Rilanciamo volentieri, in questo mercoledì di Pasqua nel quale tradizionalmente erano benedetti gli Agnus Dei (nel primo anno di pontificato e successivamente ogni sette anni), quest’interessante
contributo tratto da Riscossa cristiana.
Anima immortale o resurrezione
dei morti? Et-et, cioè tutte e due
“Non abbiate paura
di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima;
temete piuttosto colui che ha il potere di far perire e l’anima e il corpo nella Geenna” (Mt 10,
28).
di Carla D’Agostino Ungaretti
L’esortazione rivoltaci da Gesù, nel Discorso Apostolico secondo Matteo, è
piena di significati e di conseguenze sui quali l’umanità dovrebbe seriamente
tornare a riflettere, soprattutto in questa travagliata epoca che ha
determinato il trionfo del materialismo e l’affievolimento (per non dire la totale
scomparsa) del senso del peccato[1].
Due sono i punti salienti di quell’esortazione: da un lato, l’immortalità
dell’anima e da un altro, l’esistenza del demonio e dell’inferno. In questa mia
riflessione, non certo da teologa o da esegeta ma da cattolica “bambina”, mi soffermerò sul primo dei due problemi,
rimandando il secondo a un’occasione futura, sempre Deo favente.
Con il termine “anima” si
intende comunemente l’elemento spirituale dell’uomo che, a differenza di quello
corporeo, non conoscerebbe l’esperienza della morte. È un tema particolarmente
coinvolgente, oltre che affascinante, perché è strettamente connesso con quello
che ciascuno di noi immagina sia il nostro destino escatologico. Che cosa
ci aspetta dopo la morte fisica? L’annientamento eterno, indistinto e inconsapevole,
un sonno profondo dal quale non ci sarà risveglio, come sostengono i materialisti
e i laicisti più sfegatati (e in questo caso non dobbiamo aspettarci nulla,
perché saremo completamente incoscienti), ovvero la sopravvivenza di quella
componente totalmente immateriale del nostro essere che i credenti chiamano “anima” e i non credenti “mente”, anche
se i due termini non sono esattamente sinonimi? E se c’è una sopravvivenza, ci
aspetta il premio per la nostra vita virtuosa e la nostra fedeltà a Dio o il
castigo eterno per i nostri peccati? Il problema è enorme e non può essere
liquidato tanto facilmente non pensandoci mai come fanno molti, perché allora
ci accomuneremmo agli animali[2].
Lo studio dell’anima è affascinante, come dicevo poc’anzi, non solo per l’
“homo religiosus”, ma anche per l’antropologo, perché
gli consente di studiare le modalità con le quali l’essere umano di tutti i
tempi e di tutte le latitudini ha immaginato il suo destino dopo la morte,
segno che l’aspirazione a una qualche forma di immortalità è sempre stata
presente nel cuore e nella mente degli uomini. Infatti tutte le civiltà e tutte
le religioni ritengono che “qualche cosa” dell’essere
umano sopravviva dopo la morte fisica.
Le neuroscienze moderne però creano alcuni problemi al riguardo e
pretendono, senza peraltro riuscirci, di trovare soluzioni totalmente
materialistiche. Secondo Edoardo Boncinelli, un primo e più naturale
significato del termine “anima” sarebbe “una sorta di energia vitale e di principio organizzatore che
permea gli esseri viventi, ne sostiene l’attività e ne coordina le
funzioni”[3] .
Inoltre egli riporta, condividendola, l’opinione di F. Crick, secondo il quale
la parte più immateriale e, innegabilmente, spirituale dell’uomo sarebbe da
identificare con la capacità di tradurre un impulso elettrico nel suo
significato. La mente – termine che molti preferiscono usare invece di “anima” – trasformerebbe qualcosa di implicito (neurostato) in qualcosa di esplicito(psicostato). Il passaggio da uno stato all’altro è detto “binding”, ma Boncinelli riconosce onestamente che gli
scienziati non sanno che cosa sia esattamente, né come avvenga quel passaggio.
