lunedì 29 febbraio 2016
San Pier Damiani, una voce per il nostro tempo
Pochi giorni fa abbiamo celebrato la memoria liturgica
di S. Pier Damiani. Ora, l’attualità dell’insegnamento di quest’insigne Dottore
della Chiesa ci è riproposto da un contributo di Cristina Siccardi, che
volentieri rilanciamo.
San Pier Damiani, una voce per il nostro tempo
di Cristina Siccardi
«Tutto ciò che è presente, passa; resta invece quel che si
avvicina. Come ha ben provveduto chi ti ha lasciato, o mondo malvagio, chi è
morto prima col corpo alla carne che non con la carne al mondo!»,
questi sono alcuni versi dello scritto poetico che san Pier Damiani
(1007-1072), la cui memoria liturgica è stata lo scorso lunedì 21 febbraio,
scrisse per coloro che avessero visitato il suo sepolcro, custodito nella
cattedrale di Faenza.
Ricevette l’ordinazione presbiterale intorno al 1034-1035 e in questo
periodo entrò anche nella vita monastica di Fonte Avellana (Pesaro-Urbino),
eremo fondato dal ravennate san Romualdo, del quale scrisse la biografia. Qui
ebbe modo di farsi apprezzare per le sue capacità di docente e dell’eremo
diverrà priore per 14 anni, dal 1043 al 1057.
Durante il suo priorato si adoperò nell’organizzazione e nella promozione
della vita monastica, stilando anche una fruttuosa Regola. Curò pure
l’ampliamento e la ristrutturazione di edifici esistenti e ne costruì di nuovi,
come il monastero di San Gregorio in Conca (Rimini), l’eremo di Gamogna
sull’Appennino faentino, il monastero di San Bartolomeo in Camporeggiano,
presso Gubbio… e intrattenne un nutrito carteggio con i principali monasteri
del centro d’Italia. Ma la sua azione, in qualità sia di religioso integro, sia
di letterato valente, andò oltre i confini monastici e fu chiamato dai
Pontefici per porsi al loro servizio.
Nella nutrita produzione teologica, canonistica, monastica di Pier Damiani
(trattati, opuscoli, lettere, sermoni) si possono distinguere due centri di
interesse: eremitico-monastico e teologico-ecclesiastico. La Croce è al centro
della sua dottrina: «Non ama Cristo, chi non ama la croce di Cristo»,
affermava (Sermo XVIII, 11) e si qualificava come «Petrus crucis Christi servorum
famulus – Pietro servitore dei servitori della croce di Cristo» (Ep 9, 1) e, ancora, «O beata Croce ti venerano, ti
predicano e ti onorano la fede dei patriarchi, i vaticini dei profeti, il
senato giudicante degli apostoli, l’esercito vittorioso dei martiri e le
schiere di tutti i santi» (Sermo XLVIII, 14).
La Chiesa, di quando in quando, ha necessità di coloro che rimettano ordine
nella sua dimensione umana, perché errori e peccati deturpano il modus operandi ecclesiale.
San Pier Damiani fu assai utile, in questa impresa. La Chiesa, oggi, versa in
uno stato di malattia e di vecchiaia a causa di errori che vengono tollerati e
spesso vezzeggiati.
Quando nel 1989 crollò il muro di Berlino, la Chiesa non seppe riempire i
vuoti ideologici che si erano formati in Europa, come altrove; forse a causa
del suo inverno, dopo le illusioni primaverili del Concilio Vaticano II. E il
vuoto è stato presto colmato da ideologie eredi del nazismo e del comunismo:
pensiamo, per esempio, allo sviluppo derivato dall’eugenetica tedesca
(selezione degli individui attraverso sofisticati studi scientifici, fino ad
arrivare al programma Aktion T4, nome convenzionale con cui viene identificato
il programma nazista di eutanasia). E nonostante la cavalcata del diabolico
pensiero filosofico e scientista sia proseguita, la Chiesa attualmente si trova
non impreparata – in quanto valenti studiosi contemporanei esistono per
contrastarla – ma pavida, indeterminata e svirilizzata. Troppa debole fede?
Troppa corruzione morale? Troppa superficialità e ignoranza? Forse tutto
insieme…
Bussare alla porta del Buon Pastore con la preghiera, per chi crede, è
normale; ma anche bussare alla porta del Papa è doveroso, sia per il clero che
per i fedeli. Bussare per chiedere ascolto e attenzione al Padre della
cattolicità terrena affinché venga accolto il grido da parte di chi non si
arrende alle empietà che oggi vengono perpetrate ai danni degli innocenti: i
bambini, prime vittime dei peccati degli adulti; bambini che spesso non trovano
neppure più rifugio fra le braccia dei propri genitori, latitanti perché
occupati sul lavoro o perché conquistati dai propri divertimenti o perché impegnati
con altre storie sentimentali.
Oggi, con la scienza, si pensa di rimediare o tamponare ogni tipo di
questione umana. In tal modo si crede che le problematiche psicologiche che
sorgono nei minori a causa delle lacerazioni familiari, possano essere risolte
attraverso la psicologia o la psichiatria, senza andare alla radice dei problemi,
ovvero il padre sia padre e la madre sia madre. Ahimé (come si diceva un tempo)
abbiamo non urgente necessità di psicoanalisti, ma di timor di Dio e di piscatores.
L’espressione sancta simplicitas, nel linguaggio
di Pier Damiani, designa il coraggio e la forza d’animo propria dei piscatores, uomini che partecipano con salda convinzione
alla fede. E proprio a loro si riferisce come modello di virtù nel De sancta semplicitate, lettera indirizzata a un monaco
di nome Ariprando. La sete di scienza è per san Pier Damiani, una forma di
idolatria, che distoglie l’uomo dal vero bene, che è la contemplazione di Dio.
Egli affronta così il tema della vana curiositas: il
mondo, egli sostiene, è solo la manifestazione di Dio, una teofania, pertanto
indagare troppo il creato è pericoloso poiché la «cupidigia del sapere»
è paragonata ad una tentazione diabolica.
Errori, corruzione, superbia… i peccati di sempre c’erano pure allora e si
chiamavano simonia, nicolaismo (non rispetto del celibato ecclesiastico),
rilassatezza dei costumi religiosi ed egli non temeva di denunciare lo stato di
corruzione esistente nei monasteri e tra il clero. Con il pontificato di Leone
IX si estese il suo orizzonte d’azione riformatrice e la sua collaborazione
proseguì con i successivi papati di Stefano IX, Niccolò II e Alessandro II.
