Nella memoria liturgica di S.
Silvestro Guzzolini, abate, e S. Pietro Alessandrino, vescovo, e compagni,
martiri, rilancio quest’articolo sullo sterminio silenzioso dei cristiani in
terra islamica … (v. anche, dello stesso autore, La bomba durante la messa, la
fede che resiste. Cronaca da Aleppo, in Il Foglio, 23.11.2015 e lo Speciale dedicato allo Sterminio dei cristiani). A dimostrazione come non possa parlarsi di un islam integralista ed un islam moderato ...., ma semplicemente dell'islam, come affermato di recente dal presidente turco Erdogan (v. qui e qui).
Apparizione di Cristo con la veste strappata a S. Pietro di Alessandria |
Icona di S. Pietro d'Alessandria |
Storia di fede e massacri. Il
peccato mortale di essere cristiani
Inchiesta su uno sterminio silenzioso
di
Matteo Matzuzzi
In Nigeria, solo a Maiduguri, centomila cristiani costretti alla fuga nell'ultimo biennio |
“Nella notte tra il 18 e il 19 luglio del 2014, dei pick-up muniti
di altoparlante circolavano nei quartieri di Mosul annunciando un ultimatum e
distribuendo un volantino in cui si leggeva: i cristiani devono convertirsi
all’islam, pagare la tassa, lasciare la città senza prendere nulla con sé entro
il mezzogiorno del giorno seguente. O saranno decapitati. ‘Fra voi e noi non ci
sarà che la spada’, precisava il volantino. Il risultato? Sono partiti tutti”.
Louis Raphaël I Sako,
Patriarca di Babilonia dei caldei
È un genocidio, punto. Bisogna chiamare le cose con il loro nome”.
Bashar Warda, vescovo caldeo di Erbil, Kurdistan, primo punto d’approdo per i
cristiani e yazidi cacciati dalle loro case nella piana di Ninive, sfrattati
dall’avanzare dell’orda nera del Califfato islamico, scandisce e ripete ogni
volta che può quella parola che imbarazza gli storici e pure tanti uomini di
chiesa. Definizione controversa, quella di genocidio, basti pensare all’eterna
disputa su quel che accadde nell’Impero ottomano in via di disfacimento un
secolo fa, quando gli armeni furono condotti a tappe forzate da un capo
all’altro dell’Anatolia, con i turchi che ancora oggi negano tutto e parlano di
semplici “trasferimenti”. Per Warda “ci sono tutti gli elementi, gli eventi, le
storie e le esperienze che soddisfano la definizione di genocidio”, e solo
usando la corretta definizione “queste esperienze non saranno dimenticate, i
sacrifici di questa gente non saranno dimenticati. Non si aspettino altri vent’anni
per guardarsi indietro e dire ‘mi dispiace se non abbiamo fatto qualcosa di
veramente decisivo’”, prosegue citando implicitamente la vergogna di Srebrenica
e delle sue fosse comuni. Il patriarca di Baghdad, mar Louis Raphaël I Sako,
nel suo ultimo libro “Più forti del terrore” (Emi), aveva chiarito perché a suo
giudizio è corretto parlare di genocidio: “Se si confrontano gli avvenimenti
passati con ciò che accade oggi, è l’ampiezza del dramma che cambia. Decine di
migliaia di cristiani sono stati scacciati dalla piana di Ninive in un colpo
solo. Nelle guerre precedenti, alcuni individui erano uccisi, oggi tutta la
popolazione è colpita”. Questo, aggiungeva Sako, “è un attacco di massa il cui
scopo è di far partire tutti i cristiani. Qui si può veramente parlare di
epurazione religiosa e addirittura di genocidio”.
Fare stime è difficile, i numeri ballano e i censimenti non sono
sempre possibili, data la situazione sul terreno sconvolto da anni di guerre e
tensioni etniche e religiose. Quel che si può dire, è che rispetto a un paio
d’anni fa il numero di paesi dove la persecuzione nei confronti dei cristiani è
considerata estrema (cioè a livello massimo) è passato da sei a dieci, ha
scritto di recente in un rapporto la Fondazione di diritto pontificio Aiuto
alla chiesa che soffre. A Cina, Eritrea, Iran, Arabia Saudita, Pakistan e Corea
del nord si sono infatti aggiunti Iraq, Nigeria, Sudan e Siria. Certo, a
Pechino le croci vengono rimosse dalle chiese perché considerate “troppo
vistose”; i cristiani non allineati ai vescovi di nomina governativa pregano
nella clandestinità, come i loro precursori duemila anni fa nelle catacombe.
Nell’ultimo anno, nel solo Zhejiang, il restyling delle chiese (che è
nient’altro che la rimozione della croce) ha coinvolto 425 edifici. “Ci sono
troppe croci”, ha detto il segretario locale del Partito, preoccupato dalla
poca armonia nello skyline cittadino. “La croce è il simbolo della nostra fede.