Se esso si identifica con una presa di coscienza collettiva e può essere interpretato
come capacità di dare un significato, allora si può pensare che esso abbia a
che fare con la capacità linguistica dell’uomo. Boncinelli distingue l’autocoscienza, cioè la capacità dell’uomo di raccontare
in parole quello che sta vivendo, dalla coscienza fenomenica,
di carattere cognitivo – affettivo che si fa fatica a comunicare adeguatamente.
Poiché il potersi esprimere implica capacità di progettazione e azione, tale
capacità secondo lui sarebbe la caratteristica dell’autocoscienza[4].
“Sarà … !” commenta, certamente non persuasa, la vostra amica cattolica “bambina”. Ma piuttosto si domanda: “Chi ha “progettato e instillato” nel cervello umano quell’ “energia vitale, o principio organizzatore” che gli scienziati non sono
neppure riusciti a capire come funzioni e, tanto meno, riuscirebbero a
fabbricare in laboratorio, se non Qualcuno la cui intelligenza trascende enormemente le capacità umane?” A
questa domanda gli scienziati non rispondono.
Ma come è stato trattato nei secoli il problema dell’anima e dello spirito – termini
che io, invece, preferisco usare – di quelle parti, cioè, impalpabili
della persona umana che non si vedono ma che è impossibile negare, perché sono
sempre stati capaci di produrre effetti straordinari e, loro sì, ben visibili?[5] Al
tempo, ormai purtroppo lontano, del mio liceo classico – frequentato come usava
una volta, ossia sul serio, e non secondo la deleteria moda post sessantottina
– la filosofia greca mi aveva particolarmente appassionato. Infatti, avendo io
ricevuto una rigorosa educazione cattolica basata sul Catechismo di S. Pio X –
fatto come tutti sanno di domande e risposte, facilissime da memorizzare, che
mi aveva insegnato come, dopo la morte, l’anima non muore col corpo, ma va in
Paradiso o all’inferno – inizialmente avevo trovato nei grandi
filosofi greci, e soprattutto in Platone, una straordinaria assonanza con il
messaggio cristiano, come se Dio avesse instillato in quella grande mente, una
sorta di anteprima di quella Parola che sarebbe stata pronunciata secoli dopo.
E infatti un po’ è avvenuto davvero così, anche se soltanto un po’: infatti
già Platone, nel Fedone, aveva intuito che l’anima è
razionale, spirituale e immortale, tanto che la filosofia patristica aveva
trovato nella sua dottrina una straordinaria armonia con la frase di Gesù che
ho citato in epigrafe. Ma più tardi, progredendo negli studi e nel cammino di
fede, ho capito che le cose non stanno esattamente in questi termini, o meglio
l’anima è, sì, immortale, ma è tale perché così Dio, creandola, l’ha voluta e
non già perché essa vive, eterna ed increata, nel Mondo delle Idee ed esce dalla sostanza di Dio per
entrare in un corpo, come credeva Platone. Secondo lui, filosofo per molti
versi affascinante a causa delle poetiche immagini mitologiche di cui si serve
per illustrare il suo pensiero, essendo l’anima totalmente distinta dal corpo,
l’uomo non può essere costituito da corpo e anima insieme, ma “è” l’anima, e solo quando morendo si sbarazza del
corpo, egli può godere del suo destino immortale.
Invece, a differenza di Platone, secondo il pensiero ebraico dell’Antico
Testamento Dio crea l’anima dal nulla, ed essa forma un tutt’uno con il corpo.
Nell’Antico Testamento non esiste alcuna forma di dualismo tra anima e corpo,
infatti sappiamo che per gli antichi Patriarchi l’idea di immortalità e di
premio dopo la morte coincideva con la speranza di avere una lunga discendenza.