Stefano IX lo nominò Cardinale e Vescovo di Ostia, ovvero uno dei sette
cardinali vescovi suburbicari a più stretto contatto con il Pontefice.
Determinante e benefico fu il suo operato. Fu presente ai sinodi romani del
1047, 1049, 1050, 1051, 1053. Nel 1049 compose il Liber Gomorrhianus (ricordiamo che è recente la
sua pubblicazione, con una introduzione del Professor Roberto de Mattei e la
traduzione di Gianandrea de Antonellis, ed è possibile acquistarlo: http://letture.corrispondenzaromana.it/libro/liber-gomorrhianus/)
sui peccati contro natura, un trattato di pregnante rilievo contemporaneo che
fu necessario scrivere all’epoca poiché la società era da essi devastata. Non
solo il Dottore della Chiesa si rivolse ai sacerdoti e ai religiosi, ma anche
ai Vescovi, responsabili di non aver imposto il rispetto della disciplina
ecclesiastica e aver tralasciato ogni intervento correttivo fra i disordini
morali, quali la sodomia.
Anche la Chiesa odierna dovrà, prima o poi, piegarsi umilmente agli
insegnamenti divini e pronunciarsi con fermezza sull’antico male che grida
vendetta al cospetto di Dio, perché, come scrive il santo di Ravenna, «Se questo vizio assolutamente ignominioso e abominevole non sarà
immediatamente fermato con un pugno di ferro, la spada della collera divina
calerà su di noi, portando molti alla rovina».
domenica 28 febbraio 2016
giovedì 25 febbraio 2016
mercoledì 24 febbraio 2016
martedì 23 febbraio 2016
“Cardinalátu et episcopáli dignitáte depósitis, nihil de prístina juvándi próximos sedulitáte remísit. Jejúnium sextæ fériæ in honórem sanctæ Crucis Jesu Christi, horárias beátæ Dei Genitrícis preces, ejúsque die Sábbato cultum propagávit. Inferéndæ quoque sibi verberatiónis morem ad patratórum scélerum expiatiónem provéxit” (Lect. VI – II Noct.) - SANCTI PETRI DAMIANI, S.R.E. CARDINALIS EPISCOPI OSTIENSIS, CONFESSORIS ET ECCLESIÆ DOCTORIS
Questo
santo vescovo di Ostia, austero riformatore dei costumi cristiani e precursore
di san Gregorio VII, nato nel 1007, figlio intrepido e gloria dell’Ordine di
san Benedetto, che, nell’XI sec. – periodo molto agitato da antipapi,
eresiarchi e da un doloroso indebolimento dello spirito ecclesiastico – fu come
una colonna di fuoco indicante ai fedeli la via stretta della Croce di Cristo,
che conduce sicuramente al Cielo, passò al Signore il 22 febbraio 1072.
A causa
della festa della Cattedra di san Pietro, è oggi soltanto che si celebra la sua
commemorazione annuale. Leone XII, nel 1823, lo proclamò Dottore della Chiesa
e, nello stesso anno, estese il suo ufficio – prima in uso soltanto presso i
monaci benedettini – alla Chiesa universale fissandone odiernamente la festa
annuale.
Roma
cristiana gli ha dedicato una chiesa, nella piazza omonima, nella zona Acilia
sud, nel 1970, poi riconsacrata nel 2002. Essa è titolo cardinalizio (diaconia)
dal 1973, San Pier Damiani ai Monti di San Paolo.
La messa è
quella del Comune dei dottori In médio, come il 29 gennaio, ma la
prima colletta è propria e ricorda la rinuncia di san Pier Damiani alle insegne
cardinalizie ed all’episcopato di Ostia.
Di
quest’insigne Dottore della Chiesa ricordavamo il celebre Liber
Gomorrhianus, vero manifesto cattolico sul tema dell’omosessualità, nel
quale si confutava ante litteram il noto motto, per nulla
cattolico e contrario alla salvezza delle anime, “chi sono io per giudicare”,
oggi, ahimé, molto in auge, assieme alle altre omoeresie, presso le corti
ecclesiastiche. In quel testo, si suggeriva, tra l'altro, che tutti gli
ecclesiastici, colpevoli di qualsiasi atto omosessuale, dovessero essere
immediatamente degradati, a qualunque grado essi fossero
appartenuti. Una misura che se oggi fosse stata applicata, avrebbe
evitato alla Chiesa innumerevoli scandali … . Tale opera era la manifestazione
profonda, infatti, di un uomo genuinamente interessato a muovere le anime al
pentimento e alla speranza, giacché l’Autore si diceva consapevole di suscitare
sgomento e rammarico nel lettore. Ma sempre per il suo bene. Il Santo non
temeva «gli odi dei cattivi o le lingue dei detrattori»; egli aveva solamente
cercato di esprimere, con tutta la cura possibile, l’entusiasmo dettatogli dal
Giudice Supremo, che sentiva dentro di sé. E chi ama - si sa - sa pure
correggere, somministrando una medicina sì amara, ma che salva la vita, cioè la
vita vera, quella eterna, oggi tenuta in alcun conto.
Ercole de' Roberti, Pala di Santa Maria in Porto, ovvero Vergine col Bambino tra le SS. Anna ed Elisabetta, nonché tra i SS. Agostino e Pier Damiani, 1479-81 circa, Pinacoteca di Brera, Milano |
Maestro di S. Pier Damiani, S. Pier Damiani, 1430 circa, Pinacoteca comunale, Ravenna |
Giuseppe Santini, S. Pier Damiani, 1666, museo diocesano, Arezzo |
Ambito romagnolo, S. Pier Damiani, XVII sec., museo diocesano, Ravenna |
Ambito veneto, S. Pier Damiani, XVIII sec., museo diocesano, Verona |
Autore ravennat, S. Pier Damiani, 1725-49, Biblioteca Classense, Ravenna |
Pietro da Cortona, S. Pier Damiani offre alla Vergine che gli appare il libro della regola, 1629 circa, collezione privata |
Urna col corpo di S. Pier Damiani, Cattedrale, Faenza |
lunedì 22 febbraio 2016
Un brano evangelico misterioso ed il Nome di Dio celato nel Titulus Crucis
Oggi,
lunedì della II settimana di Quaresima, viene letto – nella Messa tradizionale –
quale brano evangelico una lezione tratta dal Vangelo di Giovanni, 8, 21-29.
