venerdì 25 marzo 2016

La morte di Gesù ed il mistero del velo squarciato

In questo Venerdì Santo, riproponiamo volentieri una riflessione di Rino Cammilleri sul mistero del velo del Tempio squarciato (v. anche qui per il suo significato teologico).
Ecco come lo spiega Vittorio Messori (Patì sotto Ponzio Pilato, Torino, 1992, SEI, pp. 327-329):
Mentre le tenebre accompagnano l’agonia di Gesù, ecco, subito dopo la sua morte, il secondo dei «segni»: «Il velo del tempio si squarciò in due, dall’alto in basso». Così Marco (15,38), ricalcato parola per parola da Matteo (27,51), mentre Luca usa l’espressione «si squarciò nel mezzo» (23,45). Anche qui, naturalmente, è importante, anzi decisivo il segno religioso, il significato teologico. Sentiamo ancora Benoit: «Questo velo è un simbolo, era la separazione che escludeva i pagani dalla religione di Israele. Si tratta probabilmente del velo del Santo, piuttosto che di quello che copriva l’accesso al Santo dei Santi. Era la cortina che nascondeva l’interno del tempio agli ebrei che non fossero sacerdoti e soprattutto (sotto pena di morte) ai non ebrei. Questo velo proteggeva in maniera esclusiva il segreto della religione giudaica, l’intimità di Jahwé presente solo lì, all’interno del tempio. Squarciare il velo significava sopprimere il segreto e l’esclusività. Il culto ebraico cessa di essere privilegio di un popolo, il suo accesso ora è aperto a tutti, anche ai gentili. Ecco il senso profondo di questo fenomeno». Senso profondo sul quale ritorna tra l’altro la Lettera agli Ebrei, dove la cortina del tempio è la carne stessa di Cristo, torturata e morta (Eb 10,19 s.). Dunque, continua Benoit, «questo dettaglio dei vangeli è raccontato per insegnare ai cristiani che, attraverso la morte del Cristo, il culto d’Israele è abolito, la religione diviene universale e Gesù stesso, penetrando per primo nel Tempio che è nei Cieli, apre l’accesso della salvezza a tutti gli uomini». È dunque a simile profondità religiosa che il credente deve soprattutto guardare, evitando il letteralismo che ha spinto qualcuno a osservare che si registrano talvolta, in Medio Oriente, colpi di vento di tale forza da sradicare e sollevare in alto persino grandi tende sotto le quali vive una famiglia beduina. II vento che, portando su Gerusalemme la sabbia del deserto, oscurò il sole, avrebbe potuto anche (dicono) strappare il velo liturgico. Ci si espone però, in questo modo, a due difficoltà: entrambe le due cortine del tempio erano alte sui venti metri e larghe dieci, e di tale peso che (stando a Giuseppe Flavio) per portarle periodicamente a lavare occorrevano decine di sacerdoti, i soli autorizzati a penetrare in quello spazio e a toccare gli arredi. Comunque, quale che fosse la forza del vento, mai avrebbe potuto squarciare quell’enorme cortina «in due, dall’alto in basso» o «nel mezzo» come precisano i vangeli. Resterebbe la possibilità di pensare a un effetto del terremoto di cui parla l’evangelista Matteo, visto che anche dallo stesso Giuseppe Flavio abbiamo notizia di qualche sisma che, proprio in quegli anni, danneggiò il tempio. Pur non escludendo, dunque, un evento reale (per il quale Dio sarebbe intervenuto direttamente: e per lo squarciare la cortina del tempio non occorrevano perturbazioni alle leggi della fisica; o avrebbe agito attraverso cause seconde come un terremoto, se non una singolarissima folata di vento), pur nulla escludendo, dunque, meglio osservare che non siamo poi neppure qui del tutto ai di fuori della storia: anzi abbiamo un segnale ulteriore di radicamento in Israele. In effetti, tutti e tre i vangeli usano, per indicare il velo del tempio, la parola katapétasma, che è il termine tecnico corretto, confermato da altre fonti. C’è, qui, dunque un altro elemento di «continuità» tra i vangeli e la società ebraica prima del 70: un indizio tra i tanti che i redattori conoscevano bene la realtà di cui parlavano; una conferma ulteriore che proprio nella Palestina di prima della catastrofe del 70 si è formata la tradizione evangelica. E una considerazione che può estendersi anche agli eventi che il solo Matteo aggiunge: lo scoperchiamento di tombe, la risurrezione di «molti santi», il loro ingresso nella «Città Santa». Vedemmo che si tratta di uno «scenario» tipicamente ebraico per indicare il Gran Giorno di Jahwé. Dunque, anche questi particolari - che per certa critica sarebbero la conferma di ciò che uno studioso ha definito «lo scatenamento di fantasie nate negli angiporti ellenistici» - sono al contrario, per chi conosca le cose, una garanzia di inserimento nella tradizione ebraica.

Cristo rimuove il velo del Tempio, XVIII sec.

