Nella vigilia del Santo Natale del Signore secondo la
carne, un saggio sulla festa come concepita dal grande vescovo di Milano
Ambrogio come argine all’eresia del suo tempo, quella ariana.
Il Natale di sant’Ambrogio
di Cristina Siccardi
Il primo documento che registra la celebrazione della festa del Santo
Natale il 25 dicembre del 336 è il Cronografo del 354 (Chronographus anni 354), primo Calendario della Chiesa
di Roma. Si tratta di un Calendario illustrato, accompagnato da testi,
realizzato dal calligrafo Furio Dionisio Filocalo.
Il codice venne offerto ad un aristocratico romano di fede cristiana di
nome Valentino. Sant’Ambrogio (339/340 – 397) visse i suoi anni giovanili a
Roma e fu qui che conobbe la festa del Santo Natale, quando sua sorella
Marcellina fece professione religiosa nel Natale dell’anno 352 o 354 nella
basilica di San Pietro e la cerimonia venne presieduta da Papa Liberio.
Sant’Ambrogio ricorderà alla sorella le parole del Pontefice pronunciate
quel 25 dicembre: «Quando, il giorno di Natale nella basilica
dell’apostolo Pietro, tu sigillavi la professione della verginità anche con il
mutamento dell’abito – e per la professione della vergine quale giorno più
adatto di questo, in qui un figlio fu dato alla Vergine? – alla presenza di molte
fanciulle di Dio che andavano a gara per divenire tue compagne, Liberio disse:
Nobili nozze hai desiderato per te, o figliola! Guarda quanta folla è qui
venuta per celebrare il Natale del tuo sposo; …oggi (il tuo sposo) è nato dalla
Vergine come uomo, ma è stato generato dal Padre prima di ogni cosa: simile
alla Madre nel corpo, al Padre nella potenza. Unigenito in terra, unigenito in
cielo: Dio da Dio, partorito dalla Vergine; giustizia del Padre, onnipotenza
dell’Onnipotente, luce da luce, non inferiore a colui che l’ha generato…»
(Le vergini, libro III, n. 1-4).
Divenuto Vescovo di Milano, Sant’Ambrogio introdusse la festa del Natale
nella sua città episcopale, fra il 380 e il 386. Non fu soltanto il ricopiare
un uso romano, ma la ricorrenza della natività del Salvatore divenne per il
primo fra i quattro grandi dottori della Chiesa latina (San Girolamo,
Sant’Agostino e San Gregorio I papa), l’occasione propizia e sempre ricercata
per combattere l’eresia ariana (che umanizzava Cristo, spogliandolo della sua
divinità. Ciò che accade nuovamente oggi nel contemporaneo neoarianesimo della
cristianità): glorificare il Mistero dell’Incarnazione compiutasi in Maria
Santissima, fu la perfetta occasione per dichiarare e diffondere, fra i potenti
e gli umili, la Verità sul Cristo Dio.
Se si considera l’importanza della funzione da lui svolta nella vita
politico-religiosa dell’ultimo terzo del IV secolo – e non solo la qualità del
teologo, dell’esegeta, del pensatore e del letterato – il Vescovo di Milano ha
esercitato nella storia dei rapporti fra Chiesa e Stato un’azione più decisiva
e di portata più vasta rispetto a San Girolamo o Sant’Agostino.
Ambrogio appare come il Santo delle contraddizioni trascese, illustrate dai
due simboli che gli attribuì il Medioevo: la sferza ricorda l’energia
indomabile dispiegata nella lotta contro ogni deviazione dottrinale, in
particolare l’Arianesimo, dal Vescovo che usò magistralmente la parola, la
prosa e la poesia; l’alveare e lo sciame d’api, invece, evocano non soltanto un
episodio miracoloso della sua prima infanzia (mentre Ambrogio neonato dormiva
nella culla, uno sciame di api si posò sulla sua bocca, dalla quale e nella quale
esse entravano ed uscivano liberamente), ma soprattutto la virtù della sua
parola, che sapeva farsi dolce come il miele per celebrare, nel commento al Cantico dei Cantici, le delizie dell’unione dell’anima
con il Verbo Incarnato.
