio” finale del sinodo del 2014, poi confluiti nei “Lineamenta” e nell’“Instrumentum laboris”, riguardanti la comunione ai divorziati risposati, la cosiddetta “comunione spirituale” e gli omosessuali.
A giudizio dei promotori del testo, questi paragrafi qua e là contraddicono la dottrina insegnata a tutti i fedeli dal magistero della Chiesa e dallo stesso Catechismo della Chiesa Cattolica, al punto da “compromettere la Verità” e quindi rendere “non accettabile” l’intero “Instrumentum laboris”, come pure ogni “altro documento che ne riproponesse i contenuti e fosse posto ai voti alla fine della prossima assemblea sinodale”.
I tre sacerdoti e teologi che firmano il testo sono:
– Claude Barthe, 68 anni, Parigi, cofondatore della rivista “Catholica”, esperto di diritto e di liturgia, promotore dei pellegrinaggi a sostegno della “Summorum Pontificum”, autore di saggi quali “La messe une forêt de symboles”, “Les romanciers et le catholicisme”, “Penser l’œcuménisme autrement”.
– Antonio Livi, 77 anni, Roma, decano emerito della facoltà di filosofia della Pontificia Università Lateranense, socio ordinario della Pontificia Accademia di San Tommaso e presidente dell’unione apostolica “Fides et ratio” per la difesa della verità cattolica. La sua ultima opera, del 2012, si intitola: “Vera e falsa teologia”.
– Alfredo Morselli, 57 anni, Bologna, parroco, confessore e predicatore di esercizi spirituali secondo il metodo di sant’Ignazio. Licenziato al Pontificio Istituto Biblico, é autore di saggi quali “La negazione della storicità dei Vangeli. Storia, cause, rimedi (2006) e “Allora tutto Israele sarà salvato (2010). Il suo arcivescovo è il cardinale Carlo Caffarra.

Il testo può essere letto nella sua integralità, nella lingua originale italiana, in quest’altra pagina di www.chiesa:


Qui di seguito sono riprodotti la premessa e due dei quattro capitoli in cui il testo si articola: il primo sulla comunione ai divorziati risposati e il terzo sull’omosessualità.
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OSSERVAZIONI SULL’“INSTRUMENTUM LABORIS”

di Claude Barthe, Antonio Livi, Alfredo Morselli

In questo documento vengono articolate, in maniera puntuale, alla luce del Catechismo della Chiesa Cattolica e, in generale, del “depositum fidei”, delle perplessità verso la “Relatio Synodi” dello scorso Sinodo straordinario, ripresa ed ampliata poi nell’”Instrumentum laboris” per la XIV Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi.
Anzi, è appena il caso di osservare come l’”Instrumentum” superi la stessa “Relatio”, ampliandone la portata, sia andato al di là delle intenzioni degli stessi Padri sinodali. In effetti, questo documento ha avuto cura di riprendere e rielaborare persino quelle proposizioni, che, non essendo state approvate a maggioranza qualificata dalla scorsa assise sinodale straordinaria, non dovevano né potevano essere incluse nel documento finale di quel Sinodo e che, perciò, dovevano reputarsi respinte.
Pertanto, anche laddove l’”Instrumentum” appaia adeguarsi alla Rivelazione ed alla Tradizione della Chiesa, ne risulta, in generale, compromessa la Verità, sì da rendere complessivamente non accettabile il documento, o altro che ne riproponesse i contenuti e fosse posto ai voti alla fine della prossima assemblea sinodale.
La pastorale non è l’arte del compromesso e del cedimento: è l’arte della cura delle anime nella verità. Per cui, per tutti i Padri sinodali valga il monito del profeta Isaia: “Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, che cambiano l’amaro in dolce e il dolce in amaro” (Isaia 5, 20).
Non ultimo, va notato come l’”Instrumentum” sia stato, in larga misura, svuotato di significato teologico e superato, dal punto di vista canonico, dai due Motu proprio dello scorso 15 agosto, resi noti l’8 settembre seguente.

