Abbiamo già avuto modo di offrire il nostro punto di
vista, in una presentazione semiseria (o forse più seria di quanto si creda), dello “storico” incontro tra il vescovo
di Roma ed il patriarca della Terza Roma (v. qui). Molti i commenti
susseguitisi. Alcuni, al di là delle tinte eminentemente politiche (v. anche le dichiarazioni del patriarca Kirill), hanno posto
in rilievo come lo stesso entourage ed i laudatores del vescovo di Roma
tentino di “smorzare” la portata dell’incontro (v. Giuseppe Rusconi, Dichiarazione Kirill-Francesco:
quanto vale la firma del papa?, in Rossoporpora, 15.2.2016, nonché in Chiesa e postconcilio, 16.2.2016. Cfr. pure ivi); altri hanno evidenziato il rammarico della Chiesa cattolica ucraina (cfr. La protesta dei cattolici ucraini: L'arcivescovo di Kiev dà voce all'amarezza dei suoi fedeli, ivi, 17.2.2016); altri ancora, infine, hanno tenuto a sottolineare come, nonostante alcune affermazioni decisamente
cattoliche contenute nella dichiarazione comune, di un cattolicesimo che forse
non siamo più abituati a sentire (v. Ortodossi più....ortodossi dei cattolici?, in MiL, 20.2.2016), la c.d. ortodossia ha, tuttavia, profonde differenze,
non solo liturgiche e disciplinari, con la Chiesa cattolica (cfr. Corrado Gnerre, Cattolicesimo e
ortodossia: lo stesso cristianesimo?, in Civiltà cristiana, 15.2.2016).
Nel seguente contributo, offriamo il punto di vista
del prof. De Mattei. L’articolo, già rilanciato anche da Chiesa e postconcilio, è tradotto in inglese dall’immancabile Rorate caeli.
Lo “storico” incontro tra Francesco e Kirill
di Roberto de Mattei
Tra i tanti successi attribuiti dai mass-media a papa Francesco, c’è quello
dello “storico incontro”, avvenuto il 12 febbraio a L’Avana, con il patriarca
di Mosca Kirill. Un avvenimento, si è scritto, che ha visto cadere il muro che
da mille anni divideva la Chiesa di Roma da quella di Oriente.
L’importanza dell’incontro, secondo le parole dello stesso Francesco, non
sta nel documento, di carattere meramente “pastorale”, ma nel fatto di una
convergenza verso una meta comune, non politica o morale, ma religiosa. Al
Magistero tradizionale della Chiesa, espresso da documenti, papa Francesco
sembra dunque voler sostituire un neo-magistero, veicolato da eventi simbolici.
Il messaggio che il Papa intende dare è quello di una svolta nella storia della
Chiesa. Ma è proprio dalla storia della Chiesa che occorre partire per
comprendere il significato dell’avvenimento. Le inesattezze storiche sono
infatti molte e vanno corrette perché è proprio sui falsi storici che spesso si
costruiscono le deviazioni dottrinali.
Innanzitutto non è vero che mille anni di storia dividono la Chiesa di Roma
dal Patriarcato di Mosca, visto che questo è nato solo nel 1589. Nei cinque
secoli precedenti, e prima ancora, l’interlocutore orientale di Roma era il
Patriarcato di Costantinopoli. Nel corso del Concilio Vaticano II, il 6 gennaio
1964, Paolo VI incontrò a Gerusalemme il patriarca Atenagora per avviare un
“dialogo ecumenico” tra il mondo cattolico e il mondo ortodosso. Questo dialogo
non è riuscito ad andare avanti a causa della millenaria opposizione degli
ortodossi al Primato di Roma. Lo stesso Paolo VI lo ammise in un discorso al
Segretariato dell’Unità per i cristiani del 28 aprile 1967, affermando: «Il Papa, noi lo sappiamo bene, è senza dubbio l’ostacolo più
grande sul cammino dell’ecumenismo» (Paolo VI, Insegnamenti, VI, pp. 192-193).
Il patriarcato di Costantinopoli costituiva una delle cinque sedi
principali della cristianità stabilite dal Concilio di Calcedonia del 451. I
patriarchi bizantini sostenevano però che dopo la caduta dell’Impero romano,
Costantinopoli, sede del rinato Impero romano d’Oriente, sarebbe dovuta
divenire la “capitale” religiosa del mondo. Il canone 28 del Concilio di
Calcedonia, abrogato da san Leone Magno, contiene in germe tutto lo scisma
bizantino, perché attribuisce alla supremazia del Romano Pontefice un
fondamento politico e non divino. Per questo nel 515, papa Ormisda (514-523)
fece sottoscrivere ai vescovi orientali una Formula di Unione,
con cui essi riconoscevano la loro sottomissione alla Cattedra di Pietro
(Denz-H, n. 363).
Tra il V e il X secolo, mentre in Occidente si affermava la distinzione tra
l’autorità spirituale e il potere temporale, in Oriente nasceva intanto il
cosiddetto “cesaropapismo”, in cui la Chiesa viene di fatto subordinata all’Imperatore
che se ne ritiene il capo, in quanto delegato di Dio, sia nel campo
ecclesiastico che in quello secolare. I patriarchi di Costantinopoli erano di
fatto ridotti a funzionari dell’Impero bizantino e continuavano ad alimentare
un’avversione radicale per la Chiesa di Roma.
