Nella memoria di S. Domenico di
Silos, abate, rilancio questo contributo di don Nicola Bux.
Bartolomé de Cárdenas Bermejo, S. Domenico di Silos in trono, 1474-77, museo del Prado, Madrid |
Bartolomé de Cárdenas Bermejo - Martín Bernat, Ferdinando I di Castiglia accoglie S. Domenico di Silos, 1474-79, museo del Prado, Madrid |
Quegli errori sul
Concilio (e sulla Chiesa nel mondo). A 10 anni dalla lezione di papa Benedetto
di Nicola Bux
Il 22 dicembre 2005,
Benedetto XVI rivolgeva uno storico discorso alla Curia Romana, nel quale
offriva le “chiavi” della storia e della fede, per la corretta interpretazione
del Concilio ecumenico Vaticano II. Cosa ha prodotto? Una parte della Chiesa
cattolica lo ha condiviso, mentre l’altra ha continuato a percepire quell’avvenimento
come una rottura con la Chiesa precedente. Il solco si è approfondito, quasi
uno scisma di fatto.
Per questa parte della
Chiesa, viene da dire che in principio era il Verbo, ora è il
Concilio, con la C maiuscola e senza specificazioni, mitizzato come un
super-dogma, in rottura con la sacra Tradizione e in apertura al mondo. Il
contenuto dei documenti è ridotto a slogan: profezia, segni dei tempi, dialogo,
comunione, senza aggiungere “gerarchica”, spirito del Concilio contro la
lettera. Nel suo discorso, Benedetto XVI si chiedeva: qual è stato il risultato
del Concilio? È stato recepito nel modo giusto? E in ciò, cosa è stato buono e
cosa sbagliato? Cosa resta da fare? Quindi, citava san Basilio a sostegno della
percezione che si sia falsata per eccesso o per difetto la retta dottrina della
fede. Perché è avvenuto questo? Il Concilio non è stato interpretato in modo
univoco e si è sdoppiato in modo contrastante, causando per un verso confusione
– quella più visibile – e per l’altro una promettente rinascita
spirituale.
La «ermeneutica della
discontinuità e della rottura» si è avvalsa della simpatia dei mass-media e diparte della teologia
moderna – questo è oggi evidente –; l’«ermeneutica della riforma, del
rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha
donato» - la frase-chiave del discorso - è invece guardata con sospetto ed
emarginata. È certezza di fede che la Chiesa non cambia, cresce nel tempo, si
sviluppa, rimanendo sempre lo stesso popolo in cammino. Tutti conoscono san
Vincenzo di Lerins: quod semper, quod ubique, quod ab omnibus
creditur, id est catholicum. Ma oggi si sostiene che la Chiesa
cambia e deve cambiare: chi dice questo, propone un’eresia, in quanto la Chiesa
è donata, scende dall’alto, è definita da Dio, per essere segno e strumento di
salvezza del mondo. Gli uomini che le appartengono devono sempre convertirsi,
ma essa è senza macchia né ruga, splendente di bellezza.
Dal post-Concilio, è
proprio l’idea di Chiesa il perno della crisi cattolica: si tende a scinderla
dal popolo di Dio, da cui pure è
costituita; a sostituirla con altri enti mondani, allorché si devono affrontare
i problemi della giustizia e della pace; attraverso il malinteso dialogo
inter-religioso, la si vuol far diventare una Onu delle religioni, non un
vessillo elevato tra le nazioni. Eppure la Chiesa è il corpo di Cristo, fondata
su dodici uomini, chiamati a sé dal mondo per poi inviarli ad esso quale luce e
sale, non certo per confondersi con esso: «Non abbiamo bisogno di una Chiesa
che si muova col mondo», diceva Chesterton. «Abbiamo bisogno di una Chiesa che
muova il mondo».
Nel discorso in oggetto,
papa Benedetto, addita un paradosso: siamo arrivati a teorizzare – e praticare - la rottura tra Chiesa
preconciliare e Chiesa postconciliare. In tal modo è stata fraintesa «in radice
la natura di un Concilio come tale. In questo modo, esso viene considerato come
una specie di costituente, che elimina una costituzione vecchia e ne crea una
nuova. Ma la Costituente ha bisogno di un mandante e poi di una conferma da
parte del mandante, cioè del popolo al quale la costituente deve servire. I
padri non avevano un tale mandato e nessuno lo aveva mai dato loro; nessuno del
resto poteva darlo, perché la costituzione essenziale della Chiesa viene dal
Signore e ci è stata data affinché noi possiamo raggiungere la vita eterna e
partendo da questa prospettiva, siamo in grado di illuminare anche la vita nel
tempo e il tempo stesso». Dunque, la discontinuità va contro la fedeltà
dinamica che caratterizza la Tradizione.