SOMMARIO

1 – Osservazioni sul § 122 (52)

A. – Un’ipotesi incompatibile con il dogma
B. – Un uso improprio del Catechismo della Chiesa Cattolica, traendone erroneamente argomenti per suffragare una forma di etica della situazione
C. – Un argomento non ad rem

2 – Osservazioni sui §§ 124-125 (53)

Non univocità del termine “Comunione spirituale” per chi è in grazia di Dio e per chi non lo è

3 – Osservazioni sui §§ 130-132 (55-56)

“Instrumentum laboris” e attenzione pastorale verso le persone con tendenza omosessuale: lacune e silenzi

4 - Comunione spirituale e divorziati risposati

Studio più approfondito sulla Comunione spirituale
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1 – OSSERVAZIONI SUL § 122 (52)

Premessa

La prossima assemblea del Sinodo dei Vescovi vuole trattare tanti problemi riguardanti la famiglia. Tuttavia, anche grazie al clamore mediatico e alle grandi attenzioni del Papa nei confronti dei divorziati risposati, la prossima assise è di fatto considerata come il Sinodo della Comunione ai divorziati. Uno dei temi che sarà affrontato sembra essere, di fatto e per i più, il tema del dibattito.
Si sa che, per risolvere un problema, è essenziale impostarlo bene. Purtroppo abbiamo di che ritenere che il documento che dovrebbe fornire la corretta impostazione di tutta la questione – ovvero l’“Instrumentum laboris” – sia invece fuorviante e pericoloso per la nostra fede.
Presentiamo alcune osservazioni sul paragrafo più problematico, riguardante la questione dell’ammissione alla S. Comunione di chi vive “more uxorio” pur non essendo canonicamente sposato; si tratta del § 122, che ripropone il § 52 della versione definitiva della “Relatio finalis” dell’assemblea del 2014.
Il testo in questione, il § 122 (52):
“122 (52). Si è riflettuto sulla possibilità che i divorziati e risposati accedano ai sacramenti della Penitenza e dell’Eucaristia. Diversi Padri sinodali hanno insistito a favore della disciplina attuale, in forza del rapporto costitutivo fra la partecipazione all’Eucaristia e la comunione con la Chiesa ed il suo insegnamento sul matrimonio indissolubile. Altri si sono espressi per un’accoglienza non generalizzata alla mensa eucaristica, in alcune situazioni particolari ed a condizioni ben precise, soprattutto quando si tratta di casi irreversibili e legati ad obblighi morali verso i figli che verrebbero a subire sofferenze ingiuste. L’eventuale accesso ai sacramenti dovrebbe essere preceduto da un cammino penitenziale sotto la responsabilità del Vescovo diocesano. Va ancora approfondita la questione, tenendo ben presente la distinzione tra situazione oggettiva di peccato e circostanze attenuanti, dato che «l’imputabilità e la responsabilità di un’azione possono essere sminuite o annullate» da diversi «fattori psichici oppure sociali» (Catechismo della Chiesa Cattolica, 1735)”.
Ci sono motivi per ritenere che il § 122 contenga:

A. – Un’ipotesi incompatibile con il dogma
B. – Un uso improprio del Catechismo della Chiesa Cattolica, traendone erroneamente argomenti per suffragare una forma di etica della situazione.
C. – Un argomento non “ad rem”

