Abbiamo avuto modo di parlare
delle sacre spine che rinverdiscono (v. qui).
Ecco un interessante studio
storico su di esse.
La Corona di spine.
Dal Golgota fino a noi
di Giovanni Battista Alfano
Una costellazione di luoghi, date
e volti ben illustrata e documentata permette di seguire idealmente, ma in modo
storicamente certo, le tappe del viaggio della Corona di Spine dalla Terra di
Gesù fino alla sua attuale collocazione a Notre-Dame di Parigi. Anche la storia
incrementa la devozione verso una Reliquia di così estrema importanza.
La storia della Santa Corona di
Spine di Nostro Signore Gesù Cristo può dividersi in quattro periodi.
1) Dalla Passione di Nostro
Signore sino a tutta la permanenza della Sacra Reliquia in Gerusalemme (ossia
dall’inizio dell’Era volgare fino al 1092).
2) Traslazione della Corona da
Gerusalemme a Costantinopoli e permanenza in questa città (dal 1092 al 1238).
3) Traslazione della Corona da
Costantinopoli a Parigi e sua deposizione nella Sainte-Chapelle del Palazzo
Reale (dal 1238 al 1799).
4) Traslazione della Corona dalla
Sainte-Chapelle di Parigi alla Biblioteca Imperiale e poi a Notre-Dame, ove si
trova tuttora (1799 - 1806 - epoca presente).
La Santa Corona a Gerusalemme. I
testimoni
È opinione che la Santa Corona di
Spine che trafisse il venerato Capo di Nostro Signore Gesù Cristo sia stata
riposta, insieme ai chiodi, nel sepolcro in cui fu messo il Corpo del Redentore,
come si soleva praticare dagli Ebrei, che col cadavere interravano tutto ciò
che era servito a giustiziare il condannato.
È anche opinione, ed è da ritenersi che sia stato proprio così, che, dopo la Risurrezione di Gesù, quelle sacre reliquie, insieme alla Sindone, siano state raccolte dalla Vergine Maria o dagli Apostoli o dalle pie donne, e custodite a Gerusalemme per essere oggetto di venerazione presso i primi cristiani.
Documenti dei primi tre secoli dell’Era volgare non ne abbiamo. Essi incominciano col IV secolo e ci assicurano che la Santa Corona nel primo millennio del Cristianesimo era conservata a Gerusalemme e vi rimase almeno fino al 1092.
Una prima testimonianza di quell’epoca remota, la più antica, a quanto pare, è data da un passo di una lettera di san Paolino[1]. L’insigne Vescovo di Nola ne parla in una lettera che porta il n. 49 della raccolta. La lettera fu scritta quando san Paolino era già vescovo; poiché egli vi si chiama «exigui gregis pastor» (n. 14). Dunque non prima del 409; ma, in quale anno preciso è impossibile dire. È una delle lettere più belle e, senza dubbio, sotto vari aspetti, molto interessante. San Paolino la scrisse per implorare l’interessamento di un suo amico potente a Roma, Macario, in favore di un tal Secondiniano, padrone di una nave danneggiata gravemente da una tempesta, e di un certo Valgio, scampato miracolosamente dal naufragio, contro l’avidità rapace di un uomo che voleva impadronirsi del vascello. Una nave di questo Secondiniano era partita dalla Sardegna, carica di grano. Violenta tempesta l’aveva colta, e sbattuta per 23 giorni dalla Sardegna a Roma, da Roma in Campania, dalla Campania in Africa, dall’Africa in Sicilia, dalla Sicilia finalmente nel Bruzio. Dell’equipaggio, tranne il vecchio Valgio, non c’era più nessuno sulla nave. L’equipaggio s’era buttato in mare, sperando di salvarsi, ma si annegò. Valgio, abbandonato dai compagni, nella sentina, non fu solo. Con lui, che da tempo anelava al Battesimo, fu sensibilmente il Salvatore, mentre il martire di Nola, Felice, sedeva a poppa. Valgio, approdato nel Bruzio, accorse a Nola per ringraziare san Felice, e raccontò la storia meravigliosa a san Paolino. E san Paolino la riproduce in questa lettera con particolari estremamente pittoreschi. Il Salvatore che lavora per Valgio, e con Valgio, vuole che egli lavori di giorno, ma lo lascia andare a riposare la notte; e poi, quando è ora di svegliarlo, gli si accosta adagio, lo tocca teneramente perché non si ridesti con un soprassalto spaventoso, arriva a accarezzargli delicatamente l’orecchio. È tanto l’entusiasmo da cui è preso Paolino a questi particolari del racconto, che se non fosse per il timore di una ferita egli taglierebbe la sommità dell’orecchio a Valgio, per conservarla come reliquia. È a questo punto che vien fuori, per analogia, il ricordo dei luoghi santi della Palestina e delle reliquie della Passione. Scrive san Paolino: «Si va a Gerusalemme per vedere e toccare i luoghi nei quali fu corporalmente presente Cristo, e ove si ammirano i ricordi della sua Passione; ebbene, se è motivo di consolazione e di frutto spirituale il solo vedere quei luoghi, il riportarne un po’ di polvere o una scheggia minuta del legno della croce, che grazia maggiore e più abbondante non è quella di vedere quell’uomo [Valgio] a cui il Salvatore ha parlato, che ha riscaldato col suo seno, adagiato sulle sue ginocchia, di carezzare colui che Cristo ha toccato con le sue mani?