Il Concilio Vaticano II,
si noti, ideato e fatto da una Chiesa “pre-conciliare”, finirebbe per indurre
la Chiesa
odierna a non riconoscersi in continuità con quella; il Concilio costituirebbe
lo spartiacque, come se la Chiesa nascesse ora. Finalmente si attua l’idea di
Gioacchino da Fiore? Ne ha di sostenitori: una nuova Chiesa che propugna il primato
del cosiddetto spirito del Concilio sulla lettera dei documenti, il Concilio
dei media su quello dei padri. Lo dicono, forse, per superare l’imbarazzo:
perché, leggendo i testi conciliari, molte delle estrosità che hanno trovato
spazio nel post-Concilio, non si trovano.
Invece, nel discorso alla Curia,
Benedetto attribuisce a Giovanni XXIII e Paolo VI, l’interpretazione del
Concilio come riforma nella continuità dell’unico soggetto Chiesa perché – come
afferma monsignor Agostino Marchetto nella sua storia del Concilio -,
affermarono nelle allocuzioni di apertura e di chiusura, che la Chiesa: «vuole
trasmettere pura e integra la dottrina, senza attenuazioni o travisamento»; e
che il rispetto fedele e l’approfondimento della dottrina «certa e immutabile»
non deve ignorare le esigenze contemporanee, ma senza travisarne il senso e la
portata. Questa operazione però, non è intellettualistica o guidata da pruriti
innovatori, ma dalla comprensione della verità e dal rapporto con la fede
vissuta.
Nel discorso, papa
Benedetto accenna pure all’altra questione: il rapporto tra la Chiesa e la sua
fede, da
una parte, e l’uomo ed il mondo di oggi - ovvero l’età moderna -, dall’altra,
per il quale la discontinuità potrebbe sembrare convincente, se non fosse che l’età
moderna ha cercato di eliminare Dio dall’orizzonte dell’uomo. Tuttavia, talune
evoluzioni positive successive alla fase di contrapposizione tra Chiesa ed età
moderna - come un tipo di Stato moderno, laico ma non neutro riguardo ai valori
- avevano portato, in specie dopo la Seconda guerra mondiale, a reciproche
aperture; per non parlare dell’apporto della dottrina sociale cattolica e dell’apertura
delle scienze naturali a Dio. Pertanto, tre domande erano come dinanzi al
Concilio e attendevano risposta: la relazione fra fede e scienze moderne, il
rapporto tra Chiesa e Stato moderno, in specie quanto al comportamento verso le
religioni; il problema della tolleranza religiosa, che portava a ridefinire il
rapporto tra fede cristiana e religioni del mondo, e al suo interno quello tra
Chiesa e fede di Israele.
La discontinuità, comprensibile
se applicata a situazioni mutevoli, non poteva assurgere a pretesa duratura, al punto da
interrompere la continuità del soggetto Chiesa: «Così, ad esempio», continua
Benedetto, «se la libertà di religione viene considerata come espressione dell’incapacità
dell’uomo di trovare la verità e di conseguenza diventa canonizzazione del
relativismo, allora essa da necessità sociale e storica è elevata in modo
improprio a livello metafisico ed è così privata del suo vero senso, con la
conseguenza di non poter essere accettata da colui che crede che l’uomo è
capace di conoscere la verità di Dio e, in base alla dignità interiore della
verità, è legato a tale conoscenza. Una cosa completamente diversa è invece
considerare la libertà di religione come una necessità derivante dalla
convivenza umana, anzi come una conseguenza intrinseca della verità che non può
essere imposta dall’esterno, ma deve essere fatta propria dall’uomo solo
mediante il processo del convincimento».
È un esempio di quanto
non è stato o non si è voluto recepire della Dichiarazione conciliare sulla libertà religiosa,
mentre la Chiesa – sostiene Benedetto XVI - «in questa apparente discontinuità
ha mantenuto e approfondito la sua intima natura e la sua vera identità».