A. – Un’ipotesi incompatibile con il dogma, tale da configurarsi come dubbio volontario in materia di fede

“Si è riflettuto sulla possibilità che i divorziati e risposati accedano ai sacramenti della Penitenza e dell’Eucaristia”.
Questa riflessione è illecita e ricade sotto la specie del dubbio volontario in materia di fede, in base a quanto ha dichiarato solennemente il Concilio Vaticano I: “coloro che hanno ricevuto la fede sotto il magistero della Chiesa non possono mai avere giustificato motivo di mutare o di dubitare della propria fede”. In piena conformità con tutta la Tradizione della Chiesa, anche il Catechismo della Chiesa Cattolica pone il dubbio tra i peccati contro la fede:
CCC 2088: “Ci sono diversi modi di peccare contro la fede. Il dubbio volontario circa la fede trascura o rifiuta di ritenere per vero ciò che Dio ha rivelato, e la santa Chiesa ci propone a credere. […] Se viene deliberatamente coltivato, il dubbio può condurre all’accecamento dello spirito”.
Che l’affermazione “i divorziati civilmente risposati conviventi ‘more uxorio’ non possono accedere alla Comunione Eucaristica” appartenga a ciò che è proposto a credere come rivelato dalla Chiesa – e quindi non possa più essere rimesso in discussione –, è provato da:
Giovanni Paolo II, Esort. apost. “Familiaris consortio”, 22 novembre 1981, § 84:
La Chiesa, tuttavia, ribadisce la sua prassi, fondata sulla Sacra Scrittura, di non ammettere alla comunione eucaristica i divorziati risposati. Sono essi a non poter esservi ammessi, dal momento che il loro stato e la loro condizione di vita contraddicono oggettivamente a quell’unione di amore tra Cristo e la Chiesa, significata e attuata dall’Eucaristia”.
Congregazione per la Dottrina della Fede, Lettera ai Vescovi della Chiesa Cattolica circa la recezione della comunione eucaristica da parte di fedeli divorziati risposati, 14 settembre 1994:
“5. La dottrina e la disciplina della Chiesa su questa materia sono state ampiamente esposte nel periodo postconciliare dall’Esortazione Apostolica «Familiaris consortio». L’Esortazione, tra l’altro, ricorda ai pastori che, per amore della verità, sono obbligati a ben discernere le diverse situazioni e li esorta a incoraggiare la partecipazione dei divorziati risposati a diversi momenti della vita della Chiesa. Nello stesso tempo ribadisce la prassi costante e universale, «fondata sulla Sacra Scrittura, di non ammettere alla Comunione eucaristica i divorziati risposati» (Esort. apost. Familiaris consortio, n. 84: AAS 74 (1982) 185), indicandone i motivi. La struttura dell’Esortazione e il tenore delle sue parole fanno capire chiaramente che tale prassi, presentata come vincolante, non può essere modificata in base alle differenti situazioni.
“6. Il fedele che convive abitualmente «more uxorio» con una persona che non è la legittima moglie o il legittimo marito, non può accedere alla Comunione eucaristica. Qualora egli lo giudicasse possibile, i pastori e i confessori, date la gravità della materia e le esigenze del bene spirituale della persona (Cf. 1 Cor 11,27-29) e del bene comune della Chiesa, hanno il grave dovere di ammonirlo che tale giudizio di coscienza è in aperto contrasto con la dottrina della Chiesa (Cf. Codice di Diritto Canonico, can. 978 § 2). Devono anche ricordare questa dottrina nell’insegnamento a tutti i fedeli loro affidati”.
Pontificio consiglio per i testi legislativi, Dichiarazione circa l’ammissibilità alla santa comunione dei divorziati risposati, 24 giugno 2000:
“Il Codice di Diritto Canonico stabilisce che: «Non siano ammessi alla sacra Comunione gli scomunicati e gli interdetti, dopo l’irrogazione o la dichiarazione della pena e gli altri che ostinatamente perseverano in peccato grave manifesto» (can. 915). Negli ultimi anni alcuni autori hanno sostenuto, sulla base di diverse argomentazioni, che questo canone non sarebbe applicabile ai fedeli divorziati risposati. […]
“Davanti a questo preteso contrasto tra la disciplina del Codice del 1983 e gli insegnamenti costanti della Chiesa in materia, questo Pontificio Consiglio, d’accordo con la Congregazione per la Dottrina della Fede e con la Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, dichiara quanto segue:
“1. La proibizione fatta nel citato canone, per sua natura, deriva dalla legge divina e trascende l’ambito delle leggi ecclesiastiche positive: queste non possono indurre cambiamenti legislativi che si oppongano alla dottrina della Chiesa. Il testo scritturistico cui si rifà sempre la tradizione ecclesiale è quello di San Paolo: «Perciò chiunque in modo indegno mangia il pane o beve il calice del Signore, sarà reo del corpo e del sangue del Signore. Ciascuno, pertanto, esamini se stesso e poi mangi di questo pane e beva di questo calice; perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna» (1 Cor 11, 27-29. Cfr. Concilio di Trento, Decreto sul sacramento dell’Eucaristia: DH 1646-1647, 1661)”.
Anche il Catechismo della Chiesa Cattolica “ribadisce la prassi costante e universale «fondata sulla Sacra Scrittura, di non ammettere alla Comunione eucaristica i divorziati risposati»“ e “gli insegnamenti costanti della Chiesa in materia”:
CCC 1650: «Oggi, in molti paesi, sono numerosi i cattolici che ricorrono al divorzio secondo le leggi civili e che contraggono civilmente una nuova unione. La Chiesa sostiene, per fedeltà alla parola di Gesù Cristo (“Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio contro di lei; se la donna ripudia il marito e ne sposa un altro, commette adulterio”: Mc 10,11-12 ), che non può riconoscere come valida una nuova unione, se era valido il primo matrimonio. Se i divorziati si sono risposati civilmente, essi si trovano in una situazione che oggettivamente contrasta con la legge di Dio. Perciò essi non possono accedere alla Comunione eucaristica, per tutto il tempo che perdura tale situazione. Per lo stesso motivo non possono esercitare certe responsabilità ecclesiali. La riconciliazione mediante il sacramento della Penitenza non può essere accordata se non a coloro che si sono pentiti di aver violato il segno dell’Alleanza e della fedeltà a Cristo, e si sono impegnati a vivere in una completa continenza».