“Si ergo religiosa cupiditas est loca videre in quibus Christus ingressus et passus est, et resurrexit, et unde conscendit, et, aut de ipsis locis exiguum pulverem, aut de ipso crucis ligno aliquid saltem festucae simile sumere et habere benedictio est, considera quanto maior et plenior grafia sit, vivum senem vel testimonio divinae veritatis inspicere.
Si praesepe nati, si fluvius baptizati, si hortus orantis Magistri, si atrium iudicati, si columna districti, si spina coronati, si lignum suspensi, si saxum sepulti, si locus resuscitati evectique, memoria divinae quondam praesentiae celebratur, quam religiose aspiciendus est hic, quem alloqui Dei sermo dignatus est, cui se facies divina non texit”» (n. 14 - col. 407 della PL, vol. LXI). Dunque nei primi anni del secolo V la Corona di Spine doveva trovarsi in Gerusalemme esposta alla venerazione dei fedeli. Altra testimonianza della presenza della Corona di Spine in Gerusalemme in questa epoca è data dal Breviarium de Hierosolyma, dove si legge esistere «Corona de spinis [...] in media basilica».
Così anche quella di Antonino Piacentino, del secolo VI, che nel suo Itinerarium ricorda la Corona di Spina «in ipsa ecclesia Sion»[2]. Ecco perché da questa città, fin dal 323, sant’Elena avrebbe inviato due Spine alla Chiesa di Santa Croce di Gerusalemme in Roma e altre a Trèves, città antica nella Gallia, ora compresa nella Prussia Renana.
Cassiodoro, verso il 575, nel suo Commentarium ad Psalm. LXXXVII, accenna alla Corona di Spine in Gerusalemme.
In questo stesso VI secolo san Gregorio di Tours, pur non indicando la località ove si trovava la Reliquia, già accennava ai segni straordinari su di essa riscontrati, e scriveva: «Ferunt etiam ipsos Coronae sentes quasi virides apparare; quae tamen si videantur aruisse foliis, quotidie tamen revirescere virtute divina» (De Gloria Martyrum, Lib. I., cap. VII).
Nell’801 Hassan, governatore di Gerusalemme, dava una Spina a Carlo Magno. Nell’870, Bernardo il Monaco, ci assicura che la Corona era venerata nella città di Gesù. Foucher, abbate di San Benigno, nel 944 porta da Gerusalemme una Spina nel suo monastero a Digione. Nel 1044, la città di Avignone riceve una Spina dal Vescovo Benedetto I, reduce da Terra Santa. Intanto nel 1092 l’imperatore Alessio I Comneno, in una lettera a Roberto di Fiandra, fra le reliquie allora conservate a Costantinopoli, cita la Corona di Spine (Exuviae Sacrae Const. II, p. 203). Dunque in tale anno la Santa Reliquia è già passata da Gerusalemme a Costantinopoli.
