Qualche giorno fa riportavamo un aforisma
di S. Alfonso. Ora ne riproduciamo per intero il testo da cui era tratto:
Si ha nella parabola della zizania in S.
Matteo (cap. 13) che essendo cresciuta in un campo la zizania insieme col
grano, volevano i servi andare ad estirparla: “Vis, imus, et colligimus ea?”
Ma il padrone rispose: No, lasciatela crescere, e poi si raccoglierà e si
manderà al fuoco: “In tempore messis dicam messoribus, colligite primum
zizania, et alligate ea in fasciculos ad comburendum”. Da questa parabola
si ricava per una parte la pazienza che il Signore usa co’ peccatori; e per l’altra
il rigore che usa cogli ostinati. Dice S. Agostino che in due modi il demonio
inganna gli uomini: “Desperando, et sperando”. Dopo che il peccatore ha
peccato, lo tenta a disperarsi col terrore della divina giustizia; ma prima di
peccare, l’anima al peccato colla speranza della divina misericordia. Perciò il
santo avverte ad ognuno: “Post peccatum spera misericordiam; ante peccatum
pertimesce iustitiam”. Sì, perché non merita misericordia chi si serve
della misericordia di Dio per offenderlo. La misericordia si usa con chi teme
Dio, non con chi si avvale di quella per non temerlo. Chi offende la giustizia,
dice l’Abulense, può ricorrere alla misericordia, ma chi offende la stessa
misericordia, a chi ricorrerà?
Difficilmente si trova peccatore sì
disperato, che voglia proprio dannarsi. I peccatori vogliono peccare, senza
perdere la speranza di salvarsi. Peccano e dicono: Dio è di misericordia; farò
questo peccato, e poi me lo confesserò. “Bonus est Deus, faciam quod mihi
placet”, ecco come parlano i peccatori, scrive S. Agostino (Tract. 33.
in Io.). Ma oh Dio così ancora dicevano tanti, che ora sono già dannati.
Non dire, dice il Signore: Sono grandi le
misericordie che usa Dio; per quanti peccati farò, con un atto di dolore sarò
perdonato. “Et ne dicas: miseratio Domini magna est, multitudinis peccatorum
meorum miserebitur” (Eccli. 5. 6). Nol dire, dice Dio; e perché? “Misericordia
enim, et ira ab illo cito proximant, et in peccatores respicit ira illius”
(Ibid.). La misericordia di Dio è infinita, ma gli atti di questa
misericordia (che sono le miserazioni) sono finiti. Dio è misericordioso ma è
anche giusto. “Ego sum iustus, et misericors”, disse il Signore un
giorno a S. Brigida; “peccatores tantum misericordem me existimant”. I
peccatori, scrive S. Basilio, vogliono considerare Dio solo per metà: “Bonus
est Dominus, sed etiam iustus; nolite Deum ex dimidia parte cogitare”. Il
sopportare chi si serve della misericordia di Dio per più offenderlo, diceva il
P.M. Avila che non sarebbe misericordia, ma mancamento di giustizia. La misericordia
sta promessa a chi teme Dio, non già a chi se ne abusa. “Et misericordia
eius timentibus eum”, come cantò la divina Madre. Agli ostinati sta
minacciata la giustizia; e siccome (dice S. Agostino) Dio non mentisce nelle
promesse; così non mentisce ancora nelle minacce: “Qui verus est in
promittendo, verus est in minando”.
Guardati, dice S. Gio. Grisostomo, quando
il demonio (ma non Dio) ti promette la divina misericordia, affinché pecchi; “Cave
ne unquam canem illum suscipias, qui misericordiam Dei pollicetur” (Hom.
50. ad Pop. Antioch.). Guai, soggiunge S. Agostino, a chi spera per
peccare: “Sperat, ut peccet; vae a perversa spe” (In Ps. 144). Oh quanti
ne ha ingannati e fatti perdere, dice il santo, questa vana speranza. “Dinumerari
non possunt, quantos haec inanis spei umbra deceperit”. Povero chi s’abusa
della pietà di Dio, per più oltraggiarlo!
Dice S. Bernardo che Lucifero perciò fu
così presto castigato da Dio, perché si ribellò sperando di non riceverne
castigo. Il re Manasse fu peccatore, poi si convertì, e Dio lo perdonò; Ammone
suo figlio, vedendo il padre così facilmente perdonato, si diede alla mala vita
colla speranza del perdono; ma per Ammone non vi fu misericordia. Perciò ancora
dice S. Gio. Grisostomo che Giuda si perdé, perché peccò fidato alla benignità
di Gesu-Cristo: “Fidit in lenitate magistri”. In somma Dio, se sopporta,
non sopporta sempre. Se fosse che Dio sempre sopportasse, niuno si dannerebbe;
ma la sentenza più comune è che la maggior parte anche de’ cristiani (parlando degli
adulti) si danna: “Lata porta et spatiosa via est, quae ducit ad
perditionem, et multi intrant per eam” (Matth. 7. 13).
Chi offende Dio colla speranza del
perdono, “irrisor est non poenitens”, dice S. Agostino. Ma all’incontro
dice S. Paolo che Dio non si fa burlare: “Deus non irridetur” (Galat. 6.
7). Sarebbe un burlare Dio seguire ad offenderlo, sempre che si vuole, e poi
andare al paradiso. “Quae enim seminaverit homo, haec et metet” (Ibid.
8). Chi semina peccati, non ha ragione di sperare altro che castigo ed inferno.
La rete con cui il demonio strascina all’inferno quasi tutti quei cristiani che
si dannano, è quest’inganno, col quale loro dice: Peccate liberamente, perché
con tutt’i peccati vi salverete. Ma Dio maledice chi pecca colla speranza del
perdono. “Maledictus homo qui peccat in spe”. La speranza del peccatore
dopo il peccato, quando vi è pentimento, è cara a Dio, ma la speranza degli
ostinati è l’abbominio di Dio: “Et spes illorum abominatio” (Iob. 11.
20). Una tale speranza irrita Dio a castigare, siccome irriterebbe il padrone
quel servo che l’offendesse, perché il padrone è buono. (cfr. op. cit., Considerazione
XVII – Abuso della divina misericordia, Punto I).
Fonte: S. Alfonso M. de’ Liguori, Apparecchio alla Morte cioè Considerazioni sulle Massime Eterne Utili a tutti per meditare,
ed a’ sacerdoti per predicare, in “OPERE ASCETICHE” Vol. IX, CSSR, Roma
1965
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