Conclusioni del § A.

Il § 122 dell’”Instrumentum laboris” ammette la possibilità di ciò che, per un cattolico, è del tutto impossibile. L’accesso alla comunione sacramentale ai divorziati risposati è presentata come una legittima possibilità, quando, invece, tale possibilità è stata già definita illecita dal magistero precedente (FC, CdF 1994, CCC, Pont. C. Testi Legislativi); è presentata come una possibilità non solo del tutto teorica (ragionando “per impossibile”), ma reale, quando invece l’unica possibilità reale per un cattolico coerente con la Verità rivelata è affermare l’impossibilità che lecitamente i divorziati risposati accedano alla comunione sacramentale. La questione è presentata come teologicamente aperta, quando è stata già dottrinalmente e pastoralmente chiusa (Ibidem); è presentata come se si partisse dal nulla del magistero precedente, quando, invece, il magistero precedente si è pronunciato con tale autorevolezza, da non ammettere più discussioni in merito (Ibidem).
Se qualcuno si ostinasse a voler ridiscutere ciò che viene proposto a credere come rivelato dalla Chiesa, formulando delle ipotesi che risultano incompatibili con il dogma, indurrebbe i fedeli a un dubbio volontario in materia di fede.

B. – Uso improprio del Catechismo della Chiesa Cattolica, traendone erroneamente argomenti per suffragare una forma di etica della situazione

“Va ancora approfondita la questione, tenendo ben presente la distinzione tra situazione oggettiva di peccato e circostanze attenuanti, dato che «l’imputabilità e la responsabilità di un’azione possono essere sminuite o annullate» da diversi «fattori psichici oppure sociali» (Catechismo della Chiesa Cattolica, 1735)”.
In queste ultime righe del § 122 dell’”Instrumentum laboris”, si rimanda al § 1735 del Catechismo della Chiesa Cattolica per suffragare “la distinzione tra situazione oggettiva di peccato e circostanze attenuanti”, in vista di un’eventuale ammissione ai sacramenti dei “divorziati risposati”. Che cosa dice in realtà il § 1735 del Catechismo? Leggiamolo per intero:
“L’imputabilità e la responsabilità di un’azione possono essere sminuite o annullate dall’ignoranza, dall’inavvertenza, dalla violenza, dal timore, dalle abitudini, dagli affetti smodati e da altri fattori psichici oppure sociali”.
E adesso cerchiamo di spiegare questo testo: ipotizziamo il caso di una povera ragazza in India o in Cina che viene sterilizzata subendo pressioni, o una ragazza di oggi in Italia che viene indotta ad abortire dai parenti suoi e del fidanzato... In questi casi sicuramente l’imputabilità è sminuita o annullata, ma non direttamente (simpliciter) per le tristi circostanze, ma per l’imperfezione dell’atto: un atto moralmente giudicabile – un atto umano, in termini più precisi – deve essere libero e consapevole.
Oggi, anche in Italia, con la cattiva educazione che si riceve fin dalla scuola materna, una ragazza può benissimo non rendersi conto che l’aborto è un omicidio: inoltre potrebbe essere psicologicamente fragile e non avere caratterialmente la grinta per andare contro tutti e tutto. È chiaro che la responsabilità morale di questa ragazza è attenuata.
Altro è il caso di un divorziato, risposato civilmente, che ha ritrovato la fede a giochi fatti: ipotizziamo sia stato abbandonato dalla moglie, che si sia risposato con l’errata idea di rifarsi una famiglia, e che non possa più ritornare con la prima vera unica moglie (magari questa si è riaccompagnata con un altro uomo e ha avuto dei figli da lui); questo fratello, pur pregando e partecipando attivamente alla vita della parrocchia, benvoluto dal parroco e da tutti i fedeli, consapevole del suo stato di peccato e neppure ostinato a volerlo giustificare, vive more uxorio con la moglie sposata civilmente, non riuscendo a vivere con lei come fratello e sorella. In questo caso, la scelta di accostarsi alla nuova moglie è un atto perfettamente libero e consapevole, e quanto detto dal § 1735 del Catechismo della Chiesa Cattolica non si può applicare nel modo più assoluto.
Lo stesso Catechismo insegna infatti, al § 1754:
“Le circostanze, in sé, non possono modificare la qualità morale degli atti stessi; non possono rendere né buona né giusta un’azione intrinsecamente cattiva”.
E Giovanni Paolo II, nell’enciclica “Veritatis splendor”, al § 115, affermava:
“È la prima volta, infatti, che il Magistero della Chiesa espone con una certa ampiezza gli elementi fondamentali di tale dottrina, e presenta le ragioni del discernimento pastorale necessario in situazioni pratiche e culturali complesse e talvolta critiche.
“Alla luce della Rivelazione e dell’insegnamento costante della Chiesa e specialmente del Concilio Vaticano II, ho brevemente richiamato i tratti essenziali della libertà, i valori fondamentali connessi con la dignità della persona e con la verità dei suoi atti, così da poter riconoscere, nell’obbedienza alla legge morale, una grazia e un segno della nostra adozione nel Figlio unico (cf. Ef 1,4-6). In particolare, con questa Enciclica, vengono proposte valutazioni su alcune tendenze attuali nella teologia morale. Le comunico ora, in obbedienza alla parola del Signore che a Pietro ha affidato l’incarico di confermare i suoi fratelli (cf. Lc 22,32), per illuminare e aiutare il nostro comune discernimento.
“Ciascuno di noi conosce l’importanza della dottrina che rappresenta il nucleo dell’insegnamento di questa Enciclica e che oggi viene richiamata con l’autorità del successore di Pietro. Ciascuno di noi può avvertire la gravità di quanto è in causa, non solo per le singole persone ma anche per l’intera società, con la riaffermazione dell’universalità e della immutabilità dei comandamenti morali, e in particolare di quelli che proibiscono sempre e senza eccezioni gli atti intrinsecamente cattivi”.

