Riproponiamo quest’interessante
contributo, pubblicato nel 2010 su Chiesa e postconcilio.
La liturgia
tradizionale – che noi seguiamo - celebra Cristo Re dell’Universo l’ultima
domenica di ottobre, per rimarcare – secondo le intenzioni di papa Pio XI, che la
istituì – la regalità sociale del Divin Redentore, Re dei re e Signore dei signori.
La liturgia riformata attuale ha, invece, confinato la festa all’ultima
domenica dell’anno liturgico, attribuendole una valenza esclusivamente
escatologica. Significativo è peraltro notare che nella liturgia delle ore
riformate, compaia curiosamente nelle ore minori – a sottolineare il carattere
solo escatologico della festa – l’inno del Dies Irae (scomparso dalla
liturgia esequiale), sebbene frammentato. Con quest’operazione, da un lato, si
è eliminato nella celebrazione dei defunti il richiamo ai Novissimi; dall’altro,
nella festa di Cristo Re se n’è sottolineato il carattere meramente escatologico,
privandolo del suo carattere anche sociale, come rimedio all’ateismo ed alla
peste del laicismo.
Per cui, in quest’ottica
può essere utile ribadire che le origini della festa di Cristo Re non sono
quelle che la liturgia attuale vorrebbe imporre ai cattolici, in nome della “laicità”.
L’intento di papa Ratti era ben altro! Era quello di additare ai popoli ed alle
Nazioni la regalità di Cristo quale unico rimedio ai mali della modernità. Del
resto, gli effetti del rifiuto di questa regalità sono ben evidenti sotto gli
occhi di chiunque. Solo tornando a Cristo e riconoscendo, pure pubblicamente,
quella regalità si potrà rimediare al disastro che incombe.
A questo riguardo
possono tornare utili le parole di un grande e santo pontefice, san Pio X, che,
nel 1910, contro gli errori del Sillon (il Solco) fondato in Francia nel
1902 – sulla scia di una precedente associazione, la Crypte, nata nel 1894 – da Marc Sangnier. Si trattava di un movimento
analogo alla Democrazia Cristiana (che, originariamente, si chiamava Lega
Democratica Nazionale) del sacerdote marchigiano apostata, modernista
e scomunicato don Romolo Murri, che fu, peraltro, amico e collaboratore di don
Luigi Sturzo. In questa Lettera Apostolica il Santo Pontefice ribadì la dottrina
cattolica secondo la quale la società umana non può sostenersi se non si pone a
sua base Dio e la Chiesa. Ricordava quel papa, inoltre, che
non si tratterebbe di inventare qualcosa di nuovo e di mai esistito, giacché la
società cristiana è esistita storicamente: «Non, Vénérables Frères - il faut
rappeler énergiquement dans ces temps d’anarchie sociale et intellectuelle, où
chacun se pose en docteur et législateur - on ne bâtira pas la cité autrement
que Dieu ne l’a bâtie; on n’édifiera pas la société, si l’Église n’en jette les
bases et ne dirige les travaux; non, la civilisation n’est plus à inventer ni
la cité nouvelle à bâtir dans les nuées. Elle a été, elle est; c’est la
civilisation chrétienne, c’est la cité catholique. Il ne s’agit que de l’instaurer
et la restaurer sans cesse sur ses fondements naturels et divins contre les
attaques toujours renaissantes de l’utopie malsaine, de la révolte et de l’impiété:
omnia instaurare in Christo» (S.
Pio X, Lett. Ap. Notre charge apostolique agli Arcivescovi e ai
Vescovi francesi sulla concezione secolarizzata della democrazia, 25 agosto
1910, § 11).
Ecco la ricetta
proposta da sempre: omnia instaurare in Christo, che era il motto anche
del grande papa Sarto.
Solo restaurando, in
Cristo, anche la res publica, potrà aversi la pace all’interno ed all’esterno
delle Nazioni. Diversamente, il Redentore, che non può essere detronizzato,
regnerà mediante la sua giustizia, abbandonando i popoli alle loro depravazioni
ed ai loro istinti animaleschi. Del resto, anche la Vergine a Fatima l’aveva
sottolineato nell’apparizione del 13 luglio 1917, dopo aver mostrato ai Tre
Pastorelli l’Inferno, preannunciando, all’epoca, lo scoppio della Seconda
Guerra Mondiale: «Se gli uomini non cesseranno di offendere Dio, scoppierà un’altra
e più terribile guerra durante il Pontificato di Pio XI. Quando vedrete una
notte illuminata da una luce sconosciuta, sappiate che e il grande segnale che
Dio vi dà del fatto che si appresta a punire il mondo per i suoi delitti, per
mezzo della guerra, della fame e di persecuzioni alla Chiesa e al santo Padre».
