Qualche tempo fa
avevamo avuto modo di postare un brano tratto da un’opera dell’insigne maestro
e patrono dei moralisti qual è S. Alfonso Maria de’ Liguori.
In quella
circostanza, riportandone sia l’aforisma sia il brano per intero, ricordavamo
come «ne manda più all’inferno la misericordia di Dio, che non ne manda la
giustizia», perché, ci rammentava il Dottore della Chiesa, i peccatori, confidando
temerariamente nella misericordia divina, non cessano di peccare, così
dannandosi l’anima. Diceva S. Alfonso, infatti, che Dio è sì misericordioso, ma
anche giusto ed in quanto tale «è obbligato a castigare chi l’offende»: lo
esige la giustizia.
Oggi, quel monito del
grande Santo del secolo dei Lumi ci appare davvero profetico, ricordando come
il continuo richiamo alla misericordia compiuto da più parti sia vano se non
accompagnato dalla volontà del peccatore di non voler più peccare e di emendare
la propria vita. Ed invece, il giornalista Magister ci pubblica la lettera choc
di un confessore, il quale pone in luce come, nonostante la proclamazione
giubilare, i confessionali rimangono vuoti. Anzi, quando qualche penitente vi
si accosta il confessore, non di rado, si sente quasi ripreso dal peccatore qualora
lo metta a nudo – come è giusto che sia – dinanzi alla sua colpa, sentendosi dire
“Chi è lei per giudicarmi?” (cfr. S. Magister,
Giubileo della misericordia, ma con i confessionali vuoti, in blog www.chiesa, 9.1.2016).
Ecco i frutti
derivanti dalla veicolazione di messaggi, se non errati in linea di principio, sono
almeno parziali ed approssimativi!!! Far passare semplicemente l’idea che l’attraversamento
di una delle innumerevoli porte sante, peraltro senza alcuna devozione,
possa essere un surrogato o un sostituto della Confessione; veicolare
la convinzione che con l’indulgenza si venga assolti dal peccato e dalla pena
temporale dovuto a questo e che, dunque, il semplice attraversamento renda “bianco”
ciò che prima del passaggio era “nero”, è semplicemente mostruoso ed una
deformazione della dottrina cattolica. Oltre che, ovviamente, causa della
perdizione di molte anime!
Per questo ci pare
opportuno tornare a riflettere sulle parole – già da noi pubblicate – di S. Alfonso,
con la traduzione - questa volta – dei passi latini compiuta da uno dei collaboratori
del nostro blog, che ci ha onorato di alcuni suoi articoli e riflessioni,
Vincenzo Sasso, che ringraziamo della sua paziente opera.
Giusepope Molteni, La Confessione, 1838, collezione privata |
Si ha nella parabola
della zizania in S. Matteo (cap. 13) che essendo cresciuta in un campo la
zizania insieme col grano, volevano i servi andare ad estirparla: “Vis,
imus, et colligimus ea?” [“Vuoi che
andiamo ad estirparla?”]. Ma il padrone rispose: No, lasciatela crescere, e
poi si raccoglierà e si manderà al fuoco: “In tempore messis dicam
messoribus, colligite primum zizania, et alligate ea in fasciculos ad
comburendum” [“Al tempo della messe
dirò ai mietitori: raccogliete prima la zizania e legatela in fastelli, poi bruciatela”].
Da questa parabola si ricava per una parte la pazienza che il Signore usa co’
peccatori; e per l’altra il rigore che usa cogli ostinati. Dice S. Agostino che
in due modi il demonio inganna gli uomini: “Desperando, et sperando” [“Sia con la disperazione sia con la speranza”].
Dopo che il peccatore ha peccato, lo tenta a disperarsi col terrore della
divina giustizia; ma prima di peccare, l’anima al peccato colla speranza della
divina misericordia. Perciò il santo avverte ad ognuno: “Post peccatum spera
misericordiam; ante peccatum pertimesce iustitiam” [“Dopo il peccato spera nella misericordia; prima del peccato abbi
terrore della giustizia”]. Sì, perché non merita misericordia chi si serve
della misericordia di Dio per offenderlo. La misericordia si usa con chi teme
Dio, non con chi si avvale di quella per non temerlo. Chi offende la giustizia,
dice l’Abulense, può ricorrere alla misericordia, ma chi offende la stessa
misericordia, a chi ricorrerà?
Difficilmente si
trova peccatore sì disperato, che voglia proprio dannarsi. I peccatori vogliono
peccare, senza perdere la speranza di salvarsi. Peccano e dicono: Dio è di
misericordia; farò questo peccato, e poi me lo confesserò. “Bonus est Deus,
faciam quod mihi placet” [“Dio è
buono, farò quel che mi piace”], ecco come parlano i peccatori, scrive S.
Agostino (Tract. 33. in Io.). Ma oh Dio così ancora dicevano tanti, che
ora sono già dannati.
Non dire, dice il
Signore: Sono grandi le misericordie che usa Dio; per quanti peccati farò, con
un atto di dolore sarò perdonato. “Et ne dicas: miseratio Domini magna est,
multitudinis peccatorum meorum miserebitur” [“E non dire: la misericordia del Signore è grande, avrà pietà dei miei
molti peccati”] (Eccli. 5. 6). Nol dire, dice Dio; e perché? “Misericordia
enim, et ira ab illo cito proximant, et in peccatores respicit ira illius”
[“perché
presso di lui ci sono misericordia e ira, il suo sdegno si riverserà sui
peccatori”] (Ibid.). La misericordia di Dio è infinita, ma gli
atti di questa misericordia (che sono le miserazioni) sono finiti. Dio è misericordioso ma è anche giusto. “Ego sum
iustus, et misericors” [“Io sono
giusto e misericordioso”], disse il Signore un giorno a S. Brigida; “peccatores
tantum misericordem me existimant” [“I
peccatori mi ritengono solo misericordioso”]. I peccatori, scrive S.
Basilio, vogliono considerare Dio solo per metà: “Bonus est Dominus, sed
etiam iustus; nolite Deum ex dimidia parte cogitare” [“Dio è buono, ma anche giusto; non considerate Dio solo per metà”].
Il sopportare chi si serve della misericordia di Dio per più offenderlo, diceva
il P.M. Avila che non sarebbe misericordia, ma mancamento di giustizia. La
misericordia sta promessa a chi teme Dio, non già a chi se ne abusa. “Et
misericordia eius timentibus eum” [“La
sua misericordia si stende su quelli che lo temono”], come cantò la divina
Madre. Agli ostinati sta minacciata la giustizia; e siccome (dice S. Agostino)
Dio non mentisce nelle promesse; così non mentisce ancora nelle minacce: “Qui
verus est in promittendo, verus est in minando” [“Colui che è veritiero nel promettere, è veritiero nel minacciare”].
Guardati, dice S.
Gio. Grisostomo, quando il demonio (ma non Dio) ti promette la divina
misericordia, affinché pecchi; “Cave ne unquam canem illum suscipias, qui
misericordiam Dei pollicetur” [“Sta
attento a non accogliere quel cane che promette la misericordia di Dio”] (Hom.
50. ad Pop. Antioch.). Guai, soggiunge S. Agostino, a chi spera per peccare:
“Sperat, ut peccet; vae a perversa spe” [“Spera per peccare; guai alla speranza perversa”] (In Ps. 144). Oh
quanti ne ha ingannati e fatti perdere, dice il santo, questa vana speranza. “Dinumerari
non possunt, quantos haec inanis spei umbra deceperit” [“Sono innumerevoli coloro che si fanno
ingannare da questa ombra di fatua speranza”]. Povero chi s’abusa della
pietà di Dio, per più oltraggiarlo!
Dice S. Bernardo che
Lucifero perciò fu così presto castigato da Dio, perché si ribellò sperando di
non riceverne castigo. Il re Manasse fu peccatore, poi si convertì, e Dio lo
perdonò; Ammone suo figlio, vedendo il padre così facilmente perdonato, si
diede alla mala vita colla speranza del perdono; ma per Ammone non vi fu
misericordia. Perciò ancora dice S. Gio. Grisostomo che Giuda si perdé, perché
peccò fidato alla benignità di Gesù-Cristo: “Fidit in lenitate magistri”
[“Confidò nella clemenza del maestro”].
In somma Dio, se sopporta, non sopporta sempre. Se fosse che Dio sempre sopportasse, niuno si dannerebbe; ma la
sentenza più comune è che la maggior parte anche de’ cristiani (parlando
degli adulti) si danna: “Lata
porta et spatiosa via est, quae ducit ad perditionem, et multi intrant per eam”
[“Larga è la porta e spaziosa la via che
conduce alla perdizione, e molti entrano per essa”] (Matth. 7. 13).
Chi offende Dio colla
speranza del perdono, “irrisor est non poenitens” [“è sbeffeggiatore e non penitente”], dice S. Agostino. Ma
all’incontro dice S. Paolo che Dio non si fa burlare: “Deus non irridetur”
[“Dio non si fa prendere in giro”] (Galat.
6. 7). Sarebbe un burlare Dio seguire ad offenderlo, sempre che si vuole, e poi
andare al paradiso. “Quae enim seminaverit homo, haec et metet” [“L’uomo raccoglierà ciò che avrà seminato”]
(Ibid. 8). Chi semina peccati, non ha ragione di sperare altro che castigo ed
inferno. La rete con cui il demonio strascina all’inferno quasi tutti quei cristiani
che si dannano, è quest’inganno, col quale loro dice: Peccate liberamente,
perché con tutt’i peccati vi salverete. Ma Dio maledice chi pecca colla
speranza del perdono. “Maledictus homo qui peccat in spe” [“Maledetto l’uomo che pecca con la speranza”].
La speranza del peccatore dopo il peccato, quando vi è pentimento, è cara a
Dio, ma la speranza degli ostinati è l’abbominio di Dio: “Et spes illorum
abominatio” [“E la loro speranza è
abominio”] (Iob. 11. 20). Una tale speranza irrita Dio a castigare, siccome
[allo stesso modo in cui] irriterebbe il padrone quel servo che l’offendesse,
perché il padrone è buono (cfr. op. cit., Considerazione XVII – Abuso della
divina misericordia, Punto I).
Fonte: S. Alfonso M. de’ Liguori, Apparecchio alla Morte cioè Considerazioni sulle Massime Eterne Utili a tutti per meditare, ed a’ sacerdoti per predicare, in “OPERE ASCETICHE” Vol. IX, CSSR, Roma 1965.
Fonte: S. Alfonso M. de’ Liguori, Apparecchio alla Morte cioè Considerazioni sulle Massime Eterne Utili a tutti per meditare, ed a’ sacerdoti per predicare, in “OPERE ASCETICHE” Vol. IX, CSSR, Roma 1965.
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