Conclusioni del § B.

Le parole di San Giovanni Paolo II sono inequivocabili: con l’autorità del successore di Pietro vengono riaffermate l’universalità e l’ immutabilità dei comandamenti morali, e in particolare di quelli che proibiscono sempre e senza eccezioni gli atti intrinsecamente cattivi. Inoltre viene confutata la artificiosa e falsa separazione di chi pretende di lasciare inalterata la dottrina immutabile, ma poi di conciliare l’inconciliabile, ovvero di comportarsi pastoralmente in modo non consequenziale con la dottrina stessa.
Infatti lo stesso santo Pontefice non ha scritto l’enciclica come un’esercitazione speculativa fuori dal mondo, ma ha voluto offrire le ragioni del discernimento pastorale necessario in situazioni pratiche e culturali complesse e talvolta critiche.
Certamente un divorziato risposato, come quello descritto nell’esempio precedente (caso assolutamente non raro), va amato, seguito, accompagnato verso la conversione completa e solo allora potrà ricevere la SS. Eucaristia. Questa conversione va annunciata come realmente possibile con l’aiuto della grazia, con la pazienza e la misericordia di Dio, senza contravvenire a una verità indiscutibile della nostra fede, per cui non si può fare la S. Comunione in stato di peccato mortale.

C. – Un argomento non “ad rem”

“… casi irreversibili e legati ad obblighi morali verso i figli che verrebbero a subire sofferenze ingiuste”.
L’ammissione ai Sacramenti non ha niente a che vedere con le situazioni irreversibili, in cui non è più possibile ricostituire il primo e vero matrimonio.
In queste situazioni, il principale obbligo morale che i divorziati risposati hanno nei confronti dei figli è quello di vivere in grazia di Dio, per poterli meglio educare; l’ammetterli o non ammetterli ai sacramenti non c’entra niente con gli obblighi nei confronti della prole. A meno che non si voglia negare che invece la Chiesa “con ferma fiducia crede anche quanti si sono allontanati dal comandamento del Signore ed in tale stato tuttora vivono, potranno ottenere da Dio la grazia della conversione e della salvezza, se avranno perseverato nella preghiera, nella penitenza e nella carità” (Familiaris consortio, 84).

[…]

3 – “INSTRUMENTUM LABORIS” E ATTENZIONE VERSO LE PERSONE CON TENDENZA OMOSESSUALE: LACUNE E SILENZI

L’attenzione pastorale verso le persone con tendenza omosessuale non è certo una novità nel magistero della Chiesa. L’“Instrumentum laboris”, rispetto alla “Relatio finalis” del 2014, rintuzza la lacuna più grave di quest’ultimo documento, ponendo più attenzione alle famiglie comprendenti persone omosessuali (famiglie quasi completamente dimenticate nella “Relatio”). Una pur giusta raccomandazione di evitare discriminazioni ingiuste alle persone con tendenza omosessuale, accennando appena alle loro famiglie, è quasi un “off-topic”, in un sinodo sulla famiglia.
Nella redazione dell’“Instrumentum laboris”, da un lato è stato aggiunto un paragrafo (il § 131) che raccomanda attenzione a questi nuclei familiari, tuttavia non c’è traccia di importanti e fondamentali indicazioni ribadite dal Magistero ordinario in materia.
Riteniamo che in un sinodo sulla famiglia, affrontare la problematica della omosessualità limitandosi a dire che non bisogna trattare male gli omosessuali e non lasciare sole le loro famiglie, sia un peccato di omissione.
Ecco il testo in questione:

“L’attenzione pastorale verso le persone con tendenza omosessuale

“130. (55) Alcune famiglie vivono l’esperienza di avere al loro interno persone con orientamento omosessuale. Al riguardo ci si è interrogati su quale attenzione pastorale sia opportuna di fronte a questa situazione riferendosi a quanto insegna la Chiesa: «Non esiste fondamento alcuno per assimilare o stabilire analogie, neppure remote, tra le unioni omosessuali e il disegno di Dio sul matrimonio e la famiglia». Nondimeno, gli uomini e le donne con tendenze omosessuali devono essere accolti con rispetto e delicatezza. «A loro riguardo si eviterà ogni marchio di ingiusta discriminazione» (Congregazione per la Dottrina della Fede, Considerazioni circa i progetti di riconoscimento legale delle unioni tra persone omosessuali, 4).
“131. Si ribadisce che ogni persona, indipendentemente dalla propria tendenza sessuale, va rispettata nella sua dignità e accolta con sensibilità e delicatezza, sia nella Chiesa che nella società. Sarebbe auspicabile che i progetti pastorali diocesani riservassero una specifica attenzione all’accompagnamento delle famiglie in cui vivono persone con tendenza omosessuale e di queste stesse persone.
“132. (56) È del tutto inaccettabile che i Pastori della Chiesa subiscano delle pressioni in questa materia e che gli organismi internazionali condizionino gli aiuti finanziari ai Paesi poveri all’introduzione di leggi che istituiscano il “matrimonio” fra persone dello stesso sesso”.
Ci sembra che al suddetto testo si possano fare le osservazioni che riportiamo di seguito.

Lacune e silenzi

Visto che siamo santamente esortati a metterci nella “condizione di ospedale da campo che tanto giova all’annuncio della misericordia di Dio”, è opportuno ricordare che, in ogni ospedale che si rispetti, i medici fanno il loro dovere quando: 1) diagnosticano la malattia, 2) somministrano la cura, 3) seguono il paziente fino alla guarigione; inoltre la Chiesa, “conoscendo le insidie d’una pestilenza”, mentre “si consacra alla guarigione di coloro che ne sono colpiti”, “cerca di guardare sé e gli altri da tale infezione”.
Ridurre (o tacere di tutto il resto) l’opera della Chiesa ad accogliere le persone con tendenze omosessuali con “rispetto e delicatezza” può essere assimilato tutt’al più – sempre seguendo la metafora dell’ospedale da campo – a una cura palliativa.
Inoltre ricordare solo il dovere di evitare ogni marchio di ingiusta discriminazione, senza dire altro, può sembrare un accodarsi alla propaganda contro la cosiddetta omofobia, che sappiano bene essere un grimaldello per introdurre nelle legislazioni norme esiziali, e nella coscienze l’accettazione della teoria del “gender”.
La Congregazione per la Dottrina della Fede faceva saggiamente osservare, nel 1986, che “una delle tattiche usate è quella di affermare, con toni di protesta, che qualsiasi critica o riserva nei confronti delle persone omosessuali, delle loro attività e del loro stile di vita, è semplicemente una forma di ingiusta discriminazione”.
Quando si parla di ingiusta discriminazione della persone omosessuali è dunque opportuno anche spiegare con chiarezza che cosa sia veramente ingiusta discriminazione e che cosa sia invece la doverosa denuncia del male.
Sempre la stessa Congregazione ribadiva che “ogni allontanamento dall’insegnamento della Chiesa, o il silenzio su di esso, nella preoccupazione di offrire una cura pastorale, non è forma né di autentica attenzione né di valida pastorale. Solo ciò che è vero può ultimamente essere anche pastorale”.