Si
tratta di uno strano testo, che riferisce le parole di Gesù: «Quando avrete
innalzato il Figlio dell’uomo, allora saprete che Io Sono, Ἐγώ εἰμί» (Gv. 8, 28). Parole misteriose. Molti hanno
dato a queste un significato puramente teologico, quasi a voler dire che il
Signore, con quelle parole, pur esprimendo la maestà della Divinità e la sua
origine ed inseparabilità dal Padre, indicasse che molti sarebbero giunti alla
fede mediante la sua passione e morte.
Certo,
il testo in questione si muove in un contesto di fede. Ma non ci si è interrogati a
sufficienza se quelle parole non siano in realtà una profezia di ciò che
sarebbe accaduto.
Che
intendiamo dire?
Almeno
un decennio fa è stata avanzata l’ipotesi, tutt’altro che peregrina, che il
famoso Titulus Crucis, che recava il motivo della condanna a morte di
Gesù, nella sua parte ebraica, ישוע הנצרי ומלך היהודים (Jeshu[a’] HaNozri WeMelek HaJehudim),
Gesù Nazareno e re dei Giudei (con l’inserimento obbligatorio, per
ragioni grammaticali, di una congiunzione e), fosse l’acronimo del nome
impronunciabile di Dio, Jahwé (JHWH), il famoso tetragramma (יהוה). Per cui, Pilato, forse inconsapevolmente o meglio guidato ed
ispirato da Dio, aveva sancito legalmente, cioè in un titolo legale qual era il titulus, che recava il motivo
della condanna, la Divinità di quell’Uomo che era appeso alla Croce. Ciò spiegherebbe
la reazione stizzita dei sommi sacerdoti (evidentemente Anna e Caifa), come scrive l’attento Giovanni: «I sommi
sacerdoti dei Giudei dissero allora a Pilato: “Non scrivere: il re dei Giudei,
ma che egli ha detto: Io sono il re dei Giudei”» (Gv. 19, 21). E non a caso i
sommi sacerdoti, in quanto il nome di Dio, all’epoca di Gesù, era noto solo al
sommo sacerdote, che, una volta l’anno, nel giorno dell’Espiazione, Yom Kippur
o Yom haKippurim, accedeva nel Santo dei Santi del Tempio, pronunciando,
lontano da orecchie indiscrete, dieci volte, il nome dell’Eterno (essendo solo a
lui note, per rivelazione divina, le vocali), sebbene la Mishna dica
enfaticamente che la voce del gran sacerdote risuonasse sino a Gerico quando
pronunciava il Nome nel giorno delle Espiazioni. Peraltro, probabilmente, lo pronunciava alzando le mani al di sopra
dello ziz, cioè al di sopra del suo diadema, come prescritto dal Levitico (Lv. 9,
22).
Pilato rimase provvidenzialmente fermo nella sua decisione: Quod scripsi, scripsi (Gv. 19, 22).
Pilato rimase provvidenzialmente fermo nella sua decisione: Quod scripsi, scripsi (Gv. 19, 22).
Proprio
sulla Croce, dunque, abbiamo l’attestazione, il titolo legale della divinità di
Cristo, accertata e sancita con i crismi della legge e secondo diritto dall’autorità giudiziaria
romana.
Ecco
realizzate quelle misteriose parole profetizzate dal Cristo: «Quando avrete
innalzato il Figlio dell’uomo, allora saprete che Io Sono»!
Tralasciando
la questione circa l’espressione Nazareno o Nazireo, che è stata
approfondita dalla studiosa Maria Luisa Rigato, che, in ogni caso, non sposta
molto i termini del tema che stiamo affrontando, e dando per buona la tradizionale
espressione di Nazareno, si potrebbe obiettare che il risentimento dei
sommi sacerdoti fosse dovuto al fatto che Pilato, che odiava il popolo giudaico,
avesse voluto con quella scritta, accostando “Nazareno” ai “giudei”, prendersi
gioco ed irridere quegli uomini, che detestavano i galilei perché colpevoli di
essersi contaminati con i gentili e ritenuti perciò, dagli abitanti della Giudea, come burini e contadini bifolchi ed ignoranti, che avevano una parlata
assai caratteristica e buffa (i galilei si “mangiavano” le vocali, facendo
cadere le consonanti ed avevano una pronuncia delle gutturali abbastanza
ruvida, non liscia come i giudei) e dalle cui terre provenivano spesso
demagoghi e sobillatori (si pensi al caso di Giuda il Galileo, fondatore della
setta degli zeloti, a cui accenna Gamaliele: At. 5, 37). Per questo, non potevano
accettare che dalla Galilea potesse provenire il Messia: «Da Nàzaret può venire
qualcosa di buono?», domandava Natanaele/Bartolomeo a Filippo di Betsaida (Gv.
1, 46). Figuriamoci addirittura un Re dei giudei!
Questa spiegazione, tuttavia, sebbene possa
apparire credibile guardando con gli occhi di un Pilato, il quale probabilmente
approfittò dell’occasione per arrecare uno sfregio ai giudei, tuttavia non
appare pienamente soddisfacente se si guarda alla vicenda con gli occhi dell’Evangelista
Giovanni. Egli annota che chi chiese a Pilato di modificare la scritta non fu
il popolo giudaico, che, in fondo, era abituato a questi tiri del Procuratore
(«Molti Giudei lessero questa iscrizione, perché il luogo dove fu crocifisso
Gesù era vicino alla città; …»: Gv. 19, 20). L’Evangelista, in maniera attenta,
non annota particolari reazioni da parte dei lettori giudei appartenenti al
popolo. Al contrario, furono i sommi sacerdoti a reagire: non l’intera classe
sacerdotale dunque, ma solo i sommi sacerdoti. E ben a ragione, visto che il nome
di Dio era noto solo a loro. Del resto, si dimentica talora che la classe sadducea
– da cui provenivano i sommi sacerdoti – era sostanzialmente collaborazionista
e piuttosto ossequiosa verso il Procuratore. Per cui, non v’era motivo di
scomodarlo nuovamente, dopo aver ottenuto la condanna di quel Malfattore, per
…. il motivo della condanna. Non v’era ragione se non vi avessero visto nulla
che toccasse la loro fede così nel profondo: il Nome di Dio appunto. Per i
sommi sacerdoti significava che, alla vigilia della loro Pasqua, era stato
crocifisso dall’autorità romana, ma su loro richiesta, un Uomo il cui nome era
Yahwé, il loro Dio. Si realizzava così pure la prescrizione di Es. 28, 36-38, dove
si dice che il Kohèn Gadòl (Sommo Sacerdote) recava inciso sul
diadema d’oro, che portava sulla fronte, detto ziz, il nome di Dio (Qodesh
le JHWH, cioè Santo a JHWH), per prendere su di sé le
colpe commesse dai figli d’Israele e, per loro, ricevere la grazia, il favore
di YHWH. Gesù, dunque, era davvero il nuovo Sommo Sacerdote della Nuova ed
Eterna Alleanza (Eb 2,17; 3,1; 4,14.15; 5,1.6; ecc.), che, quale
Servo di JHWH, secondo Isaia, doveva portare i peccati di molti (Is. 53,
11-12).