Questa, del resto, non può essere messa in contrasto con la missione di
annunciare a tutti i popoli il vangelo, perché andrebbe contro la libertà della
fede. Il dono della verità di Gesù Cristo è per tutti, senza distruggere
identità e culture. Dunque: «La Chiesa è, tanto prima quanto dopo il concilio,
la stessa Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica in cammino attraverso i
tempi».
Benedetto non nasconde
che “l’apertura verso il mondo” non ha trasformato tutto in pura armonia –per taluni, mettendo
fine anche al sacro – sottovalutando le tensioni e le contraddizioni, come pure
la fragilità dell’umana natura che costituisce la minaccia permanente per il
cammino dell’uomo. Non c’è ancora tanta parte di mondo che si sottrae al
Vangelo e che, invece, ha bisogno di essere raggiunto da esso? Ai nostri
giorni, poi, i pericoli sono aumentati, in specie a motivo del potere della
tecnica, divenuta quasi un nuovo idolo. E allora, la Chiesa si dovrebbe dissolvere
nelle religioni del mondo, vecchie e nuove? Non si dovrebbe più predicare la
conversione e il perdono dei peccati? Si è giunti a postulare per gli ebrei –
trascurando che la gran parte di loro non è credente – una via parallela di salvezza,
quasi che Cristo non sia più l’unico Salvatore.
Si dimentica che, anche
nel nostro tempo, la Chiesa resta “un segno di contraddizione” – ricorda
Benedetto XVI, riandando al titolo degli esercizi spirituali
predicati dal cardinale Wojtyla in Vaticano nel ‘76 – per tutti gli uomini
indistintamente: «Non poteva essere intenzione del Concilio abolire questa
contraddizione del Vangelo nei confronti dei pericoli e degli errori dell’uomo».
In conclusione, papa Benedetto è convinto che «il passo fatto dal Concilio
verso l’età moderna, che in modo assai impreciso è stato presentato come “apertura
verso il mondo”, appartiene in definitiva al perenne problema del rapporto tra
fede e ragione, che si ripresenta in sempre nuove forme».
Joseph Ratzinger ha
operato, da teologo e da Papa, in modo analogo al modo in cui Tommaso d’Aquino seppe mettere
«la fede in una relazione positiva con la forma di ragione dominante nel suo
tempo». Non a caso nella famosa lezione di Regensburg (Ratisbona), imposterà il
confronto con l’islam in rapporto alla ragione, cosa che interpella anche gli
ortodossi e i protestanti. Il rinnovamento della Chiesa - semper
reformanda – deve
essere guidato da questa giusta interpretazione, vincendo due debolezze: l’astuzia
intellettuale, che impedisce il discernimento, e la viltà del cuore, che
impedisce di scegliere amici e nemici; altrimenti la Chiesa si condanna all’insignificanza,
che è più grave della falsità, perché quest’ultima, provoca il pensiero,
costringe a prendere posizione, mentre la prima distrugge la Chiesa nella
disaffezione.
Senonché da taluni
cattolici, si sostiene questa tesi: finché i valori naturali sono stati
patrimonio del sentire
comune della maggioranza, l’insistenza della Chiesa su di essi poteva avere una
sua ragionevolezza, ma nel momento in cui questo è venuto meno, la Chiesa corre
il rischio di ritagliarsi il ruolo di colei che condanna le tendenze contro
natura; pertanto, bisognerebbe cambiare paradigma: saper leggere la vita degli
uomini di oggi (con le contraddizioni e le cose buone) e proporre l’unica cosa
interessante: il Vangelo. Ma la Chiesa cosa ha fatto finora? E in che modo? San
Luigi Maria Grignion de Montfort ricorda che essa ha unito la carità più
compassionevole e l’intransigenza dottrinale più ferma, nell’ardore di un
medesimo amore, che è lo zelo per la gloria di Dio e la salvezza delle anime.
La Chiesa sa di non poter fare il bene senza combattere il male, di non poter
evangelizzare senza lottare contro l’eresia.
Misericordia e dottrina
– per dottrina s’intende la Rivelazione - non possono sussistere che unendosi: separate l’una dall’altra
muoiono e non lasciano più che due cadaveri: il liberalismo umanitario con la
sua falsa serenità e il fanatismo con il suo falso zelo. È stato detto che la
Chiesa è intransigente per principio, perché crede; è tollerante nella pratica,
perché ama. Invece, i nemici della Chiesa sono tolleranti per principio, perché
non credono, e intransigenti nella pratica, perché non amano.
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