Già in altra occasione abbiamo
avuto modo di parlare di Wilde, ricordando come egli, dopo una vita in dissolutezze,
ebbe modo di convertirsi, avendo modo di inginocchiarsi dinanzi ai Vicari di
Cristo, papi beato Pio IX e Leone XIII. Davvero verso quest’uomo inquieto, che
si mostrò non sordo ai richiami dello Spirito, fu usata misericordia. Anzi, può
dirsi che la conversione di Wilde fu davvero uno dei maggiori prodigi della
Divina Misericordia nel secolo XIX.
Il 30 novembre 1900, a Parigi, alle
ore 14,00 circa, egli lasciò questa terra. Mentre il mondo lo ricorderà com’era
prima della sua conversione, nel suo dandismo persino esasperato, i cattolici lo
ricordano, invece, dopo quell’evento, come uno dei più zelanti sostenitori
della causa cattolica e dell’autorità pontificia, come uno che tenne fede alla
sua massima secondo cui «Il cattolicesimo è la sola religione in cui valga
la pena di morire». In effetti, morì dotato dei conforti religiosi
cattolici. E siamo sicuri che Dio non avrà respinto quest’uomo inquieto, che
trovò, al termine della sua esistenza, la sua pace soltanto in Lui: «Ci hai fatti per Te e inquieto è il nostro cuore
finché non riposa in te», diceva ne Le Confessioni (I,1,1) S.
Agostino d’Ippona, un altro spirito inquieto approdato a quel Porto Sicuro,
dopo aver attraversato diversi mari ed oceani di dissolutezze.
Nell’odierna memoria di S.
Bibiana (o Viviana), vergine e martire, rilancio questo contributo sul poeta d’origine
irlandese.
Gian Lorenzo Bernini, S. Bibiana,1624-26, chiesa di S. Bibiana, Roma |
Pietro da Cortona - Robert Van Audenaerde Gandensis, Martirio di S. Bibiana, XVII sec., collezione privata, Roma |
Oscar Wilde, l’inquieto
che implorava la pietà di Gesù
di Francesco Agnoli
Il 30 novembre 1900, a Parigi,
moriva Oscar Wilde, l’autore de Il ritratto di Dorian Gray. La sua
figura è spesso strumentalizzata e incompresa, nella sua profondità e nel suo
dramma. Per questo può essere utile ricordare almeno alcune cose. Oscar Wilde
nasce a Dublino il 16 ottobre 1854. Come racconta il biografo Francesco Mei,
suo padre, sir William, è un medico affermatissimo, che «cambia più spesso le
amanti che non le camicie» (Francesco Mei, Oscar Wilde, Rcs,
Milano, 2001). Sua madre, Jane, è «portata a trascurare l’andamento della casa,
compresa l’educazione morale dei figli».
William e Jane sono una coppia “aperta”,
con tutte le caratteristiche del caso. Quando Oscar nasce, la madre, «che aspettava ardentemente una
bambina», resta delusa. Proietta sul figlio, maschio, i suoi desideri: il
piccolo Oscar viene vestito da bambina, «agghindato con trine e pizzi» e
patisce tanto le imposizioni della madre, quanto l’assenza del padre. Vari
biografi mettono in luce come Wilde abbia interiorizzato una figura negativa di
padre, e questo gli abbia impedito di sviluppare appieno la sua virilità e il
suo senso di paternità: cercherà sempre, in altre figure maschili, il padre che
non ha avuto, e sarà, con la moglie e con i figli, il marito infedele e il
padre assente che non aveva apprezzato in suo padre.
Presto Wilde si distacca dalla
famiglia, andando a studiare in collegio, prima al Trinity College di Dublino, poi ad Oxford. Rimanendo per certi aspetti
«un eterno fanciullo», incapace di «maturare, almeno sul piano affettivo». Suo
padre non è per lui oggetto di ammirazione, anzi Oscar non approva «lo sfrenato
libertinaggio del genitore. E non è escluso che proprio per reazione agli
eccessi paterni, egli abbia concepito sin dall’adolescenza una sorta di riluttanza
a stabilire rapporti impegnativi con le donne». Si sposerà, amerà sua moglie,
ma, un po’ come il padre, senza mai riuscire a farlo veramente, alternando i
rimorsi e il desiderio di tornare da lei, all’insicurezza e alla mutevolezza,
ai rapporti fuggevoli e molteplici con donne, uomini e ragazzini. In un vortice
di depravazione, come dirà lui stesso, che lo porterà, dopo il successo, alla
prigione, ma anche ad una salute inferma, causa l’uso prolungato di alcool,
liquori, assenzio... sino alla fine dei suoi giorni.
Condannato al carcere nel 1895,
con l’accusa di aver avuto rapporti omosessuali con svariati ragazzini e prostituti, Wilde scrive da lì alla moglie
Constance: «Perdonami... i miei peccati sono stati tremendi e imperdonabili...».