In sintesi:
Gesù
il Nazareno Re dei Giudei:
(Latino) - Jesus
Nazarenus Rex Iudaeorum – INRI
(Greco)
- Ἰησοῦς ὁ Ναζωραῖος ὁ βασιλεὺς τῶν Ἰουδαίων -ἸηΝβο (INBI)
(Ebraico) - יהוה - ישוע
הנוצרי ומלך היהודים
(YHWH)
Per riferimenti, Daniele di Luciano, Sopra la croce di Gesù non era scritto solo INRI. Ecco il vero significato dell’iscrizione ebraica, in Il Timone, 5.2.2016, nonché in Chiesa e postconcilio, 4.2.2016;
Per riferimenti, Daniele di Luciano, Sopra la croce di Gesù non era scritto solo INRI. Ecco il vero significato dell’iscrizione ebraica, in Il Timone, 5.2.2016, nonché in Chiesa e postconcilio, 4.2.2016;
don Curzio Nitoglia, Iesus Nazarenus Rex Iudaeorum, ossia JHWH,
in blog don Curzio Nitoglia, 25.2.2016, nonché in Radiospada, 7.4.2020;
Ermes Dovico, Non solo INRI. Cosa c’era scritto sulla Croce, in LNBQ, 10.4.2020.
domenica 21 febbraio 2016
Un santo patrono per la conversione dei musulmani. Una riflessione apologetica anticonformista ....
«Damásci
sancti Petri Maviméni, qui, cum díceret Arábibus quibúsdam, ad se ægrótum
veniéntibus: “Omnis qui fidem Christiánam cathólicam non ampléctitur, damnátus
est, sicut et Máhumet, pseudoprophéta vester,” ab illis est necátus»; «A
Damàsco san Piétro di Maiùma, il quale, avendo detto ad alcuni Arabi, che erano
andati da lui mentre era infermo: “Chiunque non abbraccia la fede cristiana
cattolica è dannato, come anche il vostro falso profeta Maométto”, fu da essi
ammazzato». Così, oggi, 21 febbraio, commemora il Martirologio romano. Un Santo, insomma, ben lontano dal modello “dialogogista” ed “ecumenista”, che considera
l’islam “religione di pace”. Al contrario, un Santo che sarebbe oggi di
scandalo per i conformisti-pacifinti; un Santo davvero anticonformista rispetto
al pensiero dominante del nostro tempo. Ieri il mondo – almeno in Italia – ha tessuto
onorificenze sperticate in morte dello scrittore Umberto Eco, che coerentemente
con le sue idee avrà un “funerale laico” (ovvero un “non funerale”); uno
scrittore, il quale, come ricorda un editoriale de Il Messaggero, a firma
di Mario Ajello, era anticonformista su tutto e sempre; ma sempre, parimenti,
conformista sul pensiero dominante, cioè sempre allineato su quelle cose per le
quali non c’è un prezzo da pagare, perché sono gratis, sono politicamente (e, perché no?, pure religiosamente e culturalmente) corrette, ed il mondo desidera sentirsi dire (cfr. M. Ajello, Umberto Eco/ Originale in
tutto, ma in politica seguiva il pensiero dominante, in Il Messaggero, 20.2.2016); oggi la Chiesa propone, al contrario, la figura di un vero anticonformista
(beninteso: anticonformista rispetto al pensiero d’oggi, che è quello
maggiormente lontano da Cristo), che ha pagato un prezzo: la sua stessa vita.
Strano gioco del destino; strana coincidenza. O forse no. Non esistono le coincidenze.
In filigrana, la Chiesa sembra, dunque, quasi affermare che il vero anticonformismo
sta non già in ciò che è allineato al pensiero dominante, al pacifismo buonista,
lontano dalla Verità, bensì sta in tutto ciò che ha un alto prezzo, vita compresa,
che in ultima analisi non sarebbe altro che la Verità di Cristo stesso.
Nella
memoria, dunque, del summenzionato Santo “anticonformista” e controcorrente
rispetto al pensiero d’oggi, rilanciamo volentieri questo saggio – in inglese.
Francisco Domingo Marqués, Il beato Giovanni de Ribera, viceré e vescovo di Valencia, supervisiona l'espulsione dei Mori, 1864, Museu de Belles Arts de València, Valencia |
Tomorrow in Her Martyrology the Church commemorates the
martyrdom of Saint Peter Mavimeno at Damascus in the year 743. Some Arabs came
to see him while he was ill, and to them he said, ”Whoever does not
embrace the Catholic Christian religion will be damned, as your false prophet Mohammed
is,” whereupon they killed him.
“There is also the superstition of the Ishmaelites which
to this day prevails and keeps people in error, being a forerunner of the
Antichrist…. From that time to the present a false prophet named Mohammed has
appeared in their midst. This man, after having chanced upon the Old and New Testaments
and likewise, it seems, having conversed with an Arian monk, devised his own heresy.
Then, having insinuated himself into the good graces of the people by a show of
seeming piety, he gave out that a certain book had been sent down to him from
heaven. He had set down some ridiculous compositions in this book of his and he
gave it to them as an object of veneration.”
-St. John Damascene (d. 749), Syrian Arab Catholic monk
and scholar. Quoted from his bookOn Heresies under the section On the Heresy of
the Ishmaelites (in The Fathers of the Church. Vol. 37. Translated by the
Catholic University of America. CUA Press. 1958. Pages 153-160.)