Cosa direbbe oggi???
L’uomo dovrebbe imparare
dagli errori del passato.
I giudei, dinanzi a
Pilato, allorché questi pose dinanzi a loro Gesù o Barabba, preferirono il
secondo, esclamando il drammatico Nolumus hunc regnare super nos (Luc.
XIX, 14) e scacciando il loro Re al di fuori della Città Santa. Gli preferirono
sciaguratamente Cesare: Non habemus Regem nisi Caesarem. Crucifige,
crucifige eum! E cosa fece Cesare? Non passò quella generazione che Cesare
distrusse Gerusalemme, il Tempio, sterminò molti giudei e disperse gli altri
per il mondo, con la Diaspora. Ecco dunque gli effetti nefasti del rifiuto di
quella regalità!
Cosa c'è da sapere su Cristo Universorum Rex
Nell’Ordinamento Liturgico riformato oggi si celebra Cristo Re.
Riproponiamo un testo da rivisitare per i lettori abituali e da meditare per i nuovi per meglio comprendere ciò che sta avvenendo della Tradizione, ma soprattutto della Regalità di Nostro Signore, universorum Rex = Re di tutti e di tutte le cose. E non soltanto genericamente Re dell’universo, come l’ha declassato la Festa di Cristo Re del NO, che indebolisce la dimensione storica, immanente del Regno...
Può essere interessante riprendere anche questo testo, ponendo attenzione all’Inno Te sæculórum Príncipem, e all’indicazione delle strofe inopinatamente soppresse (nel Mattutino e nelle Lodi) e quindi non più né pregate né meditate sui nuovi breviari... Poi dicono che non è cambiato nulla!
Riproponiamo un testo da rivisitare per i lettori abituali e da meditare per i nuovi per meglio comprendere ciò che sta avvenendo della Tradizione, ma soprattutto della Regalità di Nostro Signore, universorum Rex = Re di tutti e di tutte le cose. E non soltanto genericamente Re dell’universo, come l’ha declassato la Festa di Cristo Re del NO, che indebolisce la dimensione storica, immanente del Regno...
Può essere interessante riprendere anche questo testo, ponendo attenzione all’Inno Te sæculórum Príncipem, e all’indicazione delle strofe inopinatamente soppresse (nel Mattutino e nelle Lodi) e quindi non più né pregate né meditate sui nuovi breviari... Poi dicono che non è cambiato nulla!
La festa di Cristo
Re nella storia,
nella liturgia, nella teologia
di Daniele Di Sorco
1. Uno spostamento
apparentemente irrilevante.
Col motu proprio Summorum
Pontificum il Papa Benedetto XVI ha definitivamente
chiarito che il Messale romano tradizionale, detto di S. Pio V, non è mai stato
abolito e che pertanto qualunque sacerdote può utilizzarlo nella sua integralità.
La Pontificia Commissione Ecclesia Dei, in una risposta del 20
ottobre 2008, ha ribadito che “l’uso legittimo dei libri liturgici in vigore
nel 1962 comprende il diritto di usare il calendario proprio dei medesimi libri
liturgici”. Com’è noto, nel calendario universale del rito romano antico la
festa di Cristo Re è assegnata all’ultima domenica di ottobre, mentre il
Messale romano riformato, approvato da Paolo VI nel 1969, la colloca all’ultima
domenica dell’anno liturgico.