È anche opinione, ed è da ritenersi che sia stato proprio così, che, dopo la Risurrezione di Gesù, quelle sacre reliquie, insieme alla Sindone, siano state raccolte dalla Vergine Maria o dagli Apostoli o dalle pie donne, e custodite a Gerusalemme per essere oggetto di venerazione presso i primi cristiani.
Documenti dei primi tre secoli dell’Era volgare non ne abbiamo. Essi incominciano col IV secolo e ci assicurano che la Santa Corona nel primo millennio del Cristianesimo era conservata a Gerusalemme e vi rimase almeno fino al 1092.
Una prima testimonianza di quell’epoca remota, la più antica, a quanto pare, è data da un passo di una lettera di san Paolino[1]. L’insigne Vescovo di Nola ne parla in una lettera che porta il n. 49 della raccolta. La lettera fu scritta quando san Paolino era già vescovo; poiché egli vi si chiama «exigui gregis pastor» (n. 14). Dunque non prima del 409; ma, in quale anno preciso è impossibile dire. È una delle lettere più belle e, senza dubbio, sotto vari aspetti, molto interessante. San Paolino la scrisse per implorare l’interessamento di un suo amico potente a Roma, Macario, in favore di un tal Secondiniano, padrone di una nave danneggiata gravemente da una tempesta, e di un certo Valgio, scampato miracolosamente dal naufragio, contro l’avidità rapace di un uomo che voleva impadronirsi del vascello. Una nave di questo Secondiniano era partita dalla Sardegna, carica di grano. Violenta tempesta l’aveva colta, e sbattuta per 23 giorni dalla Sardegna a Roma, da Roma in Campania, dalla Campania in Africa, dall’Africa in Sicilia, dalla Sicilia finalmente nel Bruzio. Dell’equipaggio, tranne il vecchio Valgio, non c’era più nessuno sulla nave. L’equipaggio s’era buttato in mare, sperando di salvarsi, ma si annegò. Valgio, abbandonato dai compagni, nella sentina, non fu solo. Con lui, che da tempo anelava al Battesimo, fu sensibilmente il Salvatore, mentre il martire di Nola, Felice, sedeva a poppa. Valgio, approdato nel Bruzio, accorse a Nola per ringraziare san Felice, e raccontò la storia meravigliosa a san Paolino. E san Paolino la riproduce in questa lettera con particolari estremamente pittoreschi. Il Salvatore che lavora per Valgio, e con Valgio, vuole che egli lavori di giorno, ma lo lascia andare a riposare la notte; e poi, quando è ora di svegliarlo, gli si accosta adagio, lo tocca teneramente perché non si ridesti con un soprassalto spaventoso, arriva a accarezzargli delicatamente l’orecchio. È tanto l’entusiasmo da cui è preso Paolino a questi particolari del racconto, che se non fosse per il timore di una ferita egli taglierebbe la sommità dell’orecchio a Valgio, per conservarla come reliquia. È a questo punto che vien fuori, per analogia, il ricordo dei luoghi santi della Palestina e delle reliquie della Passione. Scrive san Paolino: «Si va a Gerusalemme per vedere e toccare i luoghi nei quali fu corporalmente presente Cristo, e ove si ammirano i ricordi della sua Passione; ebbene, se è motivo di consolazione e di frutto spirituale il solo vedere quei luoghi, il riportarne un po’ di polvere o una scheggia minuta del legno della croce, che grazia maggiore e più abbondante non è quella di vedere quell’uomo [Valgio] a cui il Salvatore ha parlato, che ha riscaldato col suo seno, adagiato sulle sue ginocchia, di carezzare colui che Cristo ha toccato con le sue mani?
“Si ergo religiosa cupiditas est loca videre in quibus Christus ingressus et passus est, et resurrexit, et unde conscendit, et, aut de ipsis locis exiguum pulverem, aut de ipso crucis ligno aliquid saltem festucae simile sumere et habere benedictio est, considera quanto maior et plenior grafia sit, vivum senem vel testimonio divinae veritatis inspicere.