“We profess Christ to be truly God and your prophet to be
a precursor of the Antichrist and other profane doctrine.”
-Sts. Habenitus, Jeremiah, Peter, Sabinian, Walabonsus,
and Wistremundus (d. 851), martyrs of Cordoba, Spain. Reported in the Memoriale
Sanctorum in response to Spanish Umayyad Caliph ‘Abd Ar-Rahman II’s ministers
that they convert to Islam on pain of death.
“Any cult which denies the divinity of Christ, does not
profess the existence of the Holy Trinity, refutes baptism, defames Christians,
and derogates the priesthood, we consider to be damned.”
-Sts. Aurelius, Felix, George, Liliosa, and Natalia (d.
852), martyrs of Cordoba, Spain. Reported in the Memoriale Sanctorum in
response to Spanish Umayyad Caliph ‘Abd Ar-Rahman II’s ministers that they
convert to Islam on pain of death.
“On the other hand, those who founded sects committed to
erroneous doctrines proceeded in a way that is opposite to this, the point is
clear in the case of Muhammad. He seduced the people by promises of carnal
pleasure to which the concupiscence of the flesh goads us. His teaching also
contained precepts that were in conformity with his promises, and he gave free
rein to carnal pleasure. In all this, as is not unexpected, he was obeyed by
carnal men. As for proofs of the truth of his doctrine, he brought forward only
such as could be grasped by the natural ability of anyone with a very modest
wisdom. Indeed, the truths that he taught he mingled with many fables and with
doctrines of the greatest falsity. He did not bring forth any signs produced in
a supernatural way, which alone fittingly gives witness to divine inspiration;
for a visible action that can be only divine reveals an invisibly inspired
teacher of truth. On the contrary, Muhammad said that he was sent in the power
of his arms—which are signs not lacking even to robbers and tyrants.”
-St. Thomas Aquinas (d. 1274), Theologian and Doctor of
the Church. Quoted from his De Rationibus Fidei Contra Saracenos, Graecos, et
Armenos and translated from Fr. Damian Fehlner’s Aquinas on Reasons for the
Faith: Against the Muslims, Greeks, and Armenians(Franciscans of the Immaculate.
2002.).
“As we have seen, Muhammed had neither supernatural
miracles nor natural motives of reason to persuade those of his sect. As he
lacked in everything, he took to bestial and barbaric means, which is the force
of arms. Thus he introduced and promulgated his message with robberies, murders,
and bloodshedding, destroying those who did not want to receive it, and with
the same means his ministers conserve this today, until God placates his anger
and destroys this pestilence from the earth...
“(Muhammad) can also be figured for the dragon in the
same Apocalypse which says that the dragon swept up a third of the stars and
hurled down a third to earth. Although this line is more appropriately
understood concerning the Antichrist, Mohammed was his precursor – the prophet
of Satan, father of the sons of haughtiness...
“Even if all the things contained in his law were fables
in philosophy and errors in theology, even for those who do not possess the
light of reason, the very manners (Islam) teaches are from a school of vicious
bestialities. (Muhammad) did not prove his new sect with any motive, having
neither supernatural miracles nor natural reasons, but solely the force of
arms, violence, fictions, lies, and carnal license. It remains an impious,
blasphemous, vicious cult, an innovention of the devil, and the direct way into
the fires of hell. It does not even merit the name of being called a religion.”
-St. Juan de Ribera (d.1611), Archbishop of Valencia, missionary
to Spanish Muslims, and organizer of the Muslim expulsions of 1609 from Spain. Quoted in several locations from
his 1599 Catechismo para la Instruccion de los Nuevos Convertidos de los Moros (1P5 translation).
“The Mahometan paradise, however, is only fit for beasts;
for filthy sensual pleasure is all the believer has to expect there.”
St. Alfonsus Liguori (d. 1787). Quoted from his book, The
History of Heresies and their Refutation.
sabato 20 febbraio 2016
Per ricordare chi era lo scrittore Umberto Eco ed in cosa credeva ......un aforisma tratto da una sua opera
Cfr. Quando Padre Sommavilla smascherò il nichilismo empio di Umberto Eco (che ora Dio l'accolga in Cielo), in Il Timone, 20.2.2016; Costanzo Preve, La filosofia, la teologia e la volgarità arrogante di Umberto Eco, in Arianna editrice, 28.9.2011.
venerdì 19 febbraio 2016
Un incontro storico tra l'Antica Roma e la "Terza Roma"? Il punto di vista dello storico prof. De Mattei
Abbiamo già avuto modo di offrire il nostro punto di
vista, in una presentazione semiseria (o forse più seria di quanto si creda), dello “storico” incontro tra il vescovo
di Roma ed il patriarca della Terza Roma (v. qui). Molti i commenti
susseguitisi. Alcuni, al di là delle tinte eminentemente politiche (v. anche le dichiarazioni del patriarca Kirill), hanno posto
in rilievo come lo stesso entourage ed i laudatores del vescovo di Roma
tentino di “smorzare” la portata dell’incontro (v. Giuseppe Rusconi, Dichiarazione Kirill-Francesco:
quanto vale la firma del papa?, in Rossoporpora, 15.2.2016, nonché in Chiesa e postconcilio, 16.2.2016. Cfr. pure ivi); altri hanno evidenziato il rammarico della Chiesa cattolica ucraina (cfr. La protesta dei cattolici ucraini: L'arcivescovo di Kiev dà voce all'amarezza dei suoi fedeli, ivi, 17.2.2016); altri ancora, infine, hanno tenuto a sottolineare come, nonostante alcune affermazioni decisamente
cattoliche contenute nella dichiarazione comune, di un cattolicesimo che forse
non siamo più abituati a sentire (v. Ortodossi più....ortodossi dei cattolici?, in MiL, 20.2.2016), la c.d. ortodossia ha, tuttavia, profonde differenze,
non solo liturgiche e disciplinari, con la Chiesa cattolica (cfr. Corrado Gnerre, Cattolicesimo e
ortodossia: lo stesso cristianesimo?, in Civiltà cristiana, 15.2.2016).
Nel seguente contributo, offriamo il punto di vista
del prof. De Mattei. L’articolo, già rilanciato anche da Chiesa e postconcilio, è tradotto in inglese dall’immancabile Rorate caeli.