LA MORTE DI GESÙ E IL MISTERO DEL VELO DEL TEMPIO CHE SI SQUARCIÒ NEL MEZZO

di Rino Cammilleri (da Il Timone, gennaio 2014)

Dicono i Vangeli che, appena morto Gesù, il velo del Tempio si squarciò. I Vangeli, stringati resoconti storici, ci vengono ripetuti da duemila anni ogni domenica e, come accade delle cose cui si è fatta l’abitudine, finiscono col divenire parte del panorama consueto. Mi si passi l’esempio, è come vedere per la prima volta un bel paesaggio. La sua bellezza desta meraviglia e piacere ma, se si va ad abitare proprio lì davanti, in pochi giorni la meraviglia e il piacere svaniscono. L’abitudine, insomma, uccide lo stupore e un importante dettaglio, a furia di starci sotto il naso, rischia di non venire mai colto. Così è per il velo del Tempio cui accennavamo, un particolare che a noi forse dice poco ma che per gli astanti di allora deve essere stato sconvolgente. 
A ben rifletterci, tutto nella morte di Gesù fu anormale, a cominciare da quel condannato che, fino all’ultimo respiro, non aveva smesso di dire di essere il Messia atteso. Già questa ostinazione, sovrumana in chi sta per morire, avrebbe dovuto inquietare coloro che quella condanna avevano provocato: è pensabile che un truffatore truffi anche mentre è in agonia?. Poi abbiamo le tre ore di tenebre, da mezzogiorno alle tre (le ore di solito più luminose, specialmente in un giorno di aprile). Non era un’eclisse, sia perché la Pasqua ebraica si svolgeva in plenilunio (dunque, la luna era dall’altra parte della terra e non poteva perciò essere davanti al sole), sia perché le eclissi durano pochi minuti. Infine il velo: «Ed il velo del Tempio si squarciò nel mezzo» (Lc 23,45); «Ed il velo del Tempio si squarciò in due dall’alto in basso» (Mc 15,38). 
Matteo, il cui racconto è rivolto agli ebrei (i quali potevano facilmente verificarlo, magari chiedendo ai più anziani), dice di più: «Ed ecco che il velo del Tempio si squarciò in due, dall’alto in basso, e la terra si scosse, e le pietre si spezzarono, e si aprirono le tombe, e molti santi, i cui corpi riposavano, risuscitarono e, usciti dalle tombe, dopo la sua risurrezione entrarono nella città santa e apparvero a molti» (27,51). Qualcuno si stupì di quel che accadeva, in primis il centurione e il suo manipolo sotto la croce. Matteo: «Il centurione e gli altri che con lui stavano a guardia di Gesù, vedendo il terremoto e quanto era accaduto, furono presi da terrore, dicendo: “Veramente costui era Figlio di Dio”» (27,54). Già: avevano sentito chiaramente il Nazareno raccomandare il suo spirito al Padre prima di morire. «E tutti i gruppi che avevano assistito a questo spettacolo, considerando le cose avvenute, se ne tornarono percuotendosi il petto» (Lc 23,48). Costoro, tuttavia, essendo sul Golgota, non potevano sapere quel che accadeva al velo del Tempio. Ma di certo lo seppero i sacerdoti, e a maggior ragione quel Sinedrio che aveva fatto di tutto perché Gesù finisse in croce. 
Il cosiddetto Velo del Tempio, infatti, non era una tenda qualsiasi, e non solo per il suo aspetto simbolico. Di veli, nel Tempio di Gerusalemme, ce n’erano due: uno stava davanti all’altare dell’incenso, dove i sacerdoti accedevano ogni giorno; l’altro separava la zona riservata ai sacerdoti da quella del Santo dei Santi, nella quale poteva entrare solo il Sommo Sacerdote una volta all’anno nel Giorno dell’Espiazione. Fu quest’ultimo il velo che si squarciò. E i sacerdoti del cortile dell’incenso lo trovarono diviso in due, dall’alto in basso. Ma la meraviglia sta nel fatto che si trattava di un drappo enorme. Alto quasi venti metri e spesso dieci centimetri. Dice lo storico Flavio Giuseppe che neanche la forza di due cavalli, uno di qua e uno di là, sarebbe riuscita a lacerarlo. Per tirarlo giù, arrotolarlo e portarlo a lavare ci volevano decine di uomini (pare una settantina). Perché un velo (Parokhet, questo il suo nome in ebraico) e non una normale è più pratica porta? Perché così obbligava la Scrittura: «Farai poi una cortina di porpora violacea e scarlatta, di cremisi e di lino fine ritorto, lavorato a ricamo, con cherubini, e l’appenderai a quattro colonne d’acacia ricoperte d’oro, con ganci d’oro e posate sopra quattro basi d’argento. Metterai la cortina sotto i fermagli; e, al di là della cortina, nell’interno, vi collocherai l’Arca della Testimonianza; e la cortina servirà da divisione tra il luogo Santo e quello Santissimo» (Es 26,30). Infatti, ancora oggi nelle sinagoghe si usa un velo Parokhet, che fa da sipario sulla parte anteriore dell’Aron Kodesh, dove si conservano i rotoli della Torah. Ma la lacerazione del Velo del Tempio di Erode, all’ora della morte di Cristo, dovette per forza essere un fatto che destò sensazione e la cui notizia fece il giro di Gerusalemme. La città, ricordiamolo, in quei giorni era affollatissima per la ricorrenza della Pasqua, cui accorrevano ebrei da ogni parte del mondo. 