1 - Riteniamo che si debba con chiarezza diagnosticare la malattia, come per esempio ha fatto la Congregazione per la Dottrina della Fede, nel 2003; vediamo come la questione dell’ingiusta discriminazione è trattata in un contesto assai chiaro:
“Gli atti omosessuali, infatti, «precludono all’atto sessuale il dono della vita. Non sono il frutto di una vera complementarità affettiva e sessuale. In nessun modo possono essere approvati» (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2357).
“Nella Sacra Scrittura le relazioni omosessuali «sono condannate come gravi depravazioni... (cf. Rm 1, 24-27; 1 Cor 6, 10; 1 Tm 1, 10). Questo giudizio della Scrittura non permette di concludere che tutti coloro, i quali soffrono di questa anomalia, ne siano personalmente responsabili, ma esso attesta che gli atti di omosessualità sono intrinsecamente disordinati» (Congregazione per la Dottrina della Fede, Dichiarazione ‘Persona humana’, 29 dicembre 1975, n. 8).
“Lo stesso giudizio morale si ritrova in molti scrittori ecclesiastici dei primi secoli (Cf. per esempio S. Policarpo, Lettera ai Filippesi, V, 3; S. Giustino, Prima Apologia, 27, 1-4; Atenagora, Supplica per i cristiani, 34) ed è stato unanimemente accettato dalla Tradizione cattolica.
“Secondo l’insegnamento della Chiesa, nondimeno, gli uomini e le donne con tendenze omosessuali «devono essere accolti con rispetto, compassione, delicatezza. A loro riguardo si eviterà ogni marchio di ingiusta discriminazione» (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2358; cf. Congregazione per la Dottrina della Fede, Lettera sulla cura pastorale delle persone omosessuali, 1º ottobre 1986, n. 10). Tali persone inoltre sono chiamate come gli altri cristiani a vivere la castità (Cf. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2359; Congregazione per la Dottrina della Fede, Lettera sulla cura pastorale delle persone omosessuali, 1º ottobre 1986, n. 12). Ma l’inclinazione omosessuale è «oggettivamente disordinata» (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2358) e le pratiche omosessuali «sono peccati gravemente contrari alla castità» (Ibid., n. 2396)”.
Inoltre deve essere ammessa la possibilità del peccato da parte di persone con tendenze omosessuali, non escludendo la confessione come aiuto soprannaturale talvolta necessario:
“Dev’essere comunque evitata la presunzione infondata e umiliante che il comportamento omosessuale delle persone omosessuali sia sempre e totalmente soggetto a coazione e pertanto senza colpa. In realtà anche nelle persone con tendenza omosessuale dev’essere riconosciuta quella libertà fondamentale che caratterizza la persona umana e le conferisce la sua particolare dignità. Come in ogni conversione dal male, grazie a questa libertà, lo sforzo umano, illuminato e sostenuto dalla grazia di Dio, potrà consentire ad esse di evitare l’attività omosessuale”.
L’amore si mostra anche svelando prospettive di falsa felicità:
“Come accade per ogni altro disordine morale, l’attività omosessuale impedisce la propria realizzazione e felicità perché è contraria alla sapienza creatrice di Dio. Quando respinge le dottrine erronee riguardanti l’omosessualità, la Chiesa non limita ma piuttosto difende la libertà e la dignità della persona, intese in modo realistico e autentico”.

2 - In secondo luogo è necessario prescrivere la cura:

a) prevenendo le infezioni dello spirito del mondo…
“… Coloro che si trovano in questa condizione dovrebbero essere oggetto di una particolare sollecitudine pastorale perché non siano portati a credere che l’attuazione di tale tendenza nelle relazioni omosessuali sia un’opzione moralmente accettabile”.
“[La Chiesa] si preoccupa sinceramente anche dei molti che non si sentono rappresentati dai movimenti pro-omosessuali, e di quelli che potrebbero essere tentati di credere alla loro ingannevole propaganda”.
b) … facendo ricorso anche alle scienze umane: la cura prescritta non deve essere solo di carattere morale: come la Chiesa, per favorire il retto uso del matrimonio, promuove la costituzione di consultori dove si insegnano i metodi naturali, così è opportuno che la Chiesa favorisca tutte quella forme di supporto psicologico, che in questi anni sono state fornite, con incoraggianti successi:
“In particolare i Vescovi si premureranno di sostenere con i mezzi a loro disposizione lo sviluppo di forme specializzate di cura pastorale per persone omosessuali. Ciò potrebbe includere la collaborazione delle scienze psicologiche, sociologiche e mediche, sempre mantenendosi in piena fedeltà alla dottrina della Chiesa”.
c) … e infondendo speranza: bisogna accompagnare le persone con orientamento omosessuale in un itinerario anche culturale, inteso a smascherare tutte le teorie omosessualiste (quali la teoria del “gender”) e slogan tipo “si nasce omosessuali”; questo slogan assopisce la coscienza di chi vuole restare così, e sopprime la speranza di chi vorrebbe uscirne.