Lo “storico” incontro tra Francesco e Kirill
di Roberto de Mattei
Tra i tanti successi attribuiti dai mass-media a papa Francesco, c’è quello
dello “storico incontro”, avvenuto il 12 febbraio a L’Avana, con il patriarca
di Mosca Kirill. Un avvenimento, si è scritto, che ha visto cadere il muro che
da mille anni divideva la Chiesa di Roma da quella di Oriente.
L’importanza dell’incontro, secondo le parole dello stesso Francesco, non
sta nel documento, di carattere meramente “pastorale”, ma nel fatto di una
convergenza verso una meta comune, non politica o morale, ma religiosa. Al
Magistero tradizionale della Chiesa, espresso da documenti, papa Francesco
sembra dunque voler sostituire un neo-magistero, veicolato da eventi simbolici.
Il messaggio che il Papa intende dare è quello di una svolta nella storia della
Chiesa. Ma è proprio dalla storia della Chiesa che occorre partire per
comprendere il significato dell’avvenimento. Le inesattezze storiche sono
infatti molte e vanno corrette perché è proprio sui falsi storici che spesso si
costruiscono le deviazioni dottrinali.
Innanzitutto non è vero che mille anni di storia dividono la Chiesa di Roma
dal Patriarcato di Mosca, visto che questo è nato solo nel 1589. Nei cinque
secoli precedenti, e prima ancora, l’interlocutore orientale di Roma era il
Patriarcato di Costantinopoli. Nel corso del Concilio Vaticano II, il 6 gennaio
1964, Paolo VI incontrò a Gerusalemme il patriarca Atenagora per avviare un
“dialogo ecumenico” tra il mondo cattolico e il mondo ortodosso. Questo dialogo
non è riuscito ad andare avanti a causa della millenaria opposizione degli
ortodossi al Primato di Roma. Lo stesso Paolo VI lo ammise in un discorso al
Segretariato dell’Unità per i cristiani del 28 aprile 1967, affermando: «Il Papa, noi lo sappiamo bene, è senza dubbio l’ostacolo più
grande sul cammino dell’ecumenismo» (Paolo VI, Insegnamenti, VI, pp. 192-193).
Il patriarcato di Costantinopoli costituiva una delle cinque sedi
principali della cristianità stabilite dal Concilio di Calcedonia del 451. I
patriarchi bizantini sostenevano però che dopo la caduta dell’Impero romano,
Costantinopoli, sede del rinato Impero romano d’Oriente, sarebbe dovuta
divenire la “capitale” religiosa del mondo. Il canone 28 del Concilio di
Calcedonia, abrogato da san Leone Magno, contiene in germe tutto lo scisma
bizantino, perché attribuisce alla supremazia del Romano Pontefice un
fondamento politico e non divino. Per questo nel 515, papa Ormisda (514-523)
fece sottoscrivere ai vescovi orientali una Formula di Unione,
con cui essi riconoscevano la loro sottomissione alla Cattedra di Pietro
(Denz-H, n. 363).
Tra il V e il X secolo, mentre in Occidente si affermava la distinzione tra
l’autorità spirituale e il potere temporale, in Oriente nasceva intanto il
cosiddetto “cesaropapismo”, in cui la Chiesa viene di fatto subordinata all’Imperatore
che se ne ritiene il capo, in quanto delegato di Dio, sia nel campo
ecclesiastico che in quello secolare. I patriarchi di Costantinopoli erano di
fatto ridotti a funzionari dell’Impero bizantino e continuavano ad alimentare
un’avversione radicale per la Chiesa di Roma.
Dopo una prima rottura, provocata dal patriarca Fozio nel IX secolo, lo
scisma ufficiale avvenne il 16 luglio 1054, quando il patriarca Michele
Cerulario dichiarò Roma caduta nell’eresia per motivo del “Filioque” ed altri pretesti. I legati romani deposero
allora contro di lui la sentenza di scomunica sull’altare della chiesa di Santa
Sofia a Costantinopoli. I principi di Kiev e di Mosca, convertiti al
Cristianesimo nel 988 da san Vladimiro, seguirono nello scisma i patriarchi di Costantinopoli,
di cui riconoscevano la giurisdizione religiosa. Le discordie sembravano
insormontabili ma un fatto straordinario avvenne il 6 luglio 1439 nella
cattedrale fiorentina di Santa Maria del Fiore, quando il Papa Eugenio IV,
annunciò solennemente, con la bollaLaetentur Coeli (“che
i cieli si rallegrino”), l’avvenuta ricomposizione dello scisma fra le Chiese
di Oriente e di Occidente.
Nel corso del Concilio di Firenze (1439), al quale avevano partecipato
l’imperatore d’Oriente Giovanni VIII Paleologo e il patriarca di Costantinopoli
Giuseppe II, si era trovato l’accordo su tutti i problemi, dal Filioque al Primato Romano. La Bolla pontificia si
concludeva con questa solenne definizione dogmatica, sottoscritta dai Padri
greci: «Definiamo che la santa Sede apostolica e il Romano pontefice hanno
il primato su tutto l’universo; che lo stesso Romano pontefice è il successore
del beato Pietro principe degli apostoli, è autentico vicario di Cristo, capo
di tutta la Chiesa, padre e dottore di tutti i cristiani; che Nostro Signore
Gesù Cristo ha trasmesso a lui, nella persona del beato Pietro, il pieno potere
di pascere, reggere e governare la Chiesa universale, come è attestato anche
negli atti dei concili ecumenici e nei sacri canoni» (Conciliorum Oecumenicorum Decreta, Centro Editoriale
Dehoniano, Bologna 2013, pp. 523-528).
Fu questo l’unico vero storico abbraccio tra le due chiese nel corso
dell’ultimo millennio. Tra i più attivi partecipanti al Concilio di Firenze,
c’era il metropolita di Kiev e di tutta la Russia, Isidoro. Appena tornato a
Mosca egli diede pubblico annuncio della avvenuta riconciliazione sotto
l’autorità del Romano pontefice, ma il principe di Mosca, Vasilij il Cieco, lo
dichiarò eretico e lo sostituì con un vescovo a lui sottomesso. Questo gesto
segnò l’inizio dell’autocefalia della chiesa moscovita, indipendente non solo
da Roma ma anche da Costantinopoli. Poco dopo, nel 1453, l’Impero bizantino fu
conquistato dai Turchi e travolse nel suo crollo il patriarcato di
Costantinopoli. Nacque allora l’idea che Mosca dovesse raccogliere l’eredità di
Bisanzio e divenire il nuovo centro della Chiesa cristiana ortodossa. Dopo il
matrimonio con Zoe Paleologo, nipote dell’ultimo Imperatore d’Oriente, il
Principe di Mosca Ivan III si diede il titolo di Zar e introdusse il simbolo
dell’aquila bicefala. Nel 1589 fu costituito il Patriarcato di Mosca e di tutta
la Russia. I Russi diventavano i nuovi difensori dell’“ortodossia”, annunciando
l’avvento di una “Terza Roma”, dopo quella cattolica e quella bizantina.