Wilde si vergogna della sua vita passata, anela alla rigenerazione, alla
rinascita, si fa dare il Vangelo, gli scritti dei cardinali inglesi Newman e
Manning, la Storia dei Papi... e progetta di scrivere, una volta fuori dal
carcere, qualcosa su san Francesco, quasi a riparazione del suo «perseguimento
selvaggio del piacere che inaridisce il corpo e lo spirito». Nel 1897 scrive
una lettera che prende il titolo da un salmo, De profundis, a lord Alfred Douglas,
il suo amante. Il 30 novembre 1900 Oscar Wilde muore, dopo essere entrato nella
Chiesa cattolica, di cui era sempre stato un estimatore, e aver ricevuto l’estrema
unzione (Paolo Gulisano, Il ritratto di Dorian Gray, Ancora,
Milano, 2009, p. 181).
Come per Baudelaire, Verlaine,
Rimbaud e Huysmans (il cui romanzo Controcorrente è considerata
la “bibbia dell’estetismo” e che poi
diventerà oblato benedettino), passati tutti, chi più chi meno, da un forte rapporto
con la fede religiosa, anche Wilde non può essere compreso se non riandando
alla sua domanda: sono i piaceri del mondo, i “frutti terrestri” a saziare la
fame dell’uomo, oppure la nostra “inquietudine”, per citare Agostino, è saziata
solo dall’incontro con Dio? Riportiamo qualche frase dal De profundis,
scritto quando il poeta non è più sul palcoscenico, ma giù dal piedistallo su
cui lui stesso aveva voluto mettersi, per essere da sé il senso della propria
vita; scritto quando al posto dei piaceri sensuali e della dissipazione, vi
sono il dolore e la solitudine; quando il tentativo di costruire una vita
splendida, al di là del bene e del male, «come se Dio non ci fosse» e «tutto
fosse lecito», si è rivelato un fallimento.
Scrive Wilde: «Bisogna, sì, ch’io
mi dica che da me stesso io mi sono distrutto e che nessuno, piccolo oppure grande, non si può rovinare che con le sue
proprie mani. Io sono pronto a dirlo; mi sforzo di confessarlo, quantunque,
forse, in questo momento, non lo si creda. Senza alcuna compassione io sostengo
contro di me l’implacabile accusa. Per quanto terribile sia stato ciò che il
mondo mi ha fatto di male, quel che io feci a me stesso fu più tremendo
ancora... Mi divertii a fare l’ozioso, il dandy, l’uomo alla moda. Mi circondai
di poveri caratteri e di spiriti miserevoli. Divenni prodigo del mio proprio
genio e provai una gioia bizzarra nello sperperare una giovinezza eterna.
Stanco di vivere sulle cime, discesi volontariamente in fondo agli abissi per
cercarvi delle sensazioni nuove. La perversità fu nell’orbita della passione
quel che il paradosso era stato per me nella sfera del pensiero. Infine il
desiderio si cangiò in una malattia, o in una follìa, o in entrambe le cose.
Divenni noncurante della vita altrui. Colsi il mio bene dove mi piacque e
passai oltre. Dimenticai che ogni più piccola azione quotidiana forma o deforma
il carattere e che, per conseguenza, ciò che si è compiuto nel segreto della
propria intimità si sarà poi costretti a proclamarlo al mondo intero. Così, non
fui più padrone di me stesso. Non riuscii più a dominare la mia anima e la
ignorai. Permisi al piacere di governarmi e finii coll’essere abbattuto da una
sventura orrenda. Adesso non mi rimane più che una cosa: l’assoluta umiltà...».
Poi, parlando di Gesù, scrive:
«Certo, egli ha il senso della pietà per i poveri, per coloro che sono relegati nelle prigioni, per gli umili, per i
miserabili, ma egli ha molta più compassione per i ricchi, per gli edonisti,
per coloro che sacrificano la loro libertà e divengono gli schiavi delle cose,
per quelli che portano abiti preziosi e abitano in palazzi regali. Le ricchezze
e le voluttà a lui sembrano invero delle tragedie più grandi che la penuria e
il dolore. Per Natale sono riuscito a procurarmi un Testamento Greco e ogni
mattina, dopo aver spazzato la mia cella e forbito i miei utensili, leggo un
passo dei Vangeli, una dozzina di versetti presi a caso, non importa dove. È
una deliziosa maniera di cominciar la giornata. Ciascuno, anche vivendo una
vita turbinosa e disordinata, dovrebbe fare così...». Sentiva Wilde, che Gesù
aveva pietà anche di lui, del suo edonismo sfrenato, su cui aveva cercato di
costruire la propria felicità, e che era stato, invece, al contrario, la sua
condanna.
Fonte: La nuova bussola quotidiana, 2.12.2015
Fonte: La nuova bussola quotidiana, 2.12.2015
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