Sant’Ambrogio ha infatti saputo conciliare qualità raramente congiunte in
uno stesso Santo: l’autorità, la perspicacia e lo spirito di decisione
dell’alto funzionario al servizio dello Stato romano prima e al servizio della
Chiesa dopo, con l’umiltà, lo spirito di rinuncia al mondo, l’interiorità del mistico.
La determinazione inflessibile di fronte agli Imperatori e l’attività
instancabile, nonostante un corpo piuttosto debole e malato, come viene
rappresentato infatti nel mosaico di San Vittore in Ciel d’Oro, si intrecciano
allo stesso tempo con la compassione e la disponibilità di un uomo di Dio che
lasciava sempre aperta la porta della sua stanza di lavoro.
«Muro» o «colonna della Chiesa», «torre di Davide contro Damasco», secondo
le immagini dei primi biografi Rufino e Paolino di Milano, questo Vescovo che,
ispirato dal timore di Dio, non ha mai avuto paura di dire la verità ai
potenti, si presenta anche come Pastore esemplare, guida straordinaria ed
evangelizzatore instancabile. Mistico e uomo d’azione, Sant’Ambrogio è stato
anche un grande poeta i cui Inni, con ammirevole
concisione, formano un compendio della vita cristiana. Egli ha scritto alcune
fra le più belle pagine della lingua latina, ove si intrecciano il lirismo
ardente e il vigore dialettico. Rémy de Gourmont, nel suo Latin mystique, ha reso giustizia al genio poetico del
primo Vescovo di Milano: «[…] le odi di sant’Ambrogio
sono rimaste i fiori più squisiti del simbolico giardino della liturgia».
Davvero interessante che Sant’Ambrogio si sia “servito” proprio del Natale
per arginare l’eresia ariana. Di ciò abbiamo testimonianza nel commento che il
Vescovo fece del Vangelo di San Luca: «S. Luca narra succintamente il
modo, il tempo, il luogo della nascita di Cristo secondo la carne; se cerchi
invece la sua generazione celeste, leggi il vangelo di S. Giovanni, che
comincia dal cielo per scendere sulla terra. Lì troverai quando era, come era,
che cosa aveva fatto, che cosa faceva, dov’era, dove è venuto, come e quando e
per qual fine è venuto… Conosciamo la duplice generazione, e ciò che compete
all’una e all’altra; conosciamo pure il motivo della sua venuta: prendere su di
sé i peccati di questo mondo avviato alla rovina per distruggere in se stesso,
lui che è invincibile, la sventura del peccato e della morte».
E dopo aver descritto con le parole di Luca la nascita di Cristo, così
prosegue: «Ti sembrano forse trascurabili i segni con i quali Dio si rivela:
gli angeli che lo servono, i Magi che lo adorano, i martiri che gli rendono
testimonianza? Esce da un seno materno, ma rifulge nel cielo; giace in una
terrena dimora, ma regna nella luce celeste. Lo partorisce una sposa, ma lo
concepisce una vergine!» (Commento al Vangelo di Luca,
2, 40-43).
Vicino alle ragioni teologiche, non mancarono ad Ambrogio delle motivazioni
pastorali, per introdurre la celebrazione del Natale a Milano. In questa città
come del resto a Roma, c’erano sopravvivenze del culto a Mitra, il dio del
sole; anche i cristiani avevano segnato la natività di Cristo, vero Sole di giustizia,
il 25 dicembre e Sant’Ambrogio propose queste riflessioni: «Il sole avanza, inondando il giorno di un grande splendore, il
mondo di una gran luce, e tutto riscaldando con il suo calore. Stai attento, o
uomo, a non valutarne soltanto la grandezza: potrebbe succedere che il suo
straordinario Fulgore ti accechi la vista dell’anima… Ma quando vedi il sole,
rifletti al suo fattore, quando te ne innamori, esalta il suo creatore. Se
tanto bello è il sole, pure essendo strettamente associato alla sorte di ogni
cosa creata, quanto non sarà mai splendido il “sole di giustizia”» (Commento al salmo 119, 90-91).