Disse il Signore ad Abramo: “Io sono il tuo scudo; la tua
ricompensa sarà molto grande … Guarda il cielo e conta le stelle, se riesci a
contarle”. E soggiunse: “Tale sarà la tua discendenza”. Egli credette al Signore
che glielo accreditò come giustizia” (Gen 15, 1 ss).
Perciò in Abramo, nei Patriarchi e nei libri successivi alla Genesi
non si rintraccia una chiara visione della sopravvivenza dell’anima dopo la
morte. Anzi: “Non esiste superiorità dell’uomo rispetto
alle bestie, perché tutto è vanità … tutto è venuto dalla polvere e tutto ritorna
alla polvere” , afferma il Qoèlet (Eccle 3, 20)[6] ,
ma ciò non significa che esso riveli una sorta di antropologia materialistica,
perché l’uomo è anche spirito (in ebraico “ruah”). Dio solo è
la fonte della vita e l’uomo vive perché ha ricevuto da Lui il soffio vitale,
grazie al quale è capace di entrare in relazione con Lui. Ma il termine più
usato nella Scrittura è il “cuore”, sede dei sentimenti
e dei pensieri, sede della vita, parte del cervello, fattore di unità dell’uomo
.“Allevia le angosce del mio cuore / liberami dagli affanni” implora il Salmo 25, 17 .
Ricordo che al liceo il mio professore di filosofia faceva notare ai suoi
allievi il diverso atteggiamento di Socrate e di Gesù di fronte alla morte.
Socrate, secondo Platone, bevve la cicuta deliberatamente e serenamente
perché per lui la morte significava liberazione dalla prigionia del corpo; invece
Gesù, vero uomo oltre che vero Dio, ebbe paura della morte, come ce
l’hanno tutti gli uomini di questo mondo. Giunto al Getsemani, “cominciò a sentire paura e angoscia … e diceva: “Abbà, Padre! Tutto
è possibile a te, allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu”. (Mc
14, 34). “Egli offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte … ” (Eb
5, 7). Infatti la morte è un evento orribile perché è la conseguenza del
peccato, cioè della disobbedienza volontaria a Dio, pericolo dal quale Dio
stesso aveva chiaramente messo in guardia Adamo ed Eva (Gen 2, 17). Il peccato,
perciò, ha provocato la morte, cioè la separazione eterna dal Padre che
invece è il Dio della Vita. Gesù accetta la morte solo perché in essa riconosce
la volontà del Padre per la redenzione dell’uomo[7];
perciò i cristiani tengono ben distinto il concetto dell’immortalità
dell’anima, tipico della filosofia greca, da quello della resurrezione
dei morti che, rispetto al primo, per opera di S. Paolo, rappresenta un notevole
passo avanti.
Anche Paolo, nelle lettere, rivela una visione unitaria dell’uomo che
sarebbe composto addirittura da tre elementi: spirito, anima, corpo (1Ts
5, 23). L’unica opposizione che egli esprime è tra quella tra “sarx” (carne), con significato negativo indicante
la parte istintuale e passionale dell’uomo, e “soma” (corpo),
indicante l’uomo tutto intero, luogo in cui interagiscono la parte materiale e
quella spirituale. Nella visione paolina l’uomo è un corpo animato o un’anima
in quanto corpo: “Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia
di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente , santo e gradito a Dio” (Rm 12, 1). Ma il
corpo, che è composto di carne e anima insieme, vive in conflitto con lo
spirito. Lo spirito spinge l’uomo verso Dio, ma il corpo sente la tentazione
della carne: “Camminate secondo lo Spirito e non sarete
portati a soddisfare i desideri della carne; la carne infatti ha desideri
contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose
si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste” (Gal
5, 16, 17). Ma come mai avviene tutto questo, dato che siamo stati creati a
immagine e somiglianza di Dio? Perché la vita dell’uomo è stata contagiata
per sempre dal peccato originale e può guarire e tornare all’originaria
comunione con Lui non liberandosi del corpo (come diceva Platone), né con
l’osservanza della legge (come nell’Antico Testamento) e tanto meno con le sue
sole forze – come sostenevano la gnosi e l’eretico Pelagio, la cui dottrina fu
dimostrata totalmente errata sia teologicamente che filosoficamente da S.
Agostino – ma solo per i meriti dell’incarnazione, morte e resurrezione di
Gesù Cristo.
Ciò nonostante, l’uomo rimane libero di peccare perché in lui rimane sempre
la tendenza a soddisfare la carne; perciò la vera liberazione, secondo Paolo,
non avverrà dal corpo (come diceva
Platone) ma sarà la liberazione del corpo, tutto
intero, da ciò che gli impedisce di diventare spirituale, e dalla morte, che è
la più temibile conseguenza del peccato. Infatti l’aspetto qualificante del
Nuovo Testamento non è l’immortalità dell’anima – sulla quale non si discute
perché, come ha detto Gesù, non può essere uccisa – ma la resurrezione
dei corpi.
La visione biblica e patristica dell’uomo presenta di lui una visione
unitaria: l’anima conferisce una dimensione all’uomo tutto intero ed è l’uomo
tutto intero ad essere redento e salvato nella vita nuova donatagli da Dio
attraverso Cristo. Paolo stesso constatò di persona la differenza culturale con
l’ellenismo quando si presentò davanti ai colti e smaliziati Ateniesi
dell’Areopago per parlare loro della Resurrezione di Cristo: “Ti sentiremo su questo un’altra volta” gli
risposero i più educati, mentre altri lo derisero, “ma alcuni
aderirono a lui e divennero credenti fra
questi anche Dionigi membro dell’Areopago e una donna di nome Damaris” (At
17, 34). Le donne, a cominciare da Maria di Nazareth e da sua cugina Elisabetta,
sono sempre state più ricettive degli uomini alla Parola di Dio.
Il Simbolo Apostolico, professione di fede dell’inizio del III secolo,
parla di “resurrezione della carne”, mentre il Simbolo
Niceno – Costantinopolitano – che recitiamo ogni domenica durante la S. Messa
ed è una rielaborazione del primo per opera del Concilio di Costantinopoli del
381- preferisce l’espressione, più completa, “resurrezione dei morti” a
significare, cioè, l’uomo tutto intero, composto di anima e di corpo. Infatti
nella resurrezione la creazione intera viene ricondotta, per intervento divino,
a un nuovo progetto cosmico, nel senso etimologico greco di “ordine”, “armonia”. “La creazione stessa … nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù
della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio …
tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto … anche
noi, che possediamo le primizie dello spirito, gemiamo interiormente aspettando
l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. (Rm 8, 22
ss)[8] .
Allora crolleranno le limitazioni dello spazio e del tempo nelle quali ora
viviamo immersi, saremo come apparve Gesù ai discepoli lo stesso giorno
della Resurrezione “mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano”, come fu visto da Tommaso
otto giorni dopo, sempre “a porte chiuse”(Gv
20, 19- 26) e vedremo Dio faccia a faccia.
E che ne è dell’anima dopo la nostra morte e finché il resto dell’umanità è
ancora immersa nelle dimensioni dello spazio e del tempo? Se l’anima è
immortale, come ha detto Gesù, non possiamo credere che muoia anch’essa, così
come muore fisicamente il corpo, in attesa di risorgere con esso alla fine dei
tempi. La Chiesa ha sempre impegnato la sua autorità di “Mater et Magistra” nell’insegnarci che le anime dei
grandi Santi, che in duemila anni di storia hanno vissuto e operato nel solco
tracciato dalla Parola di Dio osservandola in grado eroico, ora sono presso di
Lui, vedono Lui faccia a faccia e vedono e assistono noi con le loro preghiere.
Ma non solo loro, anche se solo a loro è riservato il culto pubblico: il grande
mistero della Comunione dei Santi – cioè di tutti coloro, anche i più ignoti,
le cui anime si sono salvate – ci insegna che possiamo e dobbiamo pregare per
loro, nella certezza che anche loro continuano ad amarci e a proteggerci, come
le persone che abbiamo amato e che ci hanno preceduto nell’incontro con Dio.
Ho condotto questa mia umile e necessariamente incompleta riflessione da
cattolica “bambina” sull’anima e sulla Resurrezione
promessaci da Cristo, Bibbia alla mano e davanti agli occhi, non certo
elaborati trattati filosofici e teologici, ma il testo di filosofia del mio
antico liceo classico, come si conviene appunto a una cattolica “bambina”. Perciò non pretendo di aver detto nulla
di eccezionale ma, mentre ringrazio il Signore per avermi fatto il dono della
fede, spero che Egli si serva delle mie povere parole per instillare nel
cuore e nella mente di chi prova la terribile tentazione del dubbio, qualche
piccolo seme di speranza, perché “nella speranza siamo stati
salvati … e se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza” (Rm 8, 24 – 25).
[1] Con grande soddisfazione di Eugenio Scalfari
che, come grande risultato delle sue frequentazioni personali con Papa
Francesco, ha messo più volte in risalto questo affievolimento.
[2] Aldo Grasso riferisce che nell’Enciclopedia
Einaudi 1977 – 1982, monumento allo scientismo novecentesco politicamente
corretto, compare la voce “corpo” ma non
la voce “anima”, perché (secondo l’editore) compito
dell’Enciclopedia è “rischiarare la mente degli uomini per liberarli
dalle tenebre dell’ignoranza e della superstizione attraverso conoscenza e
scienza” Cfr. IL CORRIERE DELLA SERA, La Lettura, 7.2.2016,
pag. 4. Il Prof. Grasso aggiunge di aver letto la voce “corpo” e di averci capito poco, segno (aggiungo io) che
neppure il compilatore di quella voce ha le idee chiare in proposito.
[3] Cfr. E. Boncinelli, I segreti della mente? Molecole, cellule e circuiti nervosi”,
IL CORRIERE DELLA SERA, La Lettura, 7.2.2016, pag. 4.
[4] Cfr. E. Boncinelli, Quel che resta dell’anima, Milano, Rizzoli, 2015, pag.
29 e seguenti.
[5] Basti pensare a quello che sono stati capaci di
fare in ogni tempo i grandi Santi della Chiesa, lasciando che lo Spirito
Santo guidasse le loro anime sulla strada tracciata da Dio.
[6] Mentre rifletto su questo versetto del Qoèlet,
mi viene in mente che esso dovrebbe piacere agli animalisti che, come è noto,
negano la superiorità dell’uomo rispetto agli animali. Chissà che, leggendolo,
non arrivino pian piano ad apprezzare la Sacra Scrittura approdando prima o poi
al Cristianesimo? Le vie del Signore sono infinite e forse questo potrebbe
essere un “preambulum fidei”, come dice S. Tommaso d’Aquino.
Ma forse lavoro di fantasia e mi do troppe arie da filosofa consumata …
[7] Anche l’Apocalisse presenta la morte come
l’ultima nemica che sarà sconfitta (20, 14).
[8] Questa notissima frase della Lettera ai Romani
mi offre lo spunto per un’ulteriore riflessione, forse poco ortodossa, ma
allora mi aspetto di essere corretta da chi ne sa più di me. E’ noto che le
piante e gli animali non hanno un’anima immortale quindi sarebbero fatti di
pura materia, ma se è vero che anche la materia spera di essere redenta alla
fine dei tempi, non possiamo sperare che anche per loro, sue creature, Dio
abbia progettato una sorta di resurrezione finale, senza ritenere necessario
rivelarlo all’uomo? Sono stata molto criticata per questa mia ipotesi, ma io
penso che se Dio ha creato il mondo per amore, non può abbandonare nel nulla
eterno quelle altre sue creature, ontologicamente inferiori all’uomo e
del tutto incolpevoli del peccato da lui commesso.
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