Si praesepe nati, si fluvius baptizati, si hortus orantis Magistri, si atrium iudicati, si columna districti, si spina coronati, si lignum suspensi, si saxum sepulti, si locus resuscitati evectique, memoria divinae quondam praesentiae celebratur, quam religiose aspiciendus est hic, quem alloqui Dei sermo dignatus est, cui se facies divina non texit”» (n. 14 - col. 407 della PL, vol. LXI). Dunque nei primi anni del secolo V la Corona di Spine doveva trovarsi in Gerusalemme esposta alla venerazione dei fedeli. Altra testimonianza della presenza della Corona di Spine in Gerusalemme in questa epoca è data dal Breviarium de Hierosolyma, dove si legge esistere «Corona de spinis [...] in media basilica».
Così anche quella di Antonino Piacentino, del secolo VI, che nel suo Itinerarium ricorda la Corona di Spina «in ipsa ecclesia Sion»[2]. Ecco perché da questa città, fin dal 323, sant’Elena avrebbe inviato due Spine alla Chiesa di Santa Croce di Gerusalemme in Roma e altre a Trèves, città antica nella Gallia, ora compresa nella Prussia Renana.
Cassiodoro, verso il 575, nel suo Commentarium ad Psalm. LXXXVII, accenna alla Corona di Spine in Gerusalemme.
In questo stesso VI secolo san Gregorio di Tours, pur non indicando la località ove si trovava la Reliquia, già accennava ai segni straordinari su di essa riscontrati, e scriveva: «Ferunt etiam ipsos Coronae sentes quasi virides apparare; quae tamen si videantur aruisse foliis, quotidie tamen revirescere virtute divina» (De Gloria Martyrum, Lib. I., cap. VII).
Nell’801 Hassan, governatore di Gerusalemme, dava una Spina a Carlo Magno. Nell’870, Bernardo il Monaco, ci assicura che la Corona era venerata nella città di Gesù. Foucher, abbate di San Benigno, nel 944 porta da Gerusalemme una Spina nel suo monastero a Digione. Nel 1044, la città di Avignone riceve una Spina dal Vescovo Benedetto I, reduce da Terra Santa. Intanto nel 1092 l’imperatore Alessio I Comneno, in una lettera a Roberto di Fiandra, fra le reliquie allora conservate a Costantinopoli, cita la Corona di Spine (Exuviae Sacrae Const. II, p. 203). Dunque in tale anno la Santa Reliquia è già passata da Gerusalemme a Costantinopoli.
La diaspora delle Spine
Nondimeno in questo primo periodo
è da ritenere che varie Spine già si trovassero anche presso gli Imperatori
d’Oriente, o perché avevano visitato i Luoghi Santi, o perché le avevano
ricevute in omaggio. Il certo è che gli stessi Imperatori o Patriarchi di
Gerusalemme ne facevano dono. Se non si pensa così, le notizie si imbrogliano
in tal modo che non si riesce a trovare una via di uscita. Difatti si dice che
nel 565, san Germano, vescovo di Parigi, avesse avuto in dono una Santa Spina
dall’Imperatore d’Oriente, quando passò per Bisanzio (Baron. Ann. 561, n. 14);
tale reliquia nel Medioevo si trovava a Saint-Germain-des-Prés di Parigi. Ma si
tratta di una testimonianza poco attendibile, perché non è affatto sicura la
peregrinazione di san Germano. Nel 770 vi è notizia che Costantino Copronimo
abbia donato a Carlo Magno alcune Spine. Nel 798 l’imperatrice Irene inviò otto
Spine a Carlo Magno che furono depositate nella Basilica di Aix-la-Chapelle e
poi distribuite ad altre chiese. Nel 799, come riferisce Aimoin, religioso
dell’Abbazia di Fleury, Carlo Magno ricevette dal Patriarca di Gerusalemme,
Thomas, molte reliquie, tra cui una Santa Spina, che poi passarono al monastero
di Charroux. Analogamente, anche dopo la traslazione della Corona da
Gerusalemme a Costantinopoli (1090), qualche Spina dovette rimanere in
Palestina, o nella stessa città di Gesù o presso privati. Difatti nel 1104, Ugo
del Cassero, reduce dalla Terra Santa, portò una Spina a Fano, in Italia. Così
anche Enrico il liberale, il fondatore della Chiesa di Saint-Etienne a Troyes,
portò da Terra Santa una Spina (1179). E verso il 1290 la cittadina di Megli,
presso Genova, ebbe una Santa Spina dall’ammiraglio Ageno, reduce dalla Palestina.