Paragona il Verbo Incarnato ad un gigante dalla duplice natura divina ed
umana che compie dei passi e fa dei balzi che travalicano i luoghi creati: Gesù
esce dal Cielo per arrivare alla Vergine, dal seno della Vergine nel presepe,
dal presepe al Giordano, dal Giordano sulla croce, dalla croce nel sepolcro,
dal sepolcro nel Cielo. Compiuta la descrizione di questo grande cammino
(l’autore parla di «salti», allo stesso modo che ne parlerà, più tardi, San
Gregorio Magno), la poesia di Ambrogio diventa invito al Redentore a cingersi
dalla carne umana come di un’armatura trionfale: «O uguale all’eterno Padre –
cingi l’umiltà della carne, – per rafforzare l’infermità del nostro corpo – con
perenne fortezza».
E a questo punto il testo riconduce ad una strofa di un suo inno per il
Natale del Signore: «Christe redemptor omnium…», dove ci
si rivolge al Salvatore ricordandogli che anche lui, un giorno, pur nascendo da
una Vergine illibata, ha preso la forma del nostro corpo. È la celebre strofa
che iniziava con il «Memento, rerum conditor – nostri quod olim
corporis – sacrata ad alvo Virginis – nascendo formam sumpseris»:
questa carne che oggi diventa carne del Redentore, è una carne che, in coloro
che sono redenti, ma non sono ancora giunti alla salvezza, sente il fremito
della passione, che tante volte può spingere a dimenticare che la stessa carne
è diventata la carne del Redentore.
L’inno si chiude con una contemplazione orante, che Ambrogio fa quasi
inginocchiandosi di fronte al presepe (il termine è composto da prae – innanzi – esaepes – greppia/mangiatoia/recinto):
«Praesepe iamo fulget tuum…»: «già rifulge il tuo presepe – e la notte spira nuova luce; – che
nessuna notte valga a spegnere – e che splenda di fede inestinguibile».
Ambrogio non è il primo ad avvicinarsi al presepe, prima di lui Giustino ed
Origene. Qui, dove la greppia di Betlemme (vuota nel primo presepe vivente
realizzato nel 1223 a Greccio da San Francesco e miracolosamente riempita da
Gesù Bambino, che il Santo d’Assisi abbracciò piangente), Ambrogio dopo aver
spaziato sui grandi temi teologici delle due nature e dell’abbassamento del
Verbo, si mette vicino al Bambino Divino: la notte della vita acquista nuova
luce, che nessuna forza potrà mai spegnere, perché la fiamma è data dalla Fede,
prima luce che brilla nel presepe del Signore Gesù.
«Volle farsi pargolo, volle farsi bimbo, perché tu possa divenire
uomo perfetto; fu avvolto in pochi panni perché tu venissi sciolto dai lacci di
morte; giacque nella mangiatoia per collocare te sugli altari; scese in terra
per elevare te alle stelle; non trovò posto in quell’albergo perché tu potessi
avere il tuo nella patria celeste. – Da ricco che era, si fece povero per voi –
dice l’apostolo – perché per la sua povertà voi diventaste ricchi. Quella
povertà è dunque la mia ricchezza, la debolezza del Signore è la mia forza.
Volle per sé ristrettezze e per noi tutti l’abbondanza. I pianti di
quell’infanzia mi purificano, quelle lacrime lavano i miei peccati. O Signore,
io sono più debitore per le tue sofferenze redentive, che non per la tua
potenza creatrice. Sarebbe perfino inutile nascere, se non avessimo il
vantaggio d’essere redenti» (Isacco e l’anima, 4,
35).
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