Non mancano coloro
che, in nome di una maggiore uniformità tra le “due forme dell’unico rito
romano”, insistono per una revisione del calendario che garantisca per lo meno
la coincidenza delle feste maggiori (revisione che de facto è stata già
compiuta per il rito ambrosiano antico, non però de iure, visto che le norme
del diritto richiedono per qualunque modifica liturgica, anche relativa a riti
diversi dal romano, l’espressa approvazione della Santa Sede). I più, tuttavia,
considerano questo spostamento della festa di Cristo Re come irrilevante: dopo
tutto, la ricorrenza è rimasta, anche se leggermente modificata nel titolo (non
più “Cristo Re” simpliciter, ma “Cristo Re dell’universo”), e il
fatto che sia assegnata ad una data piuttosto che ad un’altra non ne altera la
sostanza. Alcuni, sebbene legati al rito antico, giungono a preferire la scelta
del nuovo calendario: la festa della regalità di Cristo, infatti, costituisce
il perfetto coronamento dell’anno liturgico, mentre non si vede il motivo di
collocarla in una posizione apparentemente priva di significato come la fine
del mese di ottobre.
Di fronte a tanta
variabilità di opinioni, cercheremo, in questo articolo, di ricostruire la
genesi storica della festa di Cristo Re, di delinearne - per quanto ci è
possibile, in qualità di non specialisti - la portata teologica, e infine di
dimostrare perché, a nostro avviso, lo spostamento in questione è tutt’altro
che irrilevante.
2. Istituzione della
festa.
La festa di Cristo Re
fu istituita da Pio XI l’11 dicembre 1925 mediante l’enciclica Quas primas. Si trattava di una festa del tutto nuova,
priva - al contrario di altre feste, per esempio quella del Sacro Cuore - di
precedenti nei calendari locali o religiosi. D’altronde, se nuova era la festa,
non nuova era l’idea della regalità attribuita alla figura di Cristo, che non
soltanto la Scrittura, i Padri e i teologi, ma anche l’arte sacra e il senso
comune dei fedeli concordemente affermano. Perché il Papa abbia avvertito il
bisogno di istituire una ricorrenza specifica dedicata a questo mistero,
risulta chiaro dal testo della stessa enciclica: “Se comandiamo che Cristo Re
venga venerato da tutti i cattolici del mondo, con ciò Noi provvederemo alle
necessità dei tempi presenti, apportando un rimedio efficacissimo a quella
peste che pervade l’umana società”.
Quale peste? Quella -
risponde il Papa nel paragrafo successivo - del laicismo: “La peste della età
nostra è il così detto laicismo coi suoi errori e i suoi empi incentivi; e voi
sapete, o Venerabili Fratelli, che tale empietà non maturò in un solo giorno ma
da gran tempo covava nelle viscere della società. Infatti si cominciò a negare
l’impero di Cristo su tutte le genti; si negò alla Chiesa il diritto — che
scaturisce dal diritto di Gesù Cristo — di ammaestrare, cioè, le genti, di far
leggi, di governare i popoli per condurli alla eterna felicità. E a poco a poco
la religione cristiana fu uguagliata con altre religioni false e indecorosamente
abbassata al livello di queste; quindi la si sottomise al potere civile e fu
lasciata quasi all’arbitrio dei principi e dei magistrati. Si andò più innanzi
ancora: vi furono di quelli che pensarono di sostituire alla religione di
Cristo un certo sentimento religioso naturale. Né mancarono Stati i quali
opinarono di poter fare a meno di Dio, riposero la loro religione nell’irreligione
e nel disprezzo di Dio stesso”.
Quindi, se il fine
generico della festa - nelle intenzioni del Pontefice - era quello di divulgare
nel popolo cristiano “la cognizione della regale dignità di nostro Signore”
(regalità in senso lato), il fine specifico era quello di porre l’accento proprio
su quella specificazione della regalità che il laicismo nega, vale a dire la
regalità sociale. Che sia questo l’autentica ratio della festa, emerge non
soltanto dal contenuto dell’enciclica, ma anche da una semplice constatazione
di carattere liturgico: tutte le feste, infatti, celebrano - direttamente o
indirettamente - la regalità, genericamente intesa, di nostro Signore; ma non
esisteva, fino al 1925, alcuna ricorrenza espressamente dedicata al suo regno
sulle società di questo mondo.
Tale conclusione è
confermata dall’indole dei testi liturgici della festa, promulgati dalla S.
Congregazione dei Riti il 12 dicembre dello stesso anno.
Nel Breviario, l’inno
dei Vespri afferma: “Te nationum praesides / Honore tollant publico, /
Colant magistri, iudices, / Leges et artes exprimant. // Submissa regum
fulgeant / Tibi dicata insignia: / Mitique sceptro patriam / Domosque subde
civium” (traduzione nostra: “Te i governanti delle nazioni esaltino con
pubblici onori, te onorino i maestri, i giudici, te esprimano le leggi e le
arti. Risplendano, a te dedicate e sottomesse, le insegne dei re: sottometti al
tuo mite scettro la patria e le dimore dei cittadini”).
Nell’inno del
Mattutino si legge: “Cui iure sceptrum gentium / Pater supremum credidit”
(“A te [Redentore] il Padre ha consegnato, per diritto, lo scettro dei popoli”).
E ancora: “Iesu, tibi sit gloria, qui sceptra mundi temperas” (“A te, o Gesù,
sia gloria, che regoli gli scettri [= le autorità] del mondo”).
Stessi concetti
ribaditi dall’inno delle Lodi: “O ter beata civitas / Cui rite Christus
imperat, / Quae iussa pergit exsequi / Edicta mundo caelitus!” (“O tre
volte beata la società, cui Cristo legittimamente comanda, che esegue gli
ordini che il cielo ha impartito al mondo!”).
Così pure nell’orazione,
dove Cristo viene definito “universorum Rege” (non Re di un generico e
imprecisato universo, come afferma la nuova liturgia nelle traduzioni volgari,
ma Re di tutti, ossia di tutti gli uomini), si dice che il Padre ha voluto in
lui instaurare ogni cosa (ivi compreso l’ordinamento sociale), e si auspica che
“cunctae familiae gentium” (diremmo, in linguaggio moderno, “ogni
società umana”) si sottomettano al suo soavissimo impero.
Dei testi della
Messa, ci limiteremo a ricordare le letture scritturistiche. Nell’epistola, S.
Paolo insegna l’assoluta e completa dipendenza di ogni cosa, nessuna esclusa, da
Cristo “in omnibus primatum tenens” (Col. 1, 18). Dal vangelo, poi,
apprendiamo che il regno del Signore dev’essere inteso non solo in senso
trascendente (regalità spirituale) ma anche immanente (regalità temporale o
sociale). Quando infatti Pilato pone a Gesù la fondamentale domanda: “Ergo
rex es tu?” si riferisce senza dubbio al concetto di regalità che egli,
come romano e come pagano, possedeva, vale a dire al regno su questo mondo.
3. Regalità
spirituale e regalità temporale.
Né deve trarre in
inganno il fatto che Gesù risponda che il suo regno non è di questo mondo. Si
noti, anzitutto, la scelta dei termini: il regno non è “di questo mondo”, ossia
non è secondo le modalità dei regni terreni, come Gesù stesso precisa nello
stesso passo: “Se il mio regno fosse di questo mondo, le mie guardie avrebbero
combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei: ma il mio regno non è di
questo mondo”, e come la Chiesa ha sempre interpretato. Ma ciò non significa
che che non sia un regno su questo mondo. È ancora Gesù che, poco dopo, lo
specifica: “Tu lo dici: io sono re. Io per questo sono nato e per questo sono
venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è per la verità,
ascolta la mia voce” (Gv. 18, 33-37). La differenza, quindi, sta nel modo, non
nell’oggetto. Gesù dichiara di essere venuto nel mondo per regnare su di esso,
non però al modo dei monarchi terreni, che regnano per autorità delegata,
direttamente e valendosi (in modo legittimo) della forza, ma al modo del
Monarca eterno ed universale, che regna per autorità propria, indirettamente e
pacificamente (“Rex pacificus vocabitur”, come ricorda la prima antifona
dei Vespri, tratta da Isaia). “L’origine di questa regalità è celeste e spirituale,
anche sei poteri regali sono esercitati nel mondo” (S. Garofalo, Commento
al Vangelo di Giovanni, in La Sacra Bibbia tradotta dai testi originali e
commentata, Torino, Marietti, 1960, vol. III, p. 273).
Lo scopo della festa,
vale a dire la celebrazione della regalità sociale di Cristo, ne illumina anche
la collocazione nel calendario. Esistono diversi motivi per cui essa fu
assegnata all’ultima domenica di ottobre. Il primo e più importante è quello
delineato dal Papa nell’enciclica: “Ci sembrò poi più d’ogni altra opportuna a
questa celebrazione l’ultima domenica del mese di ottobre, nella quale si
chiude quasi l’anno liturgico, così infatti avverrà che i misteri della vita di
Gesù Cristo, commemorati nel corso dell’anno, terminino e quasi ricevano
coronamento da questa solennità di Cristo Re, e prima che si celebri e si
esalti la gloria di Colui che trionfa in tutti i Santi e in tutti gli eletti”.
In altre parole, la festa di tutti i Santi, che regnano per partecipazione,
viene fatta precedere dalla festa di Cristo, che regna per diritto proprio. La
ricorrenza della regalità di Cristo, inoltre, costituisce il coronamento di
tutto l’anno liturgico, e pertanto viene posta verso la sua fine. È lecito
domandarsi: perché non proprio alla fine? Probabilmente - è l’unica spiegazione
veramente plausibile - per non confondere la regalità escatologica (di ordine
spirituale), che la liturgia tradizionale ricorda nell’ultima domenica dell’anno
liturgico mediante la pericope evangelica sulla fine del mondo, con la regalità
sociale, che costituiva l’oggetto specifico della nuova festa. Vi è poi un
altra ragione, non esplicitata nell’enciclica, ma ragionevolmente presumibile.
Il mese ottobre era il mese dedicato alle missioni e nella sua penultima
domenica si pregava specialmente per la propagazione della Fede tra i pagani.
Quale modo migliore, per concluderlo, che ricordare il fine ultimo delle
missioni, vale a dire il regno sociale di Cristo su tutti i popoli?
L’intenzione del
Pontefice espressa nell’enciclica, l’indole dei testi liturgici, la
collocazione originaria della festa: tutti questi elementi consentono di
concludere in modo sicuro che la ricorrenza di Cristo Re fu istituita al
preciso scopo di ricordare la regalità sociale di nostro Signore e di
costituire così un efficace antidoto al laicismo dilagante. Occorre, a questo
punto, vedere che cosa si intenda per “regalità sociale di Cristo”. Cercheremo
di farlo senza esorbitare dai limiti di una trattazione che non è e non intende
essere specialistica.
Il fondamento
dogmatico della regalità di Cristo genericamente intesa è l’unione ipostatica, “per
mezzo della quale la natura assunta dagli uomini è unita alla seconda Persona
della SS. Trinità: per tale ragione, dunque, Egli non solo è stato costituito
Mediatore dal primo momento della sua Incarnazione, ma è anche divenuto, per
questo ammirabile avvenimento, Re di tutta la creazione, in ragione della
propria divinità” (P. Radó, Enchiridion liturgicum,
Romae-Friburgi-Barcinone, 1961, vol. II, p. 1309). Lo afferma chiaramente il
Papa nella citata enciclica: “In questo medesimo anno, con la centenaria
ricorrenza del Concilio Niceno, commemorammo la difesa e la definizione del
dogma della consustanzialità del Verbo incarnato col Padre, sulla quale si
fonda l’impero sovrano del medesimo Cristo su tutti i popoli”. L’origine della
regalità di Cristo in quanto uomo - prosegue Pio XI - è duplice: egli infatti è
re non solo per diritto (nativo) di natura, poiché la sua umanità appartiene
alla Persona del Verbo divino, ma anche per diritto (acquisito) di conquista, “in
forza della Redenzione”, cioè per aver riscattato col suo Sangue il genere
umano dal peccato. “Dal che segue che Cristo non solo deve essere adorato come
Dio dagli Angeli e dagli uomini, ma anche che a Lui, come Uomo, debbono essi
esser soggetti ed obbedire: cioè che per il solo fatto dell’unione ipostatica
Cristo ebbe potestà su tutte le creature”.
L’estensione del
Regno del Verbo incarnato è universale, come universali sono la creazione e la
redenzione donde esso promana. Perciò si estende indiscriminatamente a tutte le
cose.
Quanto alla sua
natura, poiché il mondo consta di realtà trascendenti e di realtà immanenti, è
invalso l’uso di distinguere tra regalità spirituale e regalità temporale.
Delle due, è la prima ad avere la preminenza, poiché il temporale è per sua natura
ordinato allo spirituale. Si legge infatti nell’enciclica: “Che poi questo
Regno sia principalmente spirituale e attinente alle cose spirituali, ce lo
dimostrano i passi della sacra Bibbia sopra riferiti, e ce lo conferma Gesù
Cristo stesso col suo modo di agire”. Tuttavia - prosegue il Sommo Pontefice - “sbaglierebbe
gravemente chi togliesse a Cristo Uomo il potere su tutte le cose temporali,
dato che Egli ha ricevuto dal Padre un diritto assoluto su tutte le cose
create, in modo che tutto soggiaccia al suo arbitrio”. Ora, se la regalità temporale
di Cristo, al pari di quella spirituale, si esercita su tutte le cose, essa
riguarda non soltanto l’individuo (regalità individuale), ma anche l’insieme
degli individui, vale a dire la società (regalità sociale). Ne consegue che le
istituzioni sociali hanno nei confronti di Cristo gli stessi doveri dell’individuo
singolarmente considerato: devono riconoscerlo, adorarlo e sottomettersi alla
sua santa Legge. “Né v’è differenza fra gli individui e il consorzio domestico
e civile, poiché gli uomini, uniti in società, non sono meno sotto la potestà
di Cristo di quello che lo siano gli uomini singoli”, precisa l’enciclica.
Sarebbe dunque in errore chi pensasse che l’obbligo morale di aderire alla
divina Rivelazione riguardi soltanto il singolo, mentre la società, nelle sue
istituzioni, potrebbe e dovrebbe limitarsi al solo diritto naturale (o
addirittura ai soli cosiddetti “diritti umani”). Di qui l’esortazione, rivolta
dal Papa ai capi delle nazioni, “di prestare pubblica testimonianza di
riverenza e di obbedienza all’impero di Cristo insieme coi loro popoli”.
4. La “nuova” festa
di Cristo Re dell’universo.
Uno dei capisaldi del
pensiero moderno è la riduzione della religione alla sola dimensione privata,
senza alcuna influenza diretta sulla vita pubblica. Si tratta del “laicismo”
(che oggi molti preferiscono chiamare “laicità”) di cui parla l’enciclica, già
individuato e condannato dai Pontefici precedenti. La festa di Cristo Re -
nelle intenzioni di Pio XI - doveva fungere da rimedio a questa pericolosa
tendenza e ricordare al popolo cristiano che la regalità di Cristo si estende
anche alle realtà temporali. Ci domandiamo: tali concetti emergono con la
stessa chiarezza anche nella versione attuale, riformata nel 1969, della festa?
Procederemo, anche in
questo caso, con l’analisi dei testi liturgici e della collocazione del
calendario.
Nella Liturgia delle
Ore, l’inno dei Vespri è lo stesso (Te saeculorum Principem), ma da esso
sono state soppresse proprio quelle strofe, citate sopra in questo articolo,
che parlano esplicitamente della regalità sociale (“Te nationum praesides...”
e “Submissa regum fulgeant...”). Nella seconda strofa, inoltre, il
riferimento al laicismo (“Scelesta turba clamitat: / Regnare Christum nolumus”
= “La folla empia grida: Non vogliamo che Cristo regni”) è stato rimpiazzato da
una frase generica e indefinita (“Quem prona adorant agmina / hymnisque
laudant cælitum” = “Ti adorano prone le schiere celesti e ti lodano con
inni”).
Completamente diverso
l’inno dell’Ufficio delle Letture (il vecchio Mattutino), privo anch’esso di
qualunque riferimento alla dimensione sociale e temporale del Regno di Cristo.
Le letture tratte dall’enciclica Quas primas, che il Breviario
antico assegnava al secondo Notturno, sono state rimpiazzate da un brano di
Origene, di carattere marcatamente spirituale.
Così pure si
cercherebbe invano un’allusione o un accenno alla necessità che Cristo regni
sulla società civile nel nuovo inno delle Lodi mattutine.
La nuova orazione ricalca
lo schema della vecchia, modificandone però completamente il senso. Non si
domanda più che la società umana, disgregata dalla ferita del peccato, si
sottometta al soavissimo impero di Cristo, ma che ogni creatura, libera dalla
schiavitù del peccato, serva e lodi Dio senza fine. La regalità sociale e
temporale dell’antica formula, resa necessaria dalla disgregazione del peccato,
lascia il posto alla regalità individuale e spirituale della nuova, nella quale
peraltro non vi è alcun accenno esplicito all’impero di Cristo. Inoltre,
sebbene l’originale latino parli ancora di Cristo “universorum Rex”, le
versioni moderne hanno tradotto questa espressione con “Re dell’Universo” (cfr.
inglese “King of the Universe”, francese “Roi de l’Universe”, spagnolo “Rey del
Universo”), indebolmente ulteriormente la dimensione immanente, concreta,
storica del suo Regno. Le stesse considerazioni valgono a proposito del nuovo
titolo della festa (“Cristo Re dell’Universo”) nei libri liturgici in lingua moderna.
La Messa si articola,
come di consueto nel nuovo rito, in tre cicli scritturistici. Il primo (anno A)
ha carattere eminentemente escatologico, è incentrata cioè sulla pienezza del regno
spirituale di Cristo alla fine dei tempi e non contiene alcun cenno alla
regalità sociale. Il secondo (anno B) prevede il vangelo del formulario
tradizionale, ma nella seconda lettura l’epistola di S. Paolo è stata
sostituita da un brano dell’Apocalisse che ribadisce la natura spirituale del
Regno di Cristo. Il terzo (anno C) denota una situazione simile ma inversa: l’epistola
è quella del formulario antico, mentre il vangelo parla del regno ultraterreno
e spirituale che Gesù assicura al buon ladrone. Nel secondo e terzo ciclo
scritturistico, quindi, la regalità sociale è presente, ma in misura meno
esplicita, e diremmo quasi irriconoscibile, che nel formulario tradizionale.
Del tutto scomparso
il testo dell’antico graduale, tratto dal salmo 71, che, alludendo al Messia,
affermava: “Dominabitur a mari usque ad mare, et a flumine usque ad terminos
orbis terrarum” (espressioni ebraiche che denotano l’interezza del mondo
immanente). E ancora: “Et adorabunt eum omnes reges terrae, omnes gentes
servient ei” (altro chiaro riferimento all’ossequio dei governanti e della
società).
Lo spostamento della
festa di Cristo Re verso una dimensione essenzialmente spirituale e
trascendente è confermato dalla sua nuova posizione nel calendario. Essa non è
più posta in riferimento ai Santi che regnano con Cristo e alle missioni che
diffondono il suo regno temporale, ma si trova alla fine dell’anno liturgico,
nella posizione che la liturgia romana assegna tradizionalmente al ricordo
della fine del mondo e del giudizio universale. Il che, se da un lato spiega l’indole
del ciclo scritturistico A, dall’altro rafforza l’idea che nella nuova liturgia
il Regno di Cristo a cui si allude con la corrispondente festa non è
primariamente, come intendeva Pio XI, quello sociale, storico, temporale, che
del resto avrà fine con la sua venuta escatologica, ma piuttosto quello trascendente,
spirituale, eterno, che troverà il suo perfetto compimento nella Parusia.
5. Conclusione.
Sulla base di tutti
questi elementi, è possibile affermare che, nel nuovo rito, la festa di Cristo
Re ha subito un sorprendente allontanamento dal significato voluto al momento
della sua istituzione. E non ci sembra azzardato ravvisare, in questo, un certo
influsso del pensiero moderno, penetrato negli ultimi decenni anche in ambiente
ecclesiastico, che se da un lato accetta - come espressione del pluralismo - la
regalità di Cristo sui singoli, dall’altro la rifiuta sulle istituzioni
sociali.
C’è da auspicare,
pertanto, che almeno nel rito antico alla festa di Cristo Re siano mantenuti,
non soltanto il suo formulario, ma anche la sua collocazione originaria.
Spostarla al termine dell’anno liturgico, infatti, ne accentuerebbe la dimensione
escatologica a discapito di quella sociale, e finirebbe in qualche modo per
alimentare la credenza, oggi assai diffusa anche nel mondo cattolico, secondo
cui la società civile - intesa nel suo complesso e nelle sue istituzioni -
avrebbe il diritto e persino il dovere di prescindere dal soavissimo giogo del
Regno di Cristo. “Se invece gli uomini privatamente e in pubblico avranno
riconosciuto la sovrana potestà di Cristo, necessariamente segnalati benefici
di giusta libertà, di tranquilla disciplina e di pacifica concordia pervaderanno
l’intero consorzio umano. La regale dignità di nostro Signore come rende in
qualche modo sacra l’autorità umana dei principi e dei capi di Stato, così
nobilita i doveri dei cittadini e la loro obbedienza” (Pio XI, enciclica Quas
primas).
Domenica 24 ottobre
2010
[Fonte]
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