Misterioso approdo a
Costantinopoli
Non sappiamo con certezza come,
quando, e perché le reliquie della Passione di Nostro Signore, compresa la
Santa Corona, siano passate a Costantinopoli; probabilmente affinché fossero
state meglio custodite nel tesoro del palazzo imperiale.
È assolutamente sicuro il documento già citato con cui è riferito che Alessio Comneno nel 1392 abbia ricordata la Santa Corona come già presente a Costantinopoli. E nel 1100 lo stesso Imperatore diede un frammento della Corona a Raymond de Saint-Gilles, che lo depositò a Saint-Trophime d’Arles.
Durante la Quarta Crociata (1202-1203) il card. Capuano portò da Costantinopoli ad Amalfi varie reliquie della Passione, tra cui una Santa Spina. Nel 1205, Nivelon de Cherizy, vescovo di Soissons, reduce da Costantinopoli, donava una spina alla sua Cattedrale. Nel 1206, Enrico, imperatore di Costantinopoli, regalò una Spina al Conte Alberto di Moha; poi la reliquia passò alla Chiesa di Huy. Nello stesso anno, il medesimo Imperatore, ne donò un’altra a suo fratello Filippo, marchese di Namur; poi la Reliquia passò alla chiesa di Saint-Antin nella stessa Namur. Tra il 1224 e 1232 un monaco di Clairvaux, a nome Hugues, portò una Spina da Costantinopoli alla sua Abbazia. Ed è in questo periodo che ebbero Spine in Italia la Chiesa di Belluno e qualche altra, tra cui Amalfi.
È assolutamente sicuro il documento già citato con cui è riferito che Alessio Comneno nel 1392 abbia ricordata la Santa Corona come già presente a Costantinopoli. E nel 1100 lo stesso Imperatore diede un frammento della Corona a Raymond de Saint-Gilles, che lo depositò a Saint-Trophime d’Arles.
Durante la Quarta Crociata (1202-1203) il card. Capuano portò da Costantinopoli ad Amalfi varie reliquie della Passione, tra cui una Santa Spina. Nel 1205, Nivelon de Cherizy, vescovo di Soissons, reduce da Costantinopoli, donava una spina alla sua Cattedrale. Nel 1206, Enrico, imperatore di Costantinopoli, regalò una Spina al Conte Alberto di Moha; poi la reliquia passò alla Chiesa di Huy. Nello stesso anno, il medesimo Imperatore, ne donò un’altra a suo fratello Filippo, marchese di Namur; poi la Reliquia passò alla chiesa di Saint-Antin nella stessa Namur. Tra il 1224 e 1232 un monaco di Clairvaux, a nome Hugues, portò una Spina da Costantinopoli alla sua Abbazia. Ed è in questo periodo che ebbero Spine in Italia la Chiesa di Belluno e qualche altra, tra cui Amalfi.
Da Parigi un felice riscatto
Fondato poi a Costantinopoli
l’impero greco-latino dopo la Quarta Crociata, bandita nel 1202, ne fu
affidato, nel 1228, il governo a Baldovino di Fiandra che era stato capitano
della spedizione.
Dieci anni dopo, Baldovino venne in Francia per chiedere aiuto contro i nemici del suo Impero; e frattanto gli giunse notizia che i suoi ministri a Costantinopoli, per necessità finanziarie, stavano trattando con alcuni stranieri per impegnare la Santa Corona di Nostro Signore. Baldovino ne propose l’acquisto al santo re, Luigi IX, suo cugino; il Re, incoraggiato dalle istanze della sua piissima madre, accettò la proposta e mandò a Costantinopoli, con sua lettera, i domenicani padre Giacomo e padre Andrea per ritirare la Santa Corona. Ma la Corona, almeno come parola data, era già impegnata ai Veneziani, con diritto però di riscatto entro certi limiti di tempo. Si convenne che i domenicani con alcuni ambasciatori di Costantinopoli fossero andati a Venezia per portare la Corona, ma, nello stesso tempo, per riscattarla. Terminato il viaggio, la Santa Corona fu temporaneamente depositata nella Basilica di San Marco. Il riscatto fu eseguito al prezzo di 160.000 lire venete, pari a 135.000 lire torinesi, e la Santa Reliquia partì alla volta di Parigi. Il 10 agosto 1239, i domenicani arrivarono a Villeneuve, dove furono incontrati dal Re, con la madre Bianca, con i fratelli Roberto d’Artois e Carlo d’Angiò e da tutti i grandi di Francia; il giorno seguente entrarono in Sens, ove la Santa Corona fu esposta nella cattedrale[3]. Otto giorni dopo, la preziosa Reliquia faceva il suo ingresso a Parigi tra il tripudio e la devozione del popolo, e fu deposta nella cappella del Palazzo Reale, fino allora detta di San Nicola, che in seguito il Re rifece con ricchezza meravigliosa e che poi fu consacrata nel 1248 sotto il titolo di cappella della Santa Corona di Spine. Arricchita da papa Innocenzo III di moltissimi privilegi, fu chiamata comunemente la Sainte-Chapelle. Pervenuta la Santa Corona a Parigi, molte Spine furono in seguito donate dai Re di Francia alle Chiese di Francia, di Spagna e d’Italia (Exuviae Sacrae Costant., II, pp. 125 ss). Varie Spine furono portate anche nel Napoletano da Carlo I d’Angiò; basterà ricordare quelle donate alla Cattedrale di Napoli, nonché a Bari e ad Andria.
La Santa Corona rimase nella Sainte-Chapelle fino al 1791.
Anche dopo la traslazione della Santa Corona a Parigi dovettero rimanere a Costantinopoli delle reliquie di Spine presso chiese o privati. Difatti una delle Spine di Vicenza (non quella donata da Luigi IX a Bartolomeo di Braganza nel 1259) porta documento di essere venuta da Costantinopoli nel 1343. Così pure le Spine di Pavia furono dono di Manuele II Patologo, nel 1400. La Santa Spina di Belluno è dono di mons. Buffarelli, che verso il 1470 l’aveva ricevuta da un religioso, reduce da Costantinopoli.
Dieci anni dopo, Baldovino venne in Francia per chiedere aiuto contro i nemici del suo Impero; e frattanto gli giunse notizia che i suoi ministri a Costantinopoli, per necessità finanziarie, stavano trattando con alcuni stranieri per impegnare la Santa Corona di Nostro Signore. Baldovino ne propose l’acquisto al santo re, Luigi IX, suo cugino; il Re, incoraggiato dalle istanze della sua piissima madre, accettò la proposta e mandò a Costantinopoli, con sua lettera, i domenicani padre Giacomo e padre Andrea per ritirare la Santa Corona. Ma la Corona, almeno come parola data, era già impegnata ai Veneziani, con diritto però di riscatto entro certi limiti di tempo. Si convenne che i domenicani con alcuni ambasciatori di Costantinopoli fossero andati a Venezia per portare la Corona, ma, nello stesso tempo, per riscattarla. Terminato il viaggio, la Santa Corona fu temporaneamente depositata nella Basilica di San Marco. Il riscatto fu eseguito al prezzo di 160.000 lire venete, pari a 135.000 lire torinesi, e la Santa Reliquia partì alla volta di Parigi. Il 10 agosto 1239, i domenicani arrivarono a Villeneuve, dove furono incontrati dal Re, con la madre Bianca, con i fratelli Roberto d’Artois e Carlo d’Angiò e da tutti i grandi di Francia; il giorno seguente entrarono in Sens, ove la Santa Corona fu esposta nella cattedrale[3]. Otto giorni dopo, la preziosa Reliquia faceva il suo ingresso a Parigi tra il tripudio e la devozione del popolo, e fu deposta nella cappella del Palazzo Reale, fino allora detta di San Nicola, che in seguito il Re rifece con ricchezza meravigliosa e che poi fu consacrata nel 1248 sotto il titolo di cappella della Santa Corona di Spine. Arricchita da papa Innocenzo III di moltissimi privilegi, fu chiamata comunemente la Sainte-Chapelle. Pervenuta la Santa Corona a Parigi, molte Spine furono in seguito donate dai Re di Francia alle Chiese di Francia, di Spagna e d’Italia (Exuviae Sacrae Costant., II, pp. 125 ss). Varie Spine furono portate anche nel Napoletano da Carlo I d’Angiò; basterà ricordare quelle donate alla Cattedrale di Napoli, nonché a Bari e ad Andria.