3 - In terzo luogo bisogna seguire il paziente fino alla guarigione, che è la vita di grazia e la santità stessa; qualunque cosa, prescindendo dalla fede, viene chiamata disagio, è – per il credente – occasione provvidenziale di santificazione: “Diligentibus Deum, omnia cooperantur in bonum” (Rm 8, 28). Anche per questo aspetto, non troviamo parole migliori di quelle della Congregazione per la Dottrina della Fede:
“Che cosa deve fare dunque una persona omosessuale, che cerca di seguire il Signore? Sostanzialmente, queste persone sono chiamate a realizzare la volontà di Dio nella loro vita, unendo ogni sofferenza e difficoltà che possano sperimentare a motivo della loro condizione, al sacrificio della croce del Signore. Per il credente, la croce è un sacrificio fruttuoso, poiché da quella morte provengono la vita e la redenzione. Anche se ogni invito a portare la croce o a intendere in tal modo la sofferenza del cristiano sarà prevedibilmente deriso da qualcuno, si dovrebbe ricordare che questa è la via della salvezza per tutti coloro che sono seguaci di Cristo.
“In realtà questo non è altro che l’insegnamento rivolto dall’apostolo Paolo ai Galati, quando egli dice che lo Spirito produce nella vita del fedele: «amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza e dominio di sé» e più oltre: «Non potete appartenere a Cristo senza crocifiggere la carne con le sue passioni e i suoi desideri» (Gal 5, 22. 24).
“Tuttavia facilmente questo invito viene male interpretato, se è considerato solo come un inutile sforzo di auto-rinnegamento. La croce è sì un rinnegamento di sé, ma nell’abbandono alla volontà di quel Dio che dalla morte trae fuori la vita e abilita coloro, che pongono in Lui la loro fiducia, a praticare la virtù invece del vizio.
“Si celebra veramente il Mistero Pasquale solo se si lascia che esso permei il tessuto della vita quotidiana. Rifiutare il sacrificio della propria volontà nell’obbedienza alla volontà del Signore è di fatto porre ostacolo alla salvezza. Proprio come la croce è il centro della manifestazione dell’amore redentivo di Dio per noi in Gesù, così la conformità dell’auto-rinnegamento di uomini e donne omosessuali con il sacrificio del Signore costituirà per loro una fonte di auto-donazione che li salverà da una forma di vita che minaccia continuamente di distruggerli.
“Le persone omosessuali sono chiamate come gli altri cristiani a vivere la castità. Se si dedicano con assiduità a comprendere la natura della chiamata personale di Dio nei loro confronti, esse saranno in grado di celebrare più fedelmente il sacramento della Penitenza, e di ricevere la grazia del Signore, in esso così generosamente offerta, per potersi convertire più pienamente alla sua sequela”.

4 - Infine cercare di guardare sé e gli altri da tale infezione:

“La coscienza morale esige di essere, in ogni occasione, testimone della verità morale integrale, alla quale si oppongono sia l’approvazione delle relazioni omosessuali sia l’ingiusta discriminazione nei confronti delle persone omosessuali. Sono perciò utili interventi discreti e prudenti, il contenuto dei quali potrebbe essere, per esempio, il seguente: smascherare l’uso strumentale o ideologico che si può fare di questa tolleranza; affermare chiaramente il carattere immorale di questo tipo di unione, richiamare lo Stato alla necessità di contenere il fenomeno entro limiti che non mettano in pericolo il tessuto della moralità pubblica e, soprattutto, che non espongano le giovani generazioni ad una concezione erronea della sessualità e del matrimonio, che le priverebbe delle necessarie difese e contribuirebbe, inoltre, al dilagare del fenomeno stesso”.

Conclusioni

Il richiamo del tema dell’aiuto alle famiglie con figli con tendenza omosessuale offre occasione di interrogarsi sul perché di questa menzione a discapito di altri disagi ben più diffusi che le famiglie vivono; inoltre la tematica è posta in modo da scivolare da problema della famiglia a problema delle persone omosessuali tout-court, “off-topic” rispetto all’oggetto proprio del sinodo.
Inoltre, il paragrafo in questione, pur dovendosi quantitativamente mantenere nello spazio di poche righe, omette il richiamo delle vere problematiche legate alla pastorale delle persone omosessuali; questo silenzio è tanto più colpevole quanto spaventosa è oggi l’avanzata dell’ideologia del “gender”.
[…]
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Il documento base del sinodo, oggetto delle “Osservazioni”:


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