Di fronte a questi eventi, i vescovi di quella zona che allora si chiamava
Rutenia e che oggi corrisponde all’Ucraina, e a una parte della Bielorussia, si
riunirono, nell’ottobre 1596, nel Sinodo di Brest e proclamarono l’unione con
la sede romana. Essi sono conosciuti come, Uniati, a motivo
della loro unione con Roma, o Greco-cattolici,
perché, pur sottomettendosi al Primato romano, conservavano la liturgia bizantina.
Gli zar russi intrapresero una persecuzione sistematica della Chiesa uniate
che, tra i tanti martiri, annoverò il monaco Giovanni (Giosafat) Kuncevitz
(1580-1623), arcivescovo di Polotzk, e il gesuita Andrea Bobola (1592-1657),
apostolo della Lituania. Entrambi furono torturati e uccisi in odio alla fede
cattolica e oggi sono venerati come santi. La persecuzione si fece ancora più
aspra sotto l’impero sovietico. Il cardinale Josyp Slipyj (1892-1984),
deportato per 18 anni nei lager comunisti, fu l’ultimo intrepido difensore
della Chiesa cattolica ucraina.
Oggi gli Uniati costituiscono il più numeroso gruppo di cattolici di rito
orientale e costituiscono una testimonianza vivente dell’universalità della
Chiesa cattolica. È ingeneroso affermare, come fa il documento di Francesco e
Kirill, che il «metodo dell’uniatismo», inteso «come unione di una comunità all’altra, staccandola dalla sua
Chiesa», «non è un modo che permette di ristabilire
l’unità» e che «non si può quindi accettare
l’uso di mezzi sleali per incitare i credenti a passare da una Chiesa ad
un’altra, negando la loro libertà religiosa o le loro tradizioni».
Il prezzo che papa Francesco ha dovuto pagare per queste parole richieste
da Kirill è molto alto: l’accusa di “tradimento” che ora gli viene rivolta dai
cattolici uniati, da sempre fedelissimi a Roma. Ma l’incontro di Francesco con
il patriarca di Mosca va ben oltre quello di Paolo VI con Atenagora.
L’abbraccio a Kirill tende soprattutto ad accogliere il principio ortodosso
della sinodalità, necessario per “democratizzare” la Chiesa romana. Per quanto
riguarda non la struttura della Chiesa, ma la sostanza della sua fede, l’evento
simbolico più importante dell’anno sarà forse la commemorazione da parte di
Francesco dei 500 anni della Rivoluzione protestante, prevista per il prossimo
ottobre a Lund, in Svezia.
Un maestro per la Quaresima e per i nostri tempi: S. Alfonso Maria de' Liguori
In questo venerdì delle Quattro Tempora di Quaresima,
nel quale si fa particolare memoria della lancia e dei chiodi di N.S.G. Cristo
rilancio questo contributo su S. Alfonso M. de’ Liguori di Cristina Siccardi.
Carlo Saraceni, Ostensione del Sacro Chiodo da parte di San Carlo Borromeo, 1610-20 circa, Chiesa di San Lorenzo in Lucina, Roma |
Giovanni Baglione, S. Carlo in preghiera dinanzi al Sacro Chiodo invoca la cessazione della peste, XVII sec., Chiesa di S. Pietro, Pogno |
Gian Battista della Rovere detto Il Fiammenghino, Processione di S. Carlo del Sacro Chiodo durante la peste, 1602, Duomo, Milano |
Reliquia del Sacro Chiodo, Duomo, Milano. La reliquia è oggetto a Milano, in occasione della festa dell'Esaltazione della Santa Croce, del c.d. rito della Nivola. Cfr. anche Gregory Di Pippo, A Relic of the Passion in Milan Cathedral, in New Liturgical Movement, Sept. 10th, 2015 |
Sant’Alfonso, un grande maestro per il nostro tempo
di Cristina Siccardi
Il tempo di Quaresima è quello in cui le persone dovrebbero profittare con
maggior determinazione per ordinare gli scompigli della propria anima. Viviamo
immersi in una cultura di massa dove peccati e tentazioni non solo vengono
considerati leciti, ma sono sponsorizzati continuamente e sono considerati
“diritti”.
Si è disposti, per esempio, a fare mille sacrifici per essere fisicamente
prestanti come vuole lo stereotipo proposto dalla pubblicità, dalla
cinematografia, dalle riviste… ma poco o nulla si fa per la dieta dai peccati. La palestra e i centri benessere
sono diventati luoghi di grande business “per
il bene delle persone”. E mentre ogni attenzione e culto vengono prestati al
proprio corpo, l’anima si separa sempre più dal Creatore, l’Unico a volere il
vero bene della sua creatura. Eppure i grandi moralisti della Chiesa lo hanno
sempre detto: offrire sacrifici, digiuni materiali, piccole penitenze (i misericordiosi
«fioretti» insegnati dalle buone mamme ai loro figli) è assai vantaggioso non
solo per esprimere in maniera manifesta il proprio Credo, ma per svincolarsi,
con maggior forza e facilità, dalle schiavitù del mondo, dando così spazio alla
vera libertà dell’anima. Sant’Alfonso Maria de’Liguori (1696-1787) è fra questi
grandi moralisti.
Un tempo, quando nei Seminari si insegnava Teologia morale secondo gli
orientamenti di quest’ultimo, i cattolici vivevano, pur nelle tribolazioni e
peccati quotidiani, con maggiore serenità e il tessuto sociale cattolico
seguiva coordinate serie e in armonia con le coscienze di ciascuno, costituite
dalla legge divina inscritta in ogni individuo, perciò l’onestà e il senso del
dovere tenevano più distanti le varie facce della corruzione. La teologia
morale è la medicina più salutare di ogni altra, compresa quella farmaceutica,
perché quando l’anima sta bene anche il corpo ne beneficia. Straordinario
vedere come la Teologia morale di sant’Alfonso abbia connotazioni ferme, ma
allo stesso tempo di immensa e prodigiosa misericordia.
Ai suoi tempi molti confessori erano portati ad avere una rigidità
oltremisura nei confronti dei loro penitenti ed ecco che il vescovo di
sant’Agata de’ Goti mise sulla direzione corretta la situazione che si era
andata creando. Oggi siamo nella situazione opposta: misericordia, profusa
dalla maggior parte dei confessori, senza il senso della giustizia divina e
senza la pretesa dell’essenziale pentimento. Occorre ricordare che Padre Pio da
Pietrelcina, portato a modello di confessore nell’attuale Giubileo, era un
paladino della estrema serietà del sacramento della confessione.
Con sant’Alfonso Maria de’ Liguori siamo di fronte all’equilibrio della
Tradizione: facile è per gli uomini (non ne sono esenti quelli di Chiesa)
condurre idee e dottrine in accelerazione. Più difficile stare nei canoni della
proporzione. Ebbene, Sant’Alfonso fu un sapiente equilibratore.
L’ordine morale, per sant’Alfonso, è costituito da un rapporto di
conformità tra la volontà e la norma oggettiva, cioè la legge. Tale rapporto è
dato dalla conoscenza che ha il soggetto della legge come norma obbligatoria.
Da ciò egli è condotto a respingere la probabilità isolata come regola
universale di condotta, perché essa, almeno nei gradi inferiori, non è
conoscenza; lo è invece la certezza morale in quanto rapporto conoscitivo. Questo
genio della teologia morale lavorò in maniera folgorante per contrastare le
eresie sue contemporanee e la «Norma universale»
divenne «certezza morale». Così si staccò dal facilismo dei
probabilisti, accogliendo il lato migliore del probabiliorismo e stabilendo una
posizione di netto contrasto di fronte a tutte le gradazioni del rigorismo e
del giansenismo.
I suoi formidabili scritti e la sua infaticabile predicazione portarono
sulla retta via gli insegnamenti nei Seminari, che erano diventati fucine di errori
a causa di teologi fuori equilibrio: l’Europa prese contatto con la nuova
Morale, alla quale si riconobbe a mano a mano il merito di aver consumato le
sorti del giansenismo e le tendenze più discusse del probabilismo. Tutto il
pensiero antecedente fu da sant’Alfonso riassunto: più di 70.000 citazioni da
800 autori attestano da sole il sovrumano lavoro di revisione, di critica, di
vagliatura compiuto da quest’uomo di Dio.
La mentalità di sant’Alfonso, un po’ avversa alle discussioni astratte,
riappare identica nella Morale come nella Dogmatica, nella Predicazione, nella
Missione, nella Pastorale. Nella sua complessa ed articolata opera rientrano le
nuove preoccupazioni, ispirate dalla lotta contro il materialismo,
l’indifferentismo religioso e l’incredulità, come dimostrano la Breve Dissertazione contra gli errori de’ moderni increduli oggidì
nominati materialisti e deisti e gli analoghi scritti
successivi, con i quali il teologo si pone, primeggiando fra tutti, fra le
tendenze controversistiche, antirazionalistiche, antilluministiche e
apologetiche della seconda metà del XVIII secolo.
È un teologo libero da sé (esente dalla vanagloria) e dai pregiudizi (più
facili da assumere rispetto all’affrancatura del saggio); scevro da influenze
di indirizzi dell’una o dell’altra scuola di moda, ma fedelissimo alla
Tradizione della Chiesa. Se si eccettuano alcuni autori prediletti, come santa
Teresa d’Avila o san Francesco di Sales, la sua dottrina scorre fra i vari temi
offerti dalla Tradizione con indipendenza di giudizio. Ama veleggiare nella
Tradizione, quella libera e realista, e in questa sceglie e discerne per il
bene delle anime, guardando sempre all’aspetto efficace, pratico, salutare. Ci
sono poi temi sui quali non transige e sui quali insiste senza mai stancarsi:
preghiera, uniformità alla volontà di Dio (che costituisce il termine
dell’esercizio di perfezione), meditazione sui Novissimi e sulla Passione di
Nostro Signore, Eucarestia, devozione alla Vergine Maria.
Scrive Giuseppe Cacciatore nel Dizionario biografico degli
italiani dell’Enciclopedia Treccani (Vol. 2 – 1960): «Non si esagera dicendo che si deve a lui principalmente se le
grandi teorie della mistica e dell’ascesi, le quali con san Francesco di Sales
erano uscite dalla scuola ed entrate nella cosiddetta buona società, uscirono
anche da questa e si riversarono tra il popolo. Alfonso, nell’ultima storia del
pensiero cattolico, senza parere, è stato colui che ha ritrovato le vene
dell’antica concezione eroica del cristiano ed ha, nella sua vita e nella
dottrina – umile soltanto nella veste -, rinnovato i grandi teorici dell’amore
di Dio, come li aveva conosciuti il Medioevo».
La sua Morale ruppe con facilità la resistenza del giansenismo e sorsero i
suoi eminenti propagatori: Pio Brunone Lanteri, Giuseppe Cafasso, Giovanni
Bosco in Italia; Gousset e Mazenod in Francia; Diesbach in Svizzera e in
Baviera; Hennequin nelle Fiandre; Waibel in Germania. I suoi libri corsero il
mondo in tutte le lingue.
Il filosofo Kierkegaard notava, nel sentimento religioso di questo Dottore
della Chiesa, rispondenze d’anima che personalmente lo staccavano senza
pentimenti dal pietismo protestante; mentre Gioberti e Döllinger, provando
acceso fastidio nei suoi confronti, lo snobbavano dalle loro tronfie ed erronee
cattedre. L’originalità di Sant’Alfonso è quella dei pensatori cattolici
equilibrati, che si radica nel Pensiero Eterno di Dio; quella senza tempo, che
trova dimora nella «Bellezza così antica e così nuova»,
per usare la sublime espressione di Sant’Agostino; quella in grado di
sgomberare il giardino dai rovi e che si propone di raddrizzare il cammino
verso Dio, distorto da taluni per ingenuità o per malafede.
Fonte: Corrispondenza romana, 17.2.2016
Fonte: Corrispondenza romana, 17.2.2016