La Santa Corona rimase nella Sainte-Chapelle fino al 1791.
Anche dopo la traslazione della Santa Corona a Parigi dovettero rimanere a Costantinopoli delle reliquie di Spine presso chiese o privati. Difatti una delle Spine di Vicenza (non quella donata da Luigi IX a Bartolomeo di Braganza nel 1259) porta documento di essere venuta da Costantinopoli nel 1343. Così pure le Spine di Pavia furono dono di Manuele II Patologo, nel 1400. La Santa Spina di Belluno è dono di mons. Buffarelli, che verso il 1470 l’aveva ricevuta da un religioso, reduce da Costantinopoli.
Dalle mani degli empi rivoluzionari
a Notre-Dame
Nel 1791 il Municipio rivoluzionario
di Parigi fece mettere i suggelli al tesoro della Cappella Reale. Nondimeno
Luigi XVI poté sottrarre alcune sante reliquie della Passione di Nostro Signore
e con esse la Corona, che nel 12 marzo dello stesso 1791 fece trasportare
all’Abbazia di Saint-Denis. Ivi le reliquie rimasero fino all’11 novembre 1793.
Dopo questa data il Municipio di Saint-Denis le rinviò a Parigi, per farne un
omaggio alla Convenzione, qualificandole quali oggetti adatti ad alimentare la
superstizione nei popoli (!). Fu rotto il reliquiario e fuso. La Santa Corona
venne spezzata in tre parti, che poi furono affidate ad una “Commissione
d’arte”, incaricata della conservazione o meno di oggetti di discutibile importanza.
Il Segretario di questa commissione, nel 1794, consegnò gli avanzi della Santa
Corona all’abate Barthélemi, conservatore di monete antiche alla Biblioteca
Nazionale di Parigi. Ivi la Reliquia rimase fino al 1804. In tale anno il card.
Belloy, Arcivescovo di Parigi, ne fece richiesta al Ministro dei Culti e degli
Interni, che la rilasciò nel 26 ottobre dello stesso 1804. Così la Santa Corona
nel 10 agosto 1806 fece il suo ingresso nella Cattedrale di Notre-Dame e
l’Arcivescovo la chiuse in un ricco reliquiario che si vede tuttora; non senza
averne donato alcuni pezzetti alle autorità ecclesiastiche presenti. Da
quell’epoca nei Venerdì Santi la Corona è esposta alla venerazione dei fedeli. Dopo
quest’ultima traslazione della Santa Corona pare che sia cessata ogni
distribuzione di Spine, poiché non ne è rimasto che il solo serto, su cui si
ritiene fossero inseriti i rami spinosi.
Sicché tutte le Sante Spine che sono sparse nelle diverse chiese, e nei conventi e privati, provengono da distribuzioni elargite, sin dai primi anni del Cristianesimo, dai centri di Gerusalemme e da Costantinopoli; molto più poi da Parigi dopo l’arrivo della Corona in questa città. Così la venerazione per le Sante Spine risale fino ai primi secoli del Cristianesimo. Né impari a questo sentimento è stata la venerazione che ad esse ha professata la nostra Italia, che conserva altre preziose reliquie della Passione, tra cui la Sacra Sindone.
Sicché tutte le Sante Spine che sono sparse nelle diverse chiese, e nei conventi e privati, provengono da distribuzioni elargite, sin dai primi anni del Cristianesimo, dai centri di Gerusalemme e da Costantinopoli; molto più poi da Parigi dopo l’arrivo della Corona in questa città. Così la venerazione per le Sante Spine risale fino ai primi secoli del Cristianesimo. Né impari a questo sentimento è stata la venerazione che ad esse ha professata la nostra Italia, che conserva altre preziose reliquie della Passione, tra cui la Sacra Sindone.
[1] Dell’esattezza delle notizie su questo documento sono grato agli illustri
professori Domenico Mallardo e Vitale de Rosa.
[2] Itinera Hierosolymitana, Ed. Geyer, 1898, p. 154, 24.
[3] Tutto ciò fu fedelmente descritto da Galter, arcivescovo di Sens, come si
legge in Acta Sanctorum. 25 Aug. De S. Ludovico rege, XXX.
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