sabato 23 aprile 2016

23 aprile 1616, il giorno in cui l’Occidente si scoprì improvvisamente più povero

Il 23 aprile 1616 morivano sia Shakespeare (il quale era nato proprio un 23 aprile di 52 anni prima) sia Cervantes. Entrambi si spegnevano nella festa di S. Giorgio il megalomartire, cioè proprio nella festa di quel santo che è considerato patrono delle milizie cristiane e vero archetipo del cavaliere e del milite cristiano, figura che ispirarono entrambi gli autori (cfr. Carlo Ossola, Cervantes, il cavaliere dell’ideale, in Avvenire, 23.4.2015; Francesco Olivo, Così il cavaliere errante ispirò una commedia di Shakespeare, in La Stampa, 15.3.2016).
Va ricordato che il vero milite cattolico, come ci rammenta un nostro amico, è il “defensor Ecclesiarum, viduarum, orphanorum, omniumque Deo servientium, contra sævitiam paganorum, atque hæreticorum” (Pont. Rom., De creat. novi militis), che usa la spada per punire i malvagi, per proteggere i deboli e gli onesti e per difendere la patria ma anche per vendicare i diritti di Dio e della Santa Chiesa ove essi vengano conculcati (anche se a farlo è lo Stato). Seguendo questa strada conquistarono il Paradiso, oltre a Giorgio, anche Sebastiano, Gavino, Lussorio, Marcello, Giorgio, Maurizio, Agazio, Alessandro e tanti altri che preferirono servire Cristo piuttosto che sacrificare agli idoli e/o opprimere la Chiesa. Così si fecero santi nella milizia Ferdinando III, Luigi IX e tanti altri uomini sconosciuti che partirono alla crociata contro gli infedeli o gli eretici con la Fede nel cuore e benedetti da Cristo e dal suo vero Vicario, in difesa della Christianitas, dell’unico vero Ordine voluto dalla Provvidenza.


S. Giorgio ed il drago, Cripta della Basilica di S. Giorgio, Lydda (l'odierna Lod, presso Tel Aviv)


Bassorilievo del sarcofago di S. Giorgio, Cripta, Basilica di S. Giorgio, Lydda

Jan van der Straet, S. Giorgio ed il drago, 1563-64, Badia delle Sante Flora e Lucilla, Arezzo

Martin Wiegand, S. Giorgio ed il dragone, 1915



23 aprile 1616, il giorno in cui l’Occidente si scoprì improvvisamente più povero

di Elisabetta Sala

La scomparsa contemporanea di Shakespeare e Cervantes e l’emergere di Francis Bacon rappresentano un scontro di civiltà che rivela molto di quello che siamo oggi


Stratford, 23 aprile 1616. Nel suo piccolo maniero, il privato cittadino William Shakespeare si spegneva placidamente (si pensa), circondato da parenti e amici. Intanto l’Inghilterra, anzi, la neonata Britannia, proseguiva la discesa sul piano inclinato che l’avrebbe portata prima al conflitto civile e poi a un ventennio di dittatura puritana. E lì fu la fine, per i teatri. Giacché, non appena quei signori furono padroni della città di Londra (nel 1642), fecero chiudere o demolire tutti i luoghi di intrattenimento.
Il tramonto di Shakespeare coincise dunque con il tramonto della gioia e del divertimento in tutto il Regno. Basti pensare che, pochi anni dopo la sua morte (nel 1622), quella che era stata la sua compagnia si presentò a Stratford per recitare davanti al popolo, ma fu invece pagata per allontanarsi. Il teatro era già “attività non grata”.
La grande stagione teatrale elisabettiano-giacobita aveva costituito un ultimo baluardo di indipendenza, una esigua fetta di vita quotidiana che il governo non era riuscito a controllare completamente. A contatto diretto col popolino, gli attori non disdegnavano battute satiriche sui potenti, né gli autori erano facili da imbrigliare. Anche lo stile era stato all’insegna della massima libertà: incuranti del pesante classicismo che andava affermandosi oltremanica, i drammaturghi inglesi avevano rigettato ogni regola prestabilita. In ciò Shakespeare era stato maestro, scatenando l’immaginazione, mescolando stili e registri, aprendo abissi di significato; il che conferisce (ancora oggi) alle sue opere una complessità tale da lasciarle sempre aperte a molteplici strati interpretativi.

