Nella
festa di S. Francesco di Sales, vescovo, confessore e Dottore della Chiesa,
rilancio questo contributo del prof. De Mattei, tradotto in inglese da Rorate
caeli.
Lazzaro Baldi, Predica di S. Francesco di Sales, XVII sec., collezione privata |
Carlo Maratta, S. Francesco di Sales in meditazione, 1662 circa |
Carlo Maratta, La Vergine appare a S. Francesco di Sales, 1691 circa, Pinacoteca civica, Bassano del Grappa |
Ubaldo Gandolfi, S. Francesco di Sales consegna le costituzioni a S. Francesca di Chantal, 1769, Chiesa di S. Benedetto, Bologna |
Scuola pratese, S. Francesco di Sales, XVIII sec., museo diocesano, Prato |
Valentin Metzinger, S. Francesco di Sales riceve i voti di S. Giovanna Francesca di Chantal, 1753, Narodna Galerija, Lubiana |
Valentin Metzinger, S. Francesco di Sales in polemica con un calvinista, 1753-55, Narodna Galerija, Lubiana |
Valentin Metzinger, Visione di S. Francesco di Sales, 1753, Narodna Galerija, Lubiana |
Ambito campano, S. Francesco di Sales, XVIII-XIX sec., museo diocesano, Napoli |
Anonimo, S. Francesco di Sales consegna la Regola a S. Francesca de Chantal, XIX sec., Chiesa della Visitazione, Parigi |
Enrico Reffo, S. Francesco mentre scrive ispirato, 1896 |
Giovanni Marchiori, Immacolata tra i SS. Francesco di sales e Giovanni Nepomuceno, Chiesa dei SS. Geremia e Lucia, Venezia |
La penitenza chiesta dal Cielo e odiata dal mondo
di Roberto de Mattei
Se c’è un concetto radicalmente estraneo alla mentalità contemporanea è
quello di penitenza. Il termine e la nozione di penitenza evocano l’idea di una
sofferenza che infliggiamo a noi stessi per espiare colpe proprie o altrui e
per unirci ai meriti della Passione redentrice di Nostro Signore Gesù Cristo.
Il mondo moderno rifiuta il concetto di penitenza perché è immerso
nell’edonismo e perché professa il relativismo che è la negazione di qualsiasi
bene per il quale valga la pena di sacrificarsi, a meno che non sia la ricerca
del piacere. Solo questo può spiegare episodi come il furibondo attacco mediatico
in corso contro le Francescane dell’Immacolata, i cui monasteri vengono dipinti
come luoghi di sevizie, solo perché in essi si è praticata una vita austera e
penitente.
Usare il cilicio o imprimere sul proprio petto il monogramma del nome di
Gesù viene considerato una barbarie, mentre praticare il sadomasochismo o
tatuare indelebilmente il proprio corpo è oggi considerato un diritto
inalienabile della persona. I nemici della Chiesa ripetono con tutta la forza
di cui i media sono capaci le accuse degli anticlericali di tutti i tempi. Ciò
che è nuovo è l’atteggiamento di quelle autorità ecclesiastiche che invece di
prendere le difese delle suore diffamate, le abbandonano, con segreto
compiacimento, al carnefice mediatico. Il compiacimento nasce
dall’incompatibilità che esiste tra le regole a cui queste religiose si
ostinano ad uniformarsi e i nuovi standard imposti dal “cattolicesimo adulto”.
Lo spirito di penitenza appartiene, fin dalle origini alla Chiesa
cattolica, come ci ricordano le figure di san Giovanni Battista e santa Maria
Maddalena, ma oggi anche per molti uomini di Chiesa ogni richiamo alle antiche
pratiche ascetiche è considerato intollerabile. Eppure non v’è dottrina più ragionevole
di quella che stabilisce la necessità della mortificazione della carne.
Se il corpo è in rivolta contro lo spirito (Gal 5, 16-25),
non è forse ragionevole e prudente castigarlo? Nessun uomo è esente dal
peccato, neppure i “cristiani adulti”. Dunque chi espia i propri peccati con la
penitenza non agisce forse secondo un principio tanto logico quanto salutare?
Le penitenze mortificano l’Io, piegano la natura ribelle, riparano ed espiano i
peccati propri ed altrui. Se poi consideriamo le anime amanti di Dio, che
cercano la somiglianza con il Crocifisso, allora la penitenza diviene una
necessità dell’amore.
Sono celebri le pagine del De Laude flagellorum di
san Pier Damiani, il grande riformatore dell’XI secolo, il cui monastero di
Fonte Avellana era caratterizzato da un’estrema austerità nelle regole. «Vorrei subire il martirio per Cristo – egli
scriveva – non ne ho l’occasione; ma sottoponendomi ai
colpi, almeno manifesto la volontà della mia anima ardente» (Epistola VI, 27, 416 c.). Ogni riforma, nella
storia della Chiesa, è avvenuta con l’intento di riparare con le austerità e le
penitenze i mali del tempo.
Nel XVI e XVII secolo, i Minimi di san Francesco di Paola praticano (e
praticheranno fino al 1975) un voto di vita quaresimale che impone loro
l’astensione perpetua non solo di carne, ma di uova, latte e tutti i suoi
derivati; i Recolletti consumano il proprio pasto in terra, mescolano cenere ai
cibi, si allungano davanti alla porta del Refettorio sotto i piedi dei Religiosi
che entrano; i Fatebenefratelli prevedono nelle loro costituzioni di «mangiare in terra, baciare i piedi dei fratelli, subire
riprensioni pubbliche e accusarsi pubblicamente».