Rimuovendo le croci, le autorità insultano la nostra fede, violano i nostri diritti
che pure sono garantiti dalla Costituzione cinese”, diceva qualche tempo fa il
cardinale Joseph Zen Ze-kiun, arcivescovo emerito di Hong Kong. “All’inizio
pensavo che la campagna derivasse da una decisione del governo locale. Poi sono
giunto alla conclusione che la linea è quella dello Stato centrale. Ciò è una
terribile regressione della politica religiosa” della Cina, chiosava.
Dal rapporto, però, balza subito all’occhio che “le nuove entrate
sono tutte segnate dall’ascesa dell’estremismo islamico, che si conferma come
una delle principali minacce alla comunità cristiana”. Emblematico è il caso
dell’Iraq, dove le case dei cristiani sono state marchiate con la “N” di
nazareno. Qui oltre centoventimila cristiani sono stati obbligati a scegliere
se convertirsi o morire passati per la spada dei jihadisti. Le immagini diffuse
nei mesi scorsi dai network del Califfato hanno testimoniato il ritorno delle
enclave di dhimmi, dove i non musulmani tollerati sono chiamati a firmare
contratti e a pagare tasse per aver salva la vita, a patto di non suonare le
campane e di non costruire nuove chiese. In Nigeria, nella sola diocesi di
Maiduguri centomila cristiani sono stati costretti alla fuga nell’ultimo
biennio. Trecentocinquanta le chiese distrutte, date alle fiamme o rase al
suolo. È di martedì sera l’ultimo attacco per mano di Boko Haram, a Yola,
capitale dello stato di Adamawa, nel martoriato nord-est del paese.
Quarantanove morti secondo gli ultimi bollettini della Croce Rossa (in continuo
aggiornamento), cento feriti, dopo che un attentatore suicida si è fatto
esplodere in una stazione di servizio, vicino a un mercato di frutta e verdura.
L’arcivescovo di Jos, mons. Ignatius Kaigama, presidente della Conferenza
episcopale nigeriana, diceva la scorsa estate che per i combattenti di Boko
Haram “la vita è niente; non gli importa nulla della loro vita: è inutile.
Prendono, però, altre vite, questo è il problema. Vanno in chiesa, vanno al
ristorante, vanno al mercato, vanno a scuola e mettono le bombe. Ciò significa
che la loro filosofia di vita è irrazionale”. Il cardinale John Onaiyekan,
arcivescovo di Abuja, chiedeva anche l’uso delle armi per proteggere il popolo.
Il governo “finora ha fatto poco. Ora dicono che lo faranno. Ci spero, ma sono
un po’ scettico. A ogni modo, non basta condannare Boko Haram, perché che cosa
insegna l’islam nelle sue scuole in Nigeria? A non rispettare le altre
religioni. Se questo è il discorso normale, se i bambini crescono così, poi è
chiaro che si crea un terreno fertile per l’emergere di Boko Haram o dell’Isis
o di al Qaida”.
Davanti all’inferno sulla terra, tra i cadaveri bruciati che
riempiono le strade, rimane la speranza che solo la fede può dare. Può sembrare
paradossale, ma tutte le testimonianze dai luoghi della persecuzione narrano di
una fede che si fa sempre più forte, nonché di una volontà ferma e sempre più
convinta di rimanere nelle proprie terre, se necessario fino al martirio.
“Nella mia diocesi di Aleppo, nel nord della Siria, siamo sulla linea del
fronte di questa sofferenza. La mia cattedrale è stata bombardata sei volte e
ora è inagibile. La mia casa è stata colpita più di dieci volte. Stiamo
affrontando la furia di un jihad estremista. Potremmo scomparire presto”, ha
scritto Jean-Clément Jeanbart, arcivescovo greco-melkita di Aleppo. Noi,
aggiungeva, “siamo il primo obiettivo della campagna di pulizia religiosa del
cosiddetto Califfato. Veniamo massacrati quotidianamente e anche altri
cristiani subiscono lo stesso trattamento”.
I mesi tra il 2013 e il 2015 sono stati catastrofici per i
cristiani in diverse regioni del mondo. Non sono gli unici ad aver sofferto,
certo. Ma tutti i dati mostrano come essi siano stati quelli più colpiti
rispetto ai fedeli di altre religioni. L’International Society for Human
Rights, con base a Francoforte, già nel 2012 sosteneva che l’ottanta per cento
di tutti gli attacchi di discriminazione religiosa aveva come bersaglio proprio
i cristiani. L’Unione europea – non certo entità d’emanazione pontificia –
aggiustava la cifra, ma neanche più di tanto: settantacinque per cento. David
Brooks, sul New York Times di martedì scorso, snocciolava qualche numero per
dare l’idea del massacro silenzioso e spesso tollerato: “Nel novembre del 2014,
prendendo un mese a caso, ci sono stati 664 attacchi jihadisti in quattordici
paesi, che hanno causato la morte di 5.042 persone. Dal 1984 – aggiungeva
Brooks – si stima che un milione e mezzo di cristiani sia stato ucciso
dalle milizie islamiste in Sudan”. Una mappa del terrore che già un anno e mezzo
fa, a Pasqua, aveva fatto dire al premier britannico David Cameron che “la
cristianità è oggi la religione più perseguitata nel mondo”.
Fonte: Il Foglio, 22.11.2015
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