E vediamolo da vicino, questo fatto impressionante, avvenuto, oltretutto, in concomitanza con un terremoto e mentre Gerusalemme era ancora avvolta dal misterioso oscuramento del sole. Perché gli evangelisti, senza tema di smentita, affermano che il Parokhet si strappò «dall’alto in basso»? Evidentemente il drappo era, sì, lacerato ma non del tutto: la parte più bassa, quella che toccava terra, doveva essere rimasta intatta. Dunque, lo strappo era partito dall’alto. Ma poteva ciò essere accaduto per effetto dello scuotimento tellurico? Difficile, se non impossibile. I terremoti spezzano gli oggetti rigidi, pietre, travi, vetri. E un drappo, per quanto ampio, è morbido e flessibile. La testimonianza unanime che il Parokhet si squarciò dall’alto in basso, per quanto laconica ed essenziale, fa pensare ad alcune cose. Una: il velo non era caduto per terra ma era ancora in piedi. Due: lo squarcio non era artificiale, perché, anche adoperando diverse pariglie di cavalli, si sarebbe proceduto necessariamente nella parte bassa. Tre: che parecchi uomini robusti si siano arrampicati per venti metri onde procedere al taglio dall’alto è semplicemente assurdo, dato il luogo e le circostanze. Non solo: sarebbe mancato il movente. E ricordiamoci che lì potevano entrare solo i sacerdoti. Infine, sappiamo che il Parokhet era una tenda, plausibilmente agganciata a occhielli metallici che scorrevano in una sbarra orizzontale o fornita essa stessa di occhielli che scorrevano in una sbarra oppure direttamente (ma non permanentemente) fissati all’architrave. Per tutto ciò, uno squarcio repentino e dall’alto non poteva essere che di natura soprannaturale. Qualcuno ha osservato che il fatto richiama lo stracciarsi delle vesti del Sommo Sacerdote quando sentì il Nazareno ammettere che, sì, il Messia era davvero lui. Adesso era Dio stesso che, alla morte di suo Figlio, stracciava la veste che Lo ricopriva (il Santo dei Santi era la sede della Presenza di Dio). 
Dio, insomma, se ne andava dal suo Tempio? Se dobbiamo credere al solito Giuseppe Flavio, non ancora. Nella Guerra giudaica scrive che l’abbandono definitivo del Tempio da parte di Dio avvenne esattamente trentatré anni dopo, nel 66. Nella Pentecoste di quell’anno a Gerusalemme si udì nel Tempio una moltitudine di voci che gridavano «Noi ce ne andiamo da qui!». Pochi mesi dopo scoppiò la rivolta antiromana che doveva concludersi nel 70 con la distruzione del Tempio. 
Vale solo la pena di accennare al dato che il Tempio, da allora, non fu più ricostruito. E non fu fatto perché mai più si poté. L’unico tentativo seriamente intenzionato fu quello dell’imperatore Giuliano, non a caso detto l’Apostata, nel 362. Giuliano, per fare un dispetto ai cristiani, non solo permise agli ebrei di ricostruire l’antico Tempio ma finanziò pure l’opera. Narra lo storico Ammiano Marcellino che l’incarico fu dato ad Alipio di Antiochia, che era stato prefetto vicario in Britannia e che operò di concerto col governatore della provincia. Solo che, durante i lavori per lo scavo delle fondamenta, «paurosi globi di fuoco» eruppero dal terreno bruciando gli operai. E non una volta sola. Alla fine, poiché i lavoranti erano sempre ricacciati indietro da queste vampate improvvise, fu giocoforza mollare l’impresa e chiudere il cantiere. L’imperatore, poi, fu subito preso da più gravi incombenze, soprattutto quella campagna contro i Persiani nella quale doveva trovare la morte. Tornati gli imperatori cristiani, naturalmente non se ne parlò più. Nel VII secolo Gerusalemme fu occupata dai Persiani, che però ci rimasero poco perché cacciati dai bizantini dell’imperatore Eraclio. Poi fu il turno degli arabi musulmani. I quali, ancora oggi, hanno sul luogo in cui sorgeva il Tempio la moschea di Al-Aqsa, uno dei loro luoghi più sacri. Pare che un eventuale nuovo Tempio non possa sorgere altro che là, nel punto esatto in cui Abramo stava per sacrificare Isacco. Ma questa è un’altra storia…

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