Interessante e misurata analisi
di Mons. Livi, sebbene limitata ahimé solo al problema dei divorziati
risposati. In effetti, l’esortazione post-sinodale presenta serissime criticità
anche al di fuori del discusso e discutibile cap. VIII – su cui avremo modo di
tornare – e, comunque, va ricordato che l’esortazione, sebbene per sua natura
non sia un documento dottrinale, di fatto introduce delle novità pastorali, che
hanno un’indubbia influenza sulla dottrina (a cominciare dall’accesso dei c.d.
divorziati risposati alla Confessione ed alla Comunione, espressamente
richiamati nella nota 351 dell’esortazione, e non solo – come affermato da
Mons. Livi – agli uffici di padrini!). Spesso, infatti, va ricordato, specie
dal Concilio Vaticano II, pur dietro la sbandierata affermazione dell’immodificabilità
della dottrina e con il pretesto di voler “solo” introdurre prassi pastorali
nuove, asseritamente più adeguate ai tempi correnti, nondimeno si è venuto ad incidere
in maniera significativa su aspetti dottrinali, liturgici e morali. A tal
riguardo, lo stesso Giovanni Paolo II, ad es., in un discorso tenuto nel 1981, non
a caso, ebbe modo di affermare: «Bisogna ammettere realisticamente e con profonda
e sofferta sensibilità che i cristiani oggi in gran parte si sentono smarriti,
confusi, perplessi e perfino delusi, si sono sparse a piene mani idee
contrastanti con la Verità rivelata e da sempre insegnata; si sono propalate
vere e proprie eresie, in campo dogmatico e morale, creando dubbi, confusioni,
ribellioni, si è manomessa anche la Liturgia; immersi nel “relativismo”
intellettuale e morale e perciò nel permissivismo, i cristiani sono tentati
dall’ateismo, dall’agnosticismo, dall’illuminismo vagamente moralistico, da un
cristianesimo sociologico, senza dogmi definiti e senza morale oggettiva» (Giovanni Paolo II, Discorso al Primo
convegno nazionale “Missioni al popolo per gli anni ‘80”, 6.2.1981, § 2). All’origine
di quanto lamentato da papa Wojtyla vi è, evidentemente, l’ammissione di prassi
pastorali nuove, tollerate se non incoraggiate dalla gerarchia, ma sovente
difformi rispetto alla lex credendi, che, di fatto, a lungo andare la svuotano
di contenuto pratico e precettivo, rendendola un guscio vuoto da eliminare dal depositum
fidei nel giro di pochi decenni.
Tante affermazioni
che contrastano tra loro
di Antonio Livi
Un documento come l’Esortazione
apostolica post-sinodale Amoris laetitia, per la sua lunghezza e
per il particolare momento della storia della Chiesa nel quale è stato redatto
e promulgato, richiede un commento quanto mai responsabile e prudente, che io
qui faccio avvalendomi della mia competenza specifica nel campo dell’ermeneutica
teologica e della mia lunga esperienza di direzione spirituale di sacerdoti,
religiosi e laici.
1. Debbo premettere, per render
meglio comprensibile quanto sto per dire, che gli atti del Romano Pontefice hanno un valore e una portata
diversi, a seconda della materia della quale trattano e della forma prescelta
per rivolgersi al popolo cristiano. Gli atti del Romano Pontefice (registrati
come tali negli Acta Apostolicae Sedis) possono essere:
1) veri propri
insegnamenti circa la fede e la morale della Chiesa cattolica, nel qual caso il Papa si limita a interpretare
autorevolmente i dogmi già formulati dal Magistero precedente (magistero
universale ordinario), a meno che, parlando ex cathedra, non
enuncia novi dogmi (caso che nella storia si è verificato pochissime volte);
2) nuove norme disciplinari
riguardanti i Sacramenti, la
liturgia, gli incarichi ecclesiastici, eccetera (norme che entrano a far parte
del corpus del diritto canonico, attualmente compendiate nel
Codice di Diritto Canonico per la Chiesa latina e in quello per la Chiesa
Orientale);
3) orientamenti e criteri per la
prassi pastorale che non cambiano
sostanzialmente ciò che è già stabilito nei principi della dottrina dogmatica e
morale, così come non aggiungono o non tolgono nulla a ciò che è prescritto
nelle vigenti leggi della Chiesa.
In base a questa fondamentale
distinzione, diversi sono i doveri di
coscienza di un cattolico, nel senso che:
1) gli insegnamenti del Papa, quando egli intende confermare o sviluppare e verità della fede cattolica, vanno accolti da tutti in fedeli con ossequio esteriore ed interiore della mente e del cuore; analogamente,
1) gli insegnamenti del Papa, quando egli intende confermare o sviluppare e verità della fede cattolica, vanno accolti da tutti in fedeli con ossequio esteriore ed interiore della mente e del cuore; analogamente,
2) gli ordini e disposizioni
disciplinari del Papa vanno rispettati ed eseguiti prontamente da tutti coloro ai quali gli ordini sono
rivolti, per quanto a ciascuno compete direttamente; al contrario,
3) quelli che sono meri
orientamenti per la pastorale vanno accolti da tutti gli interessati, a cominciare dai vescovi,
come criteri da tener presenti nell’esercizio del loro ufficio pastorale di
governo e di catechesi; in quanto criteri, essi entrano a far parte di tutta
una serie di principi di ordine dogmatico, morale e disciplinare che già sono
ordinariamente presenti alla coscienza dei Pastori al momento di prendere
responsabilmente una decisione su situazioni generali della loro diocesi o su
qualche caso concreto.
Ora, l’Esortazione apostolica
post-sinodale, sia per il tipo di
documento che per gli argomenti che in esso vengo o affrontati, è indubbiamente
un atto pontificio del terzo tipo tra quelli che ho prima elencato. In effetti,
come genere di documento pontificio, questa Esortazione non è e non vuole
essere un atto di magistero con il quale si insegnano dottrine nuove, fornendo
ai fedeli nuove interpretazioni autorevoli del dogma.
Si tratta invece di una serie di
indirizzi pastorali, rivolto principalmente ai
vescovi e ai loro collaboratori nel clero e nel laicato, affinché la dottrina
sull’amore umano e sul matrimonio – che viene esplicitamente confermata in ogni
suo punto – sia meglio applicata ai singoli casi concreti con prudenza, con
carità e con desiderio di evitare divisioni all’interno della comunità
ecclesiale. Queste sono le intenzioni del Papa, quali risultano dal tipo di
documento che sto commentando.
Naturalmente, come ogni fedele
cristiano, io, che poi sono anche sacerdote, ho il dovere di accogliere senza riserve queste indicazioni
pastorali, ben disposto a tenerne conto quando si presenti l’occasione di
aiutare i fedeli in difficoltà ad accostarsi ben preparati al sacramento della
Penitenza o di consigliare convenientemente quelli che dovessero trovarsi nelle
condizioni di “divorziati risposati”. Ma ho anche il dovere di interpretare
tali indicazioni alla luce del dogma, della morale e del diritto canonico
vigente, visto che il documento papale non può e non intende abrogare tutto ciò
che la Chiesa ha già stabilito in materia. E quando l’interpretazione si
presenta difficile, per la complessità e l’ambiguità di molte pagine del
documento papale, ho il dovere di rifarmi alla regola d’oro dell’ermeneutica
teologica: «In necessariis, unitas; in dubiis, libertas; in omnibus,
caritas».
2. Io sono sempre stato e sempre
sarò, con la grazia di Dio, un figlio fedele della Chiesa, che non è, come alcuni dicono, «la Chiesa di
Bergoglio» ma è la Chiesa di sempre, la Chiesa di Cristo. Per Cristo ho
venerato tanti papi, da Pio XI a Benedetto XVI e a Francesco. Riguardo alle
indicazioni contenute nella Amoris laetitia, non mi è lecito
dubitare che le intenzioni pastorali del Papa siano tutte sante e tutte a
vantaggio del bene comune della Chiesa di Cristo. Nemmeno posso dubitare che
gli indirizzi pratici da lui suggeriti siano di per sé atti a provvedere il
maggior bene possibile dei fedeli di tutto il mondo cattolico.
Resta però il fatto che la
lettura del documento lascia molto perplessi quanto alla effettiva chiarificazione dei punti messi in discussione
nella Chiesa da alcuni anni, sia da parte di molti teologi di ampia notorietà
internazionale (ad esempio, il cardinale Walter Kasper) sia da parte di una
ristretta ma molto rumorosa minoranza di padri sinodali durante le due sessioni
del Sinodo sulla famiglia.
La discussione all’interno dei
lavori del Sinodo è stata preceduta e seguita
da una amplissima discussione sui media, sia cattolici che laicisti. E l’opinione
pubblica ha percepito come reale l’esistenza di due contrapposte fazioni, una
ostinata a mantenere i “formalismi astratti” del passato e una decisa a
riformare la Chiesa, con quest’ultima che oggi va proclamando in tutto il mondo
cattolico la propria “vittoria finale”, come se il documento pontifico avesse
veramente realizzato quella «rivoluzione» della quale ha parlato Kasper, o
quelle «aperture» delle quali ha parlato il direttore della Civiltà Cattolica,
il gesuita padre Antonio Spadaro, in un’intervista alla Radio
Vaticana.
L’effetto di questa immagine -
troppo umana e in definitiva ideologica - delle discussioni avvenute all’interno del Sinodo è lo sconcerto e il
disorientamento dell’opinione pubblica cattolica riguardo ai grandi temi dottrinali
concernenti la sessualità umana, il matrimonio e la famiglia. Chi ha
sensibilità veramente pastorale non può non desiderare, in tale situazione, un
autorevole intervento pontificio di chiarimento, un discorso accessibile a
tutti, espresso in termini precisi e definitivi: e invece il documento di papa
Francesco, per come è stato recepito dai fedeli (anche per le interpretazioni
strumentali da parte di ambienti ostili alla fede cattolica) ha purtroppo
aumentato lo sconcerto in mezzo al popolo di Dio.
In effetti, il Papa, pur
affermando che non c’è alcun cambiamento nella dottrina, quando parla dei cambiamenti che ritiene
necessari nella prassi delle diocesi e delle conferenze episcopali induce a
credere che egli intenda per “pastorale” un’attività anarchica del clero che,
una volta lasciata la “dottrina” in soffitta, assume come “regola pastorale” le
opinioni “secolari” prevalenti nel proprio ambiente sociale. Così facendo papa
Bergoglio sembra lanciare una severa censura nei confronti delle posizioni “conservatrici”
per giustificare senza riserve le posizioni “riformiste”. A nulla sarebbero
valse le proteste del cardinale Mueller e di molti altri autorevoli prelati
contro la tesi di una prassi disgiunta dalla dottrina, già formulata da molti
teologi e da alcuni padri sinodali; si ricordano, ad esempio, le parole
accorate del cardinale africano Sarah, che aveva ricordato come detto l’idea di
incoraggiare una prassi pastorale che potrebbe evolvere secondo le mode e le
passioni mondane sia «una forma di eresia, una pericolosa patologia
schizofrenica» (cfr. La Stampa, 24 febbraio 2015).
Beninteso, nulla nel testo
scritto può giustificare questa interpretazione, ma la prolissità del testo, l’abuso delle
metafore e l’ambiguità delle affermazioni di principio (talvolta addirittura in
palese contraddizione l’una con l’altra) lasciano aperta la possibilità di ogni
malevola interpretazione, anche da parte di chi non ha alcun titolo per interpretare
il Papa ma approfitta del fatto che il Papa non ha voluto - per motivi che
saranno certamente buoni e santi – essere chiaro e preciso, usando un linguaggio
che potesse evitare ogni strumentalizzazione.
Ciò riguarda soprattutto la
valutazione «caso per caso» della
situazione ecclesiale dei fedeli che hanno mancato alla fedeltà coniugale,
hanno fatto ricorso al divorzio civile e hanno costituito una convivenza
adulterina; si tratta di quelle coppie che erroneamente vengono chiamate di «divorziati
risposati», con un linguaggio che non è teologico, perché nella Chiesa
cattolica c’è un solo matrimonio riconosciuto come valido, quello sacramentale,
che per sua natura è indissolubile e quindi non ammette divorzio né consente
alcuna nuova forma di unione coniugale, sia pure riconosciuta dall’autorità
civile.
Il Papa dice che nulla cambia
nella situazione canonica di queste persone, perché la cosa è stata precedentemente esaminata e giudicata dal papa
Giovanni Paolo II in seguito al Sinodo dei vescovi sulla famiglia svoltosi agli
inizi degli anni Ottanta (cfr. Esortazione apostolica Familiaris
consortio, 22 novembre 1981). Ma la prassi nuova che Francesco consiglia
di adottare in sede di «accompagnamento pastorale» e in “foro interno” è
formulata con espressioni talmente equivoche da consentire ai malintenzionati
di celebrare la grande vittoria dei riformisti, i quali chiedevano appunto al
Papa di introdurre nella prassi ecclesiastica una specie di “divorzio cattolico”,
consentendo l’approvazione da parte dei singoli vescovi delle nuove nozze, così
come l’accesso alla Comunione dei fedeli «in situazione irregolare».
In realtà il Papa non parla
affatto della possibilità di “benedire” le nuove nozze, e nemmeno accenna direttamente di un “diritto
all’Eucaristia”: si limita a consigliare la riammissione di questi fedeli come
padrini ad alcune cerimonie religiose (battesimi, cresime, matrimoni), e invita
a considerare la possibilità di consentire loro di assumere incarichi nelle
parrocchie o di insegnare la religione nelle scuole. Ma gli argomenti addotti a
sostegno di questi criteri di «inclusione ecclesiale» sono purtroppo molto
confusi e possono anche intendersi – certamente contro le reali intenzioni del
Papa – come un radicale cambiamento nella dottrina morale cattolica a riguardo
del peccato grave (detto “mortale” in quanto comporta la perdita della grazia
santificante e il pericolo della dannazione eterna, che la Scrittura chiama «la
seconda morte») e riguardo alla sua imputabilità soggettiva, specie in
relazione con le condizioni per ottenere il perdono sacramentale con la
Confessione.
3. Per documentare quanto ho
detto, riporto adesso alcune espressioni della Amoris laetitia che risultano, se non proprio formalmente
erronee, almeno penosamente confuse. A ogni citazione farà seguito una breve
postilla di chiarimento dottrinale.
Lo stato di peccato mortale. - «Per questo non è più possibile dire che tutti coloro
che si trovano in qualche situazione cosiddetta “irregolare” vivano in stato di
peccato mortale, privi della grazia santificante. I limiti non dipendono
semplicemente da una eventuale ignoranza della norma. Un soggetto, pur
conoscendo bene la norma, può avere grande difficoltà nel comprendere “valori
insiti nella norma morale” si può trovare in condizioni concrete che non gli
permettano di agire diversamente e di prendere altre decisioni senza una nuova
colpa. Come si sono bene espressi i Padri sinodali, “possono esistere fattori
che limitano la capacità di decisione”» (Amoris laetitia, § 301).
Evidentemente, in materia di “peccato
mortale” non ha senso parlare di qualifiche morali che “oggi” sono diverse da
quelle di “ieri”: la dialettica storicistica che tanto piace ai teologi
ascoltati da papa Francesco (come Walter Kasper) è del tutto fuori luogo in un
documento pontificio che dà consigli su come intervenire pastoralmente in una
situazione che dal punto di vista morale è stata definitivamente qualificata
come peccato grave (adulterio) già dal Signore stesso, le cui parole sono state
la norma prossima di valutazione da parte del magistero ecclesiastico di sempre
(non di “ieri”), con un carattere di definitività che non ammette un “oggi”
riformista.
Quanto poi ai “limiti” soggettivi (ignoranza, debolezza, dipendenza da passioni o condizionamenti sociali) che possano rendere meno imputabile in un determinato soