Interessante
intervento di Mons. Schneider, che evidenzia,
tra i rilievi critici già segnalati da altri (Sinodo: errori e pericolose
ambiguità Relatio finalis, qui. V. anche i rilievi critici del card.
Burke, che abbiamo già segnalato qui, e che sono riportati anche qui), l’impressione
che molti hanno percepito riguardo alla Relazione finale sinodale e cioè come essa
rappresenti una sorta di ritorno ad una prassi farisaica della decisione “caso
per caso” proprio sul divorzio, contro cui si scagliò il Divin Maestro come
segnala in un suo contributo Francesco Agnoli su La nuova bussola quotidiana
(Sul divorzio erano i farisei a decidere “caso per caso”, qui e qui).
L’intervento critico del
vescovo Schneider è riportato, con una diversa traduzione, ma identica nella
sostanza, anche dal sito Corrispondenza romana.
Nella Relazione
Finale del Sinodo una ‘porta sul retro’ per l’accesso ad una prassi neo-mosaica
Rorate caeli pubblica uno scritto di Sua Eccellenza il Vescovo
Athanasius Schneider, uno dei pastori più impegnati nella diffusione della
Santa Messa usus Antiquior e delle verità perenni della nostra
fede.
Una porta
sul retro, per l’accesso ad una prassi neo-mosaica, nella Relazione finale
del Sinodo
La reazione del
Vescovo Athanasius Schneider al Sinodo: “La porta alla comunione ai
divorziati risposati è stata ufficialmente aperta a calci”
La XIV Assemblea
Generale del Sinodo dei Vescovi (4-25 ottobre 2015), dedicata al tema “La
vocazione e la missione della Famiglia nella Chiesa e nel mondo contemporaneo”,
ha pubblicato una Relazione Finale con alcune proposte pastorali
sottoposte al discernimento del Papa. Si tratta di un documento di natura
soltanto consultiva e dunque senza alcun valore magisteriale formale.
Tuttavia, durante il
Sinodo, sono apparsi veri e propri neo-discepoli di Mosé e neo-farisei, che ai
numeri 84-86 della Relazione Finale hanno aperto una porta di
servizio o piazzato bombe ad orologeria in ordine all’ammissione dei divorziati
risposati alla Santa Comunione. Nello stesso tempo, quei Vescovi che hanno
coraggiosamente difeso «la fedeltà propria della Chiesa a Cristo ed alla Sua
Verità» (Papa Giovanni Paolo II, Esortazione Apostolica Familiaris Consortio,
84), sono stato ingiustamente tacciati da alcuni media [e non solo dai
media...] come farisei.
Durante le ultime due Assemblee del Sinodo (2014 e 2015),
i nuovi discepoli di Mosè ed i nuovi farisei hanno mascherato la loro negazione
dell’indissolubilità del matrimonio nella prassi e la sospensione del sesto
Comandamento in base al “caso per caso”, sotto le mentite spoglie del concetto
di misericordia, usando espressioni come: “cammino di discernimento”, “accompagnamento”,
“orientamenti del Vescovo”, “dialogo col sacerdote”, “foro interno”, “una più
piena integrazione nella vita della Chiesa”, insinuando una possibile
soppressione dell’imputabilità per i casi di coabitazione nelle unioni
irregolari (cfr. Relazione Finale, nn. 84-86).
Questa parte
della Relazione Finale contiene infatti tracce di una nuova
prassi di divorzio di stampo neo-mosaico, benché i redattori abilmente e in
maniera scaltra abbiano evitato qualsiasi cambiamento diretto della Dottrina
della Chiesa. Pertanto, tutte le parti in causa, tanto i promotori della cosiddetta
agenda Kasper quanto i loro oppositori, possono apparentemente affermare con soddisfazione:
“È tutto a posto. Il Sinodo non ha cambiato la Dottrina”. Ma questa percezione
è del tutto ingenua, poiché ignora la porta sul retro e le
incombenti bombe ad orologeria presenti nei testi sopra citati che diventano
evidenti ad un esame accurato del testo secondo criteri interpretativi interni.
Anche se, laddove si
parla di un “cammino di discernimento”, si menziona ancora il “pentimento” (Relazione
Finale, n. 85), rimane comunque un gran numero di ambiguità. Infatti,
secondo le reiterate affermazioni del Card. Kasper e di ecclesiastici che la
pensano come lui, tale pentimento riguarderebbe i peccati commessi in passato
contro il coniuge del primo matrimonio, quello valido, mentre il pentimento del
divorziato non può quindi riferirsi all’atto della sua convivenza coniugale col
nuovo partner, sposato civilmente.
L’assicurazione del
testo di cui ai numeri 85 ed 86 della Relazione Finale secondo
cui tale discernimento debba essere fatto in accordo con l’insegnamento della
Chiesa e formulato secondo un retto giudizio resta ambigua. Infatti, il Card.
Kasper ed i prelati che la pensano come lui, hanno ripetutamente e energicamente
assicurato che l’ammissione alla Santa Comunione dei divorziati e risposati
civilmente non intaccherebbe il dogma dell’indissolubilità e della sacramentalità
del matrimonio, ma hanno anche sostenuto che un giudizio secondo coscienza in
tali casi sarebbe da considerarsi corretto quand’anche i divorziati risposati
continuassero a convivere come marito e moglie, w che non debba essere loro
richiesto di vivere in completa continenza, come fratelli e sorelle.
Nel citare il famoso
n. 84 dell’Esortazione Apostolica Familiaris Consortio di papa
Giovanni Paolo II nel corpo del n. 85 della Relazione Finale, i
redattori ne hanno censurato il testo, tagliandone la seguente formula
decisiva: L’Eucarestia può essere concessa solo a quanti «assumono l’impegno di
vivere in piena continenza, cioè di astenersi dagli atti propri dei coniugi»
Tale prassi della
Chiesa è fondata sulla Divina Rivelazione della Parola di Dio, scritta e
trasmessa attraverso la Tradizione. È espressione di un’ininterrotta
Tradizione, che dagli Apostoli rimane immutabile in tutti i tempi. “Chi ripudia
una moglie adultera e sposa un’altra donna, fintantoché la sua prima moglie
continua a vivere, rimane in perpetuo stato di adulterio, e non può compiere
alcun atto di penitenza efficace fintantoché rifiuta di abbandonare la nuova
sposa. Se si tratta di un catecumeno, non può essere ammesso al battesimo,
perché rimarrà radicato nel peccato. Se si tratta di un penitente (battezzato),
non può ricevere l’assoluzione (ecclesiastica) finché non rompe col suo cattivo
atteggiamento” (De adulterinis coniugiis, 2, 16). In realtà, il
taglio intenzionale dell’insegnamento della Familiaris Consortio nel
par. 85 della Relazione Finale rappresenta per ogni sana
ermeneutica la vera e propria chiave interpretativa per la comprensione di
questa parte del testo sui divorziati risposati (parr. 84-86).
Ai nostri giorni
esiste una pressione ideologica permanente e onnipresente da parte dei mass
media, inclini al pensiero unico imposto dalle potenze mondiali anticristiane,
al fine di abolire la verità dell’indissolubilità del matrimonio – banalizzando
il carattere sacro di questa divina istituzione tramite la diffusione di un’anticultura
del divorzio e del concubinato. Già cinquant’anni fa, il Concilio Vaticano II
affermò che i tempi moderni sono infettati dalla piaga del divorzio (cfr. Gaudium
et spes, 47). Lo stesso Concilio avverte che il matrimonio cristiano come
sacramento di Cristo non dovrebbe “mai essere profanato dall’adulterio o dal
divorzio” (Gaudium et spes, 49).
La profanazione del “grande
sacramento” (Ef 5, 32) del matrimonio tramite l’adulterio e il divorzio ha
assunto proporzioni massicce, a un ritmo allarmante e crescente, non solo nella
società civile in generale ma anche tra i cattolici in particolare. Quando i cattolici,
tramite il divorzio e l’adulterio, ripudiano tanto a livello teoretico quanto a
livello pratico la volontà di Dio espressa nel Sesto Comandamento, essi si
pongono nel serio rischio spirituale di perdere la loro salvezza eterna.
L’atto più misericordioso
da parte dei Pastori della Chiesa sarebbe quello di richiamare l’attenzione su
questo pericolo per mezzo di una chiara – e nello stesso tempo amorevole –
ammonizione sulla necessaria accettazione completa del Sesto Comandamento di
Dio. Essi devono chiamare le cose col loro giusto nome ammonendo: “il divorzio
è divorzio”, “l’adulterio è adulterio” e “chi commette coscientemente e
liberamente peccati gravi contro i Comandamenti di Dio – in questo caso contro
il Sesto Comandamento – e muore senza essersi pentito, riceverà la condanna
eterna venendo escluso per sempre dal regno di Dio”.
Tale ammonizione ed
esortazione è opera dello Spirito Santo, come Cristo ha insegnato: “Egli
convincerà il mondo quanto al peccato, alla giustizia e al giudizio” (Gv 16, 8).
Spiegando l’opera dello Spirito Santo nel “convincere riguardo al peccato”,
Papa Giovanni Paolo II ha affermato: “Ogni peccato – indipendentemente da
quando e da come sia commesso – si riferisce alla Croce di Cristo, e quindi indirettamente
anche al peccato di quanti ‘non hanno creduto in Lui’ e hanno condannato Gesù
Cristo alla morte sulla Croce” (Enciclica Dominum et Vivificantem,
29). Chi vive una vita coniugale con un partner che non è il suo legittimo sposo
– come nel caso dei divorziati risposati civilmente – rinnega la volontà di
Dio. Convincere tali persone della gravità di questo peccato è un’opera
ispirata dallo Spirito Santo e ordinata da Gesù Cristo, ed è quindi un’opera
eminentemente pastorale e misericordiosa.
Sfortunatamente, la Relazione
Finale del Sinodo omette di convincere i divorziati e i risposati
sulla gravità del loro peccato concreto. Al contrario, col pretesto della
misericordia e di una falsa pastoralità, i Padri Sinodali che hanno appoggiato
i postulati dei paragrafi 84-86 della Relazione hanno tentato di celare lo
stato di pericolo spirituale dei divorziati risposati.
De facto, dicono loro che il loro peccato
di adulterio o non è affatto peccato o che perlomeno non è un peccato grave e
che non c’è alcun pericolo spirituale nel loro stile di vita. Il comportamento
di questi Pastori è direttamente contrario all’opera dello Spirito Santo ed è
pertanto un’opera antipastorale e da falsi profeti cui si addicono le seguenti
parole della Sacra Scrittura: “Guai a coloro che chiamano bene il male e male
il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, che cambiano l’amaro
in dolce e il dolce in amaro” (Is 5, 20), e: “I tuoi profeti hanno avuto per te
visioni di cose vane e insulse, non hanno svelato le tue iniquità per cambiare
la tua sorte; ma ti han vaticinato lusinghe, vanità e illusioni” (Lam 2, 14). A
questi vescovi l’Apostolo Paolo rivolgerebbe oggi senz’alcun dubbio queste
parole: “Questi tali sono falsi apostoli, operai fraudolenti, che si mascherano
da apostoli di Cristo” (2 Cor 11, 13).
Il testo della Relazione
Finale del Sinodo non solo tralascia di convincere senza ambiguità i
divorziati risposati civilmente sulla natura adultera e quindi gravemente
peccaminosa del loro stile di vita, ma anzi lo giustifica indirettamente relegando
in sostanza questa questione al contesto della coscienza individuale e
applicando impropriamente il principio morale dell’imputabilità al caso di
convivenza dei divorziati risposati. L’applicazione di tale principio ad uno
stato stabile, permanente e pubblico di adulterio è sconveniente e ingannevole.
La diminuzione della
responsabilità soggettiva si dà solamente nel caso in cui i partner abbiano la
ferma intenzione di vivere in completa continenza e sforzarsi seriamente al riguardo.
Finché i partner continuano intenzionalmente a condurre una vita peccaminosa,
non ci può essere sospensione d’imputabilità. La Relazione Finale dà
l’impressione di insinuare che uno stile di vita di pubblico adulterio – come
nel caso dei risposati civilmente – non violi l’indissolubile vincolo
sacramentale del matrimonio o che non costituisca un peccato mortale o grave e
che questo argomento sia inoltre una mera questione di coscienza privata. Si
può dedurre da ciò uno scivolamento verso il principio protestante del giudizio
soggettivo su questioni di fede e disciplina e una vicinanza intellettuale alla
teoria erronea dell’”opzione fondamentale”, teoria già condannata dal Magistero
(cfr. Papa Giovanni Paolo II, Enciclica Veritatis Splendor, 65-70).
I Pastori della Chiesa
non dovrebbero in alcun modo promuovere una cultura del divorzio tra i fedeli.
Si devono evitare anche i più sottili gesti di cedimento alla pratica o alla
cultura del divorzio. La totalità della Chiesa deve dare una testimonianza
convincente e forte dell’indissolubilità del matrimonio. Papa Giovanni Paolo II
ha affermato che il divorzio “è un male che, come gli altri, intacca sempre di
più anche i cattolici; il problema dev’essere affrontato con decisione e senza
esitazioni” (Familiaris Consortio, 84).
La Chiesa deve
aiutare con amore e pazienza i divorziati risposati a riconoscere il loro stato
di peccato e aiutarli a convertirsi con tutto il cuore a Dio e all’obbedienza
alla Sua santa volontà, espressa nel Sesto Comandamento. Finché i divorziati
risposati continueranno a dare una testimonianza pubblica contraria all’indissolubilità
del matrimonio e finché contribuiranno a diffondere la cultura del divorzio,
essi non potranno esercitare i ministeri liturgici, catechetici e istituzionali
all’interno della Chiesa, perché questi ultimi richiedono per la loro stessa
natura una vita pubblica conforme ai Comandamenti di Dio.
È ovvio che i
violatori pubblici, per esempio, del Quinto e del Settimo comandamento, come i
proprietari di cliniche per l’aborto o i collaboratori di una rete di
corruzione, non solo non possono ricevere la Santa Comunione ma, evidentemente,
non possono essere ammessi ai servizi pubblici liturgici e catechetici. Bisogna
distinguere la gravità del male causato dallo stile di vita dei promotori
pubblici dell’aborto e della corruzione dalla vita adultera delle persone
divorziate. Non le si può mettere sullo stesso piano. Eppure, la richiesta di
ammettere i divorziati e i risposati come padrini e catechisti mira in sostanza
non al vero bene spirituale dei ragazzi, ma risulta piuttosto essere una
strumentalizzazione di un’agenda ideologica ben specifica. Questa è disonestà,
è un farsi beffe del ruolo di padrini o di catechisti i quali, con una promessa
pubblica, si fanno carico del cómpito di educare alla fede.
La vita dei padrini o
dei catechisti divorziati e risposati contraddice continuamente le loro parole,
e così essi devono far fronte alle ammonizioni che lo Spirito Santo dà loro per
bocca di San Giacomo Apostolo: “Siate di quelli che mettono in pratica la
parola e non soltanto ascoltatori, illudendo voi stessi” (Gc 1, 22).
Sfortunatamente, il par. 84 della Relazione Finale auspica l’ammissione
dei divorziati risposati agli uffici liturgici, pastorali ed educativi. Una
tale proposta rappresenta un appoggio indiretto alla cultura del divorzio e un
rinnegamento pratico della condanna di uno stile di vita oggettivamente
peccaminoso. Papa Giovanni Paolo II, al contrario, ha mostrato solo le seguenti
due possibilità di partecipare alla vita della Chiesa, che a loro volta mirano
a una vera conversione: “Essi devono essere incoraggiati ad ascoltare la parola
di Dio, a partecipare al Sacrificio della Messa, a perseverare nella preghiera,
a contribuire in opere di carità e negli sforzi comunitari a favore della
giustizia, a educare i loro figli alla fede cristiana, a coltivare lo spirito e
la pratica della penitenza e inoltre implorare ogni giorno la Grazia di Dio” (Familiaris
Consortio, 84).
Dev’essere mantenuta
una salutare area d’esclusione (non ammissione ai Sacramenti e agli uffici
pubblici liturgici e catechetici) per ricordare ai divorziati il loro stato di
serio pericolo spirituale e per promuovere allo stesso tempo nelle loro anime
un atteggiamento di umiltà, obbedienza e desiderio di autentica conversione.
Umiltà significa coraggio di fronte alla verità, e solo quanti si sottomettono
umilmente a Dio riceveranno le Sue grazie.
I fedeli che non sono
ancóra pronti o disposti a interrompere la loro vita adulterina devono essere
aiutati spiritualmente. Il loro stato spirituale è simile a una sorta di “catecumenato”
applicato al sacramento della Penitenza. Essi possono ricevere il sacramento
della Penitenza – che nella Tradizione della Chiesa era chiamato “il secondo
battesimo” o “la seconda penitenza” – solo se rompono sinceramente con l’abitudine
della convivenza adulterina ed evitano il pubblico scandalo, in modo analogo a
quanto fanno i catecumeni, i candidati al Battesimo. La Relazione
Finale omette il richiamo dei divorziati risposati all’umile riconoscimento
del loro oggettivo stato di peccato, perché tralascia di incoraggiarli ad
accettare con lo spirito della fede la non ammissione ai Sacramenti e agli
uffici pubblici liturgici e catechetici. Senza questo riconoscimento realistico
e umile del loro stato spirituale reale, non ci sarà progresso effettivo verso
un’autentica conversione cristiana, che nel caso dei divorziati risposati
consiste in una vita di completa continenza e nel cessare di peccare contro la
santità del sacramento del matrimonio e di disobbedire pubblicamente al Sesto
Comandamento di Dio.
I Pastori della
Chiesa e in particolar modo i testi pubblici del Magistero devono parlare in
modo estremamente chiaro, poiché è questa la caratteristica essenziale del
cómpito dell’insegnamento ufficiale. Cristo ha comandato a tutti i Suoi
discepoli di parlare in modo estremamente chiaro: “Sia il vostro parlare sì,
sì; no, no; il di più viene dal maligno” (Mt 5, 37). Questo è ancor più valido
quando i Pastori della Chiesa predicano o quando il Magistero si pronuncia in
un documento.
Il testo dei
paragrafi 84-86 della Relazione Finale costituisce
disgraziatamente un serio allontanamento da questo comandamento divino. Nei
passi menzionati il testo non rivendicava apertamente la legittimazione dell’ammissione
dei divorziati risposati alla Santa Comunione: il testo evita persino di
utilizzare l’espressione “Santa Comunione” o “Sacramenti”. Piuttosto, per mezzo
di tattiche raggiranti, esso utilizza espressioni ambigue come “una più piena
partecipazione alla vita della Chiesa” e “discernimento e integrazione”.
Per mezzo di queste
tattiche raggiranti la Relazione Finale, di fatto, pone delle bombe ad
orologeria e apre una porta sul retro per l’ammissione dei divorziati risposati
alla Santa Comunione, provocando così una profanazione dei due grandi
sacramenti del Matrimonio e dell’Eucarestia e contribuendo almeno
indirettamente alla diffusione della cultura del divorzio e della “piaga del
divorzio” (Concilio Vaticano II, Gaudium et spes, 47).
Quando si legge
attentamente l’ambiguo testo della seconda parte – “Discernimento e
integrazione” – della Relazione Finale, si ha l’impressione di
trovarsi di fronte a un’ambiguità elaborata in modo estremamente abile. Vengono
in mente le parole di Sant’Ireneo nel suo Adversus haereses:
“Chi mantiene immutabile nel suo cuore la regola della verità che ha ricevuto per mezzo del battesimo, riconoscerà senza dubbio i nomi, le espressioni e le parabole prese dalle Scritture, ma giammai riconoscerà l’uso blasfemo che questi uomini fanno di esse. Poiché, pur sapendo distinguere le gemme autentiche, non riconoscerà come re la volpe travestita da sovrano. Ma, dato che manca il tocco finale che può dare credibilità a questa farsa – in modo tale che chiunque la esamini a fondo possa immediatamente opporre un argomento che la rovesci –, abbiamo giudicato conveniente mettere in risalto, prima di tutto, in che cosa gli stessi autori di questa favola differiscono tra di loro, come se fossero stati ispirati da diversi spiriti d’errore. Questo stesso fatto costituisce una prova immediata che la verità della Chiesa è immutabile, e che le teorie di questi uomini non sono altro che un tessuto di falsità” (I, 9, 4-5).
La Relazione
Finale sembra lasciare la soluzione della questione dell’ammissione
dei divorziati risposati alla Santa Comunione alle autorità ecclesiastiche locali:
“l’accompagnamento dei sacerdoti” e “gli orientamenti dei vescovi”. Ma tale
questione è essenzialmente connessa col deposito della fede, vale a dire con la
parola rivelata di Dio. La non ammissione dei divorziati che vivono in pubblico
stato di adulterio appartiene all’immutabile verità della legge della fede cattolica
e di conseguenza anche della legge della prassi liturgica cattolica.
La Relazione
Finale sembra inaugurare una cacofonia dottrinale e disciplinare nella
Chiesa cattolica, che contraddice la stessa essenza dell’essere cattolici.
Occorre ricordare le parole di Sant’Ireneo sulla vera natura della Chiesa
cattolica in tutti i tempi e in tutti i luoghi:
“Dopo aver ricevuto questa predicazione e questa fede, la Chiesa, pur essendo sparsa in tutto il mondo, la preserva come se occupasse una sola casa. Essa crede anche ai vari punti della dottrina come se avesse una sola anima e un solo cuore, e li proclama, li insegna e li tramanda in perfetta armonia, come se possedesse una sola bocca. Poiché, anche se le lingue del mondo sono diverse tra di loro, il contenuto della tradizione è uno solo e sempre lo stesso. Poiché le Chiese che sono state fondate in Germania non credono o tramandano nulla di differente rispetto a quelle che sono state fondate in Spagna, o nella Gallia, o in Oriente, o in Egitto, o in Libia, o nelle regioni centrali del mondo (Italia). Bensì, così come il sole – che è una creatura di Dio – è uno e lo stesso in tutto il mondo, anche la predicazione della verità brilla dappertutto e illumina tutti gli uomini che vogliono venire a conoscenza della verità. E nessun capo della Chiesa, per quanto possa essere dotato di eloquenza, insegnerà mai dottrine differenti da queste (poiché nessuno è più grande del Maestro); né, d’altra parte, quanti mancano di potere d’espressione potranno danneggiare la tradizione. Dato che la fede è sempre una e la stessa, né le persone che hanno una grande capacità d’argomentazione su di essa vi aggiungeranno nulla, né quanti sono poco capaci di esprimersi vi toglieranno nulla” (Adversus haereses, I, 10, 2).
La parte della Relazione
Finale dedicata ai divorziati risposati evita attentamente di
proclamare il principio immutabile dell’intera tradizione cattolica, vale a
dire che quanti vivono in un’unione coniugale non valida possono essere ammessi
alla Santa Comunione solo sotto la condizione di promettere di vivere in
completa continenza e di evitare il pubblico scandalo. Giovanni Paolo II e
Benedetto XVI hanno confermato con forza questo principio cattolico. L’evitare
deliberatamente di menzionare e riaffermare questo principio nel testo della
Relazione Finale può essere comparato con il sistematico astenersi dall’utilizzare
il termine “homoousios” da parte degli avversari del dogma del Concilio
di Nicea nel quarto secolo – gli Ariani formali e i cosiddetti semi-Ariani –,
che inventavano continuamente espressioni nuove al fine di non confessare
apertamente la consustanzialità del Figlio di Dio con Dio Padre.
Tale astensione da un’aperta
confessione cattolica da parte della maggioranza dei vescovi nel quarto secolo
causò una febbrile attività ecclesiastica con continui incontri sinodali e la
proliferazione di una nuova formula dottrinale, che avevano il denominatore
comune di evitare la chiarezza terminologica, vale a dire il termine “homoousios”.
Analogamente, ai nostri giorni i due ultimi Sinodi sulla Famiglia hanno evitato
di nominare e proclamare chiaramente il principio dell’intera tradizione
cattolica secondo il quale quanti vivono in un’unione matrimoniale non valida
possono essere ammessi alla Santa Comunione solo sotto la condizione di
promettere di vivere in completa continenza e di evitare il pubblico scandalo.
Questo fatto è provato
anche dall’immediata e inequivoca reazione dei media laici e dalla reazione dei
principali sostenitori della nuova pratica anticattolica di ammettere i divorziati
risposati alla Santa Comunione anche quando mantengano una vita di pubblico
adulterio. Il Cardinal Kasper, il Cardinal Nichols e l’Arcivescovo Forte, per
esempio, hanno affermato pubblicamente che in base alla Relazione
Finale si può assumere che in un certo qual modo siano state aperte le
porte alla Comunione ai divorziati risposati. Vi è anche un considerevole
numero di vescovi, sacerdoti e laici che si rallegrano di queste cosiddette “porte
aperte” che hanno trovato nella Relazione Finale. Invece di guidare
i fedeli con un insegnamento chiaro e assolutamente privo di ambiguità, la Relazione
Finale ha provocato una situazione di oscuramento, confusione,
soggettività (il giudizio della coscienza dei divorziati e il foro interno) e
generato un particolarismo dottrinale e disciplinare non cattolico in questioni
che sono essenzialmente connesse col deposito della fede così com’è stata
trasmessa dagli Apostoli.
Ai nostri giorni,
quanti difendono con forza la santità dei sacramenti del Matrimonio e dell’Eucarestia
vengono etichettati come Farisei. Eppure, se il principio logico di non contraddizione
è ancóra valido e il senso comune funziona ancóra, è vero il contrario.
Sono piuttosto gli
offuscatori della verità divina nella Relazione Finale a
somigliare ai Farisei, giacché per conciliare una vita adulterina con la
ricezione della Santa Comunione hanno inventato abilmente nuovi termini, nuove
leggi di “discernimento e integrazione”, introducendo nuove tradizioni umane in
contraddizione coi cristallini comandamenti di Dio. Ai sostenitori della
cosiddetta “Agenda Kasper” sono indirizzate queste parole della Verità
Incarnata: “Annullate la parola di Dio con la tradizione che avete tramandato
voi” (Mc 7, 13). Oggi anche tutti quelli che, per duemila anni, hanno parlato
senza sosta dell’immutabilità della verità divina, spesso anche a costo delle
loro vite, sarebbero etichettati come Farisei; anche San Giovanni Battista, San
Paolo, Sant’Ireneo, Sant’Atanasio, San Basilio, San Tommaso Moro, San Giovanni
Fisher, San Pio X, per menzionare solo gli esempi più rifulgenti.
Il risultato reale
del Sinodo è la percezione, da parte sia dei fedeli che della pubblica opinione
secolare, che vi sia stata praticamente una sola posizione sulla questione dell’ammissione
dei divorziati alla Santa Comunione. Si può affermare che il Sinodo, in un
certo senso, è risultato essere agli occhi della pubblica opinione un Sinodo
dell’adulterio, non il Sinodo della famiglia. In effetti, tutte le belle affermazioni
della Relazione Finale sul matrimonio e sulla famiglia sono
eclissate dalle affermazioni ambigue nei paragrafi relativi ai divorziati
risposati, un argomento che era già stato confermato e deciso dal Magistero
degli ultimi Pontefici Romani in fedele conformità col bimillenario
insegnamento e la pratica bimillenaria della Chiesa sull’indissolubilità del
matrimonio, e quindi sulla non ammissione ai Sacramenti dei divorziati che
vivono in unioni adulterine.
Nella sua lettera a
Papa Damaso, San Basilio tracciò una pittura realistica della confusione
dottrinale causata dagli uomini di Chiesa che cercavano un compromesso vuoto e
un adattamento allo spirito del mondo dei loro tempi:
“Le Tradizioni sono tenute a nulla; i metodi degli innovatori sono di moda nelle varie Chiese; oggi gli uomini sono più inventori di sistemi raggiranti che teologi; la sapienza di questo mondo vince i premi più alti, ma ha rinnegato la gloria della Croce. Gli anziani si lamentano quando si paragona il presente al passato. I giovani sono da compatire ancóra di più, poiché non sanno nemmeno di cosa sono stati privati” (Ep. 90, 2).
In una lettera a Papa
Damaso e ai vescovi occidentali, San Basilio descrive come segue la situazione
confusa all’interno della Chiesa:
“Le leggi della Chiesa si trovano nella confusione. L’ambizione di uomini privi di timor di Dio si insinua nelle più alte cariche, e gli uffici più alti sono oggi pubblicamente riconosciuti come il premio dell’empietà. Il risultato è che più un uomo bestemmia, più lo si ritiene adatto ad essere un vescovo. La dignità clericale è una cosa del passato. Non vi è una conoscenza precisa dei canoni. Il peccato gode di completa immunità, poiché quando a qualcuno è stato assegnato un ufficio grazie al favore di uomini, egli è costretto a restituire il favore mostrando continua indulgenza a quanti operano il male. Il giudizio retto è una cosa del passato; ognuno segue solo i desideri del proprio cuore. Quanti si trovano in posizioni di autorità hanno paura di parlare, poiché quanti hanno raggiunto il potere per interesse umano sono schiavi di quelli a cui debbono la loro ascesa. E oggi la stessa difesa dell’ortodossia viene vista in certi ambienti come un’opportunità per l’attacco reciproco; gli uomini nascondono la loro cattiva volontà fingendo che la loro ostilità si debba al loro amore per la verità. I non credenti se la ridono continuamente; gli uomini dalla fede debole sono scossi; la fede è incerta; le anime sono immerse nell’ignoranza, poiché gli adulteratori della parola imitano la verità. I migliori tra i laici evitano le chiese come scuole di empietà e nel deserto, con singhiozzi e lacrime, alzano le mani al loro Signore che è nei Cieli. Noi abbiamo ricevuto la fede dei Padri, quella fede che sappiamo essere stata marcata col sigillo degli Apostoli; a quella fede aderiamo, così come a tutto ciò che in passato è stato canonicamente e legalmente promulgato” (Ep. 92, 2).
Ogni periodo di
confusione nella storia della Chiesa costituisce allo stesso tempo una
possibilità di ricevere molte grazie di forza e coraggio e di dimostrare il
proprio amore per Cristo Verità Incarnata. A Lui ogni battezzato e ogni
sacerdote e vescovo ha promesso indefessa fedeltà, ognuno in conformità col
proprio stato: tramite i voti battesimali, tramite le promesse sacerdotali,
tramite la promessa solenne nell’ordinazione episcopale. Infatti, ogni
candidato al vescovato ha promesso: “Manterrò puro ed integro il deposito della
fede in conformità con la tradizione che è stata preservata sempre e ovunque
nella Chiesa”. L’ambiguità che si trova nei paragrafi sui divorziati e
risposati della Relazione Finale contraddice il summenzionato
voto solenne episcopale. Nonostante ciò, ognuno nella Chiesa – dal semplice
fedele a quanti detengono il Magistero – deve dire:
“Non possumus!” Non accetterò un discorso fumoso né una porta sul retro abilmente nascosta verso una profanazione dei Sacramenti del Matrimonio e dell’Eucarestia. Analogamente, non accetterò che si irrida al Sesto Comandamento di Dio. Preferisco essere messo in ridicolo e perseguitato io piuttosto che accettare testi ambigui e metodi non sinceri. Preferisco la cristallina “immagine di Cristo Verità, piuttosto che l’immagine della volpe adornata di gemme” (Sant’Ireneo), perché “So in Chi ho creduto”, “Scio, Cui credidi!” (2 Tim 1, 12).
2 novembre 2015
+ Athanasius
Schneider,
Vescovo Ausiliare
dell’Arcidiocesi di Santa Maria in Astana
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