Un linguaggio magico

Amava giocare baroccamente con le parole: più significati avevano, più gli piacevano. Giustamente famosi sono i suoi “puns”, basati su omofonie, in frasi ambigue che mescolavano i figli (sons) con i soli (suns), le suole delle scarpe (soles) con le anime (souls). E gli piaceva inventarne di nuove, quando la lingua che aveva a disposizione si rivelava insufficiente a rendere ciò che gli sgorgava dalla mente. Perché il linguaggio, ci dice il suo Prospero nella Tempesta, è magia e permette di costruire «torri svettanti tra le nubi».
Ebbene, a un certo punto del Seicento tutto questo non piacque più. Una nuova sensibilità si stava facendo strada. In quel fatidico giorno di quattrocento anni fa, l’uomo del futuro di Britannia non era certo Shakespeare, ritiratosi dalle scene quasi in sordina, forse chiedendo solamente di essere lasciato in pace a invecchiare e morire tra i suoi. L’astro nascente, l’uomo che si sarebbe adattato perfettamente alla nuova era fino a diventarne il profeta, non era un letterato né tanto meno un attore, bensì un uomo della medesima generazione ma con i piedi ben per terra: giurista, cortigiano, filosofo, scienziato. Parliamo di Francis Bacon (1561-1626).
Le sue opere (tutte in prosa) sono all’insegna dei tempi nuovi; portano nomi come The Advancement of Learning (1605), Novum Organum (1620), Augmentis Scientiarum (1623), The New Atlantis (1627). Era un entusiasta del progresso, oltre che della strada recentemente intrapresa dalla Britannia verso la costruzione di un impero. A Bacon si richiamarono, nel 1662, i fondatori della Royal Society, il club di scienziati che andò a costituire, in una peculiare collaborazione tra puritanesimo e scienza, uno dei pilastri dell’Illuminismo.

Il nuovo astro nascente

In nome dell’empirismo, Bacon e soci decretarono obsoleta e defunta tutta la tradizione: non solo quella scientifica, ma anche quella filosofica e letteraria. Fu di fronte a lui, e a tutto il movimento razionalista che ne seguì, che l’eredità di Shakespeare parve uscire sconfitta. Furono Bacon e i suoi seguaci a indicare il cammino. Basta con la magia teatrale, basta con la fantasia, basta con la creazione poetica e con tutte quelle inutili favole. Non è finita: basta anche con i barbarismi nella lingua. Basta con le espressioni ambigue, finiamola di usare parole passibili di interpretazioni diverse e opposte.
Sulla falsariga di Calvino i nuovi intellettuali, tutta gente molto seria, decretarono che, in nome della chiarezza, a ogni parola dovesse corrispondere un solo significato. Tagliarono ogni orpello, semplificarono discorsi e frasi. Più avanti, toccò all’amara satira swiftiana prendersi gioco di loro.
Bacon sdoganò altresì una nuova interpretazione della scienza: non più semplicemente studio della natura, ma manipolazione e dominio. Suo è il detto tantum possumus quantum scimus: praticamente, sapere è potere. Nella sua personale utopia, la Nuova Atlantide, egli vagheggia (profeticamente) un mondo governato dagli scienziati, teorizzando la liceità di ogni tipo di esperimento. La natura va soggiogata e aggiogata, non servita. Potere, sperimentazione illimitata, tecnocrazia: pare di essere nel futuro. Cioè, ai giorni nostri. Probabilmente i nostri giochi da apprendisti stregoni avrebbero affascinato Bacon, laddove Shakespeare fa invece dire al suo Macbeth: «Io oso fare tutto ciò che si addice a un uomo; chi osa di più non è un uomo».
Bacon fu pragmatico anche nella vita: seppe appoggiarsi agli uomini giusti (come il conte di Essex) per poi abbandonarli al momento opportuno. Così, sebbene con un certo ritardo rispetto a quanto avrebbe voluto, divenne molto ricco e molto famoso e, sotto re Giacomo, entrò nientemeno che nel Consiglio Privato.
Fu quindi tra coloro che, nel 1619, accontentarono la Virginia Company, a dispetto di ogni legge, autorizzando la deportazione nelle colonie americane di 165 ragazzini tra gli otto e i sedici anni. Sei anni dopo, a seguito dei maltrattamenti che subirono, erano rimasti vivi solo in dodici. Ma non per questo le deportazioni si fermarono: negli anni successivi, grazie a quell’apripista, il governo aggiustò il tiro e si fece carico di deportare soprattutto piccoli irlandesi (tanto per cambiare) accusati di qualche delitto.
La carriera politica di Bacon si concluse con una ignominiosa accusa di peculato che gli macchiò la reputazione; ma tant’è. La modernità guarda ai risultati, non alla forma; al fine, non ai mezzi.
Tanto Bacon guardava al radioso futuro della sua patria, quanto Shakespeare, pur nella più audace sperimentazione formale, aveva guardato al passato. Invece che avanti, e diversamente dai drammi di altri autori, le opere shakespeariane guardano indietro, a un mondo perduto tra i fasti dell’antica Roma e le nebbie del Medioevo. Un mondo simboleggiato dal fantasma di Amleto, figura idealizzata di un tempo che ancora credeva nel purgatorio e nell’efficacia dei sacramenti; oppure dal John of Gaunt del Riccardo II, che parla dei valori che avevano reso la vecchia Inghilterra rinomata in tutta la cristianità. Praticamente tutti i drammi shakespeariani sono ambientati in una terra o in un tempo remoti e tutti i personaggi positivi guardano al passato con nostalgia.
Riguardo al presente, invece, i commenti che escono dall’intero Canone sono lapidari, trancianti, il quadro desolante: sono tempi «crudeli», «astuti», «cattivi». Un opportunista come Fitzwater (sempre nel Riccardo II) vuole approfittare dell’arrivismo e della perdita di valori imperanti per prosperare «in questo mondo nuovo», mentre nel Mercante di Venezia gli insidiosi tempi moderni tendono a intrappolare i saggi.