Analoghe sono le Regole dei Barnabiti, degli Scolopi, dell’Oratorio di san
Filippo Neri, dei Teatini. Non c’è istituto religioso, come documenta Lukas
Holste, che non preveda nelle proprie costituzioni, la prassi del capitolo
delle colpe, la disciplina più volte la settimana, i digiuni, la diminuzione
delle ore di sonno e di riposo (Codex regularum monasticarum et
canonicarum, (1759) Akademische Druck und Verlaganstalt, Graz 1958).
A queste penitenze “di regola”, i religiosi più ferventi aggiungevano le
cosiddette penitenze “supererogatorie”, lasciate alla discrezione personale. Sant’Alberto
di Gerusalemme, ad esempio, nella Regola scritta per i Carmelitani e confermata
da papa Onorio III nel 1226, dopo aver descritto il genere di vita dell’Ordine
e le relative penitenze da praticare, conclude: «Se qualcuno poi vorrà dare di
più, il Signore stesso al suo ritorno lo ricompenserà».
Benedetto XIV, che era un Papa mite ed equilibrato, affidò la preparazione
del Giubileo del 1750 a due grandi penitenti san Leonardo da Porto Maurizio e
san Paolo della Croce. Fra Diego da Firenze, ci ha lasciato un diario della
missione tenuta in piazza Navona dal 13 al 25 luglio 1759 da san Leonardo da
Porto Maurizio, che con una pesante catena al collo e una corona di spine in
capo si flagellava davanti alla folla gridando: «O penitenza o inferno»
(San Leonardo da Porto Maurizio, Opere complete. Diario di Fra
Diego, Venezia 1868, vol. V, p. 249).
San Paolo della Croce, terminava la sua predicazione infliggendosi dei
colpi così violenti che spesso qualche fedele non resisteva più allo spettacolo
e saltava sul palco, a rischio di essere colpito egli stesso, per arrestargli
il braccio (I processi di beatificazione di canonizzazione di san Paolo della
Croce, Postulazione generale dei PP. Passionisti, I, Roma 1969, p.
493).
La penitenza è stata praticata ininterrottamente per duemila anni dai santi
(canonizzati e non) che – con la loro vita – hanno contribuito a scrivere la
storia della Chiesa, da santa Giovanna di Chantal e santa Veronica Giuliana,
che si incisero sul petto il Cristogramma con il ferro incandescente, a santa
Teresa del Bambin Gesù, che scrive il Credo col suo
sangue, alla fine del libriccino dei Santi Vangeli che porta sempre sul cuore.
Questa generosità non caratterizza solo le monache contemplative. Nel
Novecento due santi diplomatici illuminano la Curia romana: il cardinale Rafael
Merry del Val (1865-1930), segretario di stato di san Pio X e il servo di Dio
mons. Giuseppe Canovai (1904-1942), rappresentante della Santa Sede in
Argentina e in Cile.
Il primo, indossava sotto la porpora cardinalizia, una camicia di crine
intrecciata con piccoli ganci di ferro. Del secondo, autore di una preghiera
scritta col sangue, il cardinale Siri scrive: «le catenelle, i cilizi, i
flagelli orribili a base di lama da barba, le ferite, le cicatrizzazioni
incalzate da supervenienti ferite non sono il principio, ma il termine di un
fuoco interiore; non la causa; ma la eloquente e rivelatrice esplosione di
esso. Si trattava della chiarezza per cui in sé ed in ogni cosa vedeva un
valore per amare Dio e per cui vedeva assicurato nel lancinante sacrificio del
sangue la sincerità d’ogni altra interiore rinuncia» (Commemorazione
per la Positio di beatificazione del 23 marzo 1951).
Fu negli anni Cinquanta del Novecento che le pratiche ascetiche e
spirituali della Chiesa iniziarono a declinare. Il padre Giovanni Battista
Janssens, generale della Compagnia di Gesù (1946-1964), intervenne più di una
volta, per richiamare i propri confratelli allo spirito di sant’Ignazio. Nel
1952 inviò loro una lettera sulla «continua mortificazione»,
in cui si opponeva alle posizioni della nouvelle théologie,
che tendevano a escludere la penitenza riparatrice e quella impetratoria e
scriveva che digiuni, flagelli, cilizi e altre asperità devono restare nascoste
agli uomini secondo la norma di Cristo (Mt 6, 16-18),
ma devono essere insegnate e inculcate ai giovani gesuiti fino al terzo anno di
probazione (Dizionario degli Istituti di Perfezione, vol. VII,
col. 472). Possono cambiare, nei secoli, le forme di penitenza, ma non può
mutare lo spirito, sempre opposto a quello del mondo. Prevedendo l’apostasia
spirituale del secolo XX, la Madonna in persona, a Fatima, richiamò la
necessità della penitenza.
La penitenza non è altro che il rifiuto delle false parole del mondo, la
lotta contro le potenze delle tenebre, che si contendono con quelle angeliche
il dominio delle anime e la mortificazione continua della sensualità e
dell’orgoglio radicati nel più profondo del nostro essere.
Solo accettando questo combattimento contro il mondo, il demonio e la carne
(Ef 6, 10-12), potremmo comprendere il significato
della visione di cui tra un anno celebreremo il centesimo anniversario. I
pastorelli di Fatima videro «al lato sinistro di Nostra
Signora un poco più in alto un Angelo con una spada di fuoco nella mano
sinistra; scintillando emetteva fiamme che sembrava dovessero incendiare il
mondo; ma si spegnevano al contatto dello splendore che Nostra Signora emanava dalla
sua mano destra verso di lui: l’Angelo indicando la terra con la mano destra,
con voce forte disse: Penitenza, Penitenza, Penitenza!».
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