Dopo una prima rottura, provocata dal patriarca Fozio nel IX secolo, lo
scisma ufficiale avvenne il 16 luglio 1054, quando il patriarca Michele
Cerulario dichiarò Roma caduta nell’eresia per motivo del “Filioque” ed altri pretesti. I legati romani deposero
allora contro di lui la sentenza di scomunica sull’altare della chiesa di Santa
Sofia a Costantinopoli. I principi di Kiev e di Mosca, convertiti al
Cristianesimo nel 988 da san Vladimiro, seguirono nello scisma i patriarchi di Costantinopoli,
di cui riconoscevano la giurisdizione religiosa. Le discordie sembravano
insormontabili ma un fatto straordinario avvenne il 6 luglio 1439 nella
cattedrale fiorentina di Santa Maria del Fiore, quando il Papa Eugenio IV,
annunciò solennemente, con la bollaLaetentur Coeli (“che
i cieli si rallegrino”), l’avvenuta ricomposizione dello scisma fra le Chiese
di Oriente e di Occidente.
Nel corso del Concilio di Firenze (1439), al quale avevano partecipato
l’imperatore d’Oriente Giovanni VIII Paleologo e il patriarca di Costantinopoli
Giuseppe II, si era trovato l’accordo su tutti i problemi, dal Filioque al Primato Romano. La Bolla pontificia si
concludeva con questa solenne definizione dogmatica, sottoscritta dai Padri
greci: «Definiamo che la santa Sede apostolica e il Romano pontefice hanno
il primato su tutto l’universo; che lo stesso Romano pontefice è il successore
del beato Pietro principe degli apostoli, è autentico vicario di Cristo, capo
di tutta la Chiesa, padre e dottore di tutti i cristiani; che Nostro Signore
Gesù Cristo ha trasmesso a lui, nella persona del beato Pietro, il pieno potere
di pascere, reggere e governare la Chiesa universale, come è attestato anche
negli atti dei concili ecumenici e nei sacri canoni» (Conciliorum Oecumenicorum Decreta, Centro Editoriale
Dehoniano, Bologna 2013, pp. 523-528).
Fu questo l’unico vero storico abbraccio tra le due chiese nel corso
dell’ultimo millennio. Tra i più attivi partecipanti al Concilio di Firenze,
c’era il metropolita di Kiev e di tutta la Russia, Isidoro. Appena tornato a
Mosca egli diede pubblico annuncio della avvenuta riconciliazione sotto
l’autorità del Romano pontefice, ma il principe di Mosca, Vasilij il Cieco, lo
dichiarò eretico e lo sostituì con un vescovo a lui sottomesso. Questo gesto
segnò l’inizio dell’autocefalia della chiesa moscovita, indipendente non solo
da Roma ma anche da Costantinopoli. Poco dopo, nel 1453, l’Impero bizantino fu
conquistato dai Turchi e travolse nel suo crollo il patriarcato di
Costantinopoli. Nacque allora l’idea che Mosca dovesse raccogliere l’eredità di
Bisanzio e divenire il nuovo centro della Chiesa cristiana ortodossa. Dopo il
matrimonio con Zoe Paleologo, nipote dell’ultimo Imperatore d’Oriente, il
Principe di Mosca Ivan III si diede il titolo di Zar e introdusse il simbolo
dell’aquila bicefala. Nel 1589 fu costituito il Patriarcato di Mosca e di tutta
la Russia. I Russi diventavano i nuovi difensori dell’“ortodossia”, annunciando
l’avvento di una “Terza Roma”, dopo quella cattolica e quella bizantina.
Di fronte a questi eventi, i vescovi di quella zona che allora si chiamava
Rutenia e che oggi corrisponde all’Ucraina, e a una parte della Bielorussia, si
riunirono, nell’ottobre 1596, nel Sinodo di Brest e proclamarono l’unione con
la sede romana. Essi sono conosciuti come, Uniati, a motivo
della loro unione con Roma, o Greco-cattolici,
perché, pur sottomettendosi al Primato romano, conservavano la liturgia bizantina.
Gli zar russi intrapresero una persecuzione sistematica della Chiesa uniate
che, tra i tanti martiri, annoverò il monaco Giovanni (Giosafat) Kuncevitz
(1580-1623), arcivescovo di Polotzk, e il gesuita Andrea Bobola (1592-1657),
apostolo della Lituania. Entrambi furono torturati e uccisi in odio alla fede
cattolica e oggi sono venerati come santi. La persecuzione si fece ancora più
aspra sotto l’impero sovietico. Il cardinale Josyp Slipyj (1892-1984),
deportato per 18 anni nei lager comunisti, fu l’ultimo intrepido difensore
della Chiesa cattolica ucraina.
Oggi gli Uniati costituiscono il più numeroso gruppo di cattolici di rito
orientale e costituiscono una testimonianza vivente dell’universalità della
Chiesa cattolica. È ingeneroso affermare, come fa il documento di Francesco e
Kirill, che il «metodo dell’uniatismo», inteso «come unione di una comunità all’altra, staccandola dalla sua
Chiesa», «non è un modo che permette di ristabilire
l’unità» e che «non si può quindi accettare
l’uso di mezzi sleali per incitare i credenti a passare da una Chiesa ad
un’altra, negando la loro libertà religiosa o le loro tradizioni».
Il prezzo che papa Francesco ha dovuto pagare per queste parole richieste
da Kirill è molto alto: l’accusa di “tradimento” che ora gli viene rivolta dai
cattolici uniati, da sempre fedelissimi a Roma. Ma l’incontro di Francesco con
il patriarca di Mosca va ben oltre quello di Paolo VI con Atenagora.
L’abbraccio a Kirill tende soprattutto ad accogliere il principio ortodosso
della sinodalità, necessario per “democratizzare” la Chiesa romana. Per quanto
riguarda non la struttura della Chiesa, ma la sostanza della sua fede, l’evento
simbolico più importante dell’anno sarà forse la commemorazione da parte di
Francesco dei 500 anni della Rivoluzione protestante, prevista per il prossimo
ottobre a Lund, in Svezia.
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