Quando si viveva per l’onore

I drammi storici esaltano il mondo cavalleresco e l’antico codice d’onore, proprio come Falstaff, per contrasto, lo irride (e finisce male). Personaggio picaresco e quasi donchisciottesco, Falstaff è però agli antipodi di don Chisciotte in quanto rifiuta l’eroismo (autentico) dei suoi tempi, mentre l’anti-eroe di Cervantes vorrebbe vivere in quei tempi eroici ma si scontra con lo stemperarsi degli ideali in una modernità che, in nome del pragmatismo e dell’utile, li ha rifiutati. Falstaff e don Chisciotte non sono che due facce di una stessa medaglia: un’elegia sui bei tempi andati in cui si viveva per l’onore. Fu così, guardando al passato attraverso il presente, che entrambi gli autori si assicurarono senza saperlo un posto nel futuro. Ora, indovinate quando morì Cervantes? Lo stesso giorno, il 23 aprile del 1616 (qualche studioso ipotizza il 22, ndr).
Non si capisce perché, ma alcuni di coloro che rifiutano di attribuire l’opera shakespeariana al suo legittimo autore, e cercano invece qua e là altri cervelloni (preferibilmente universitari) che ne siano più degni, ritengono senza ombra di dubbio che il misterioso autore sia proprio Francis Bacon. Ma i due appartenevano a mondi completamente diversi e a due mentalità che non avrebbero potuto essere più lontane; senza contare che Bacon, nella sua fredda e prosaica razionalità, non diede mai segni di particolare sensibilità poetica.
Persino i loro nomi paiono porli in campi diametralmente opposti: mentre “Shake-spear” è un nome da antico guerriero, “Bacon” si limita a evocare il materialismo di chi apprezza la buona tavola. «Mentre l’uno guardava sempre indietro con nostalgia al tempo in cui l’Inghilterra era parte della cristianità», soggiunge Peter Milward, «l’altro guardava sempre avanti, in avida anticipazione, verso la nascita di un Impero Britannico sempre più potente». Tra i due, però, alla fine, non fu Bacon ad aggiudicarsi il titolo di “uomo del Millennio”.
Per spiegare ciò che si interpose tra il mondo di Shakespeare (di Cervantes, di Dante) e il nostro (e di Bacon), T. S. Eliot parlò di «dissociazione di sensibilità». A un certo punto, cioè, nel corso del Seicento, il pensiero intellettuale fu scollato dall’esperienza emotiva. Prima di allora, gli uomini erano dotati di una sensibilità che «poteva divorare qualsiasi tipo di esperienza». Dopo, furono costretti a scegliere tra il pensare e il sentire. Quel 23 aprile del 1616 fu allora uno spartiacque tra passato e futuro, tra tradizione e modernità. Il mattino dopo l’Occidente si risvegliò un po’ più pratico, un po’ più serio, un po’ più povero. E un po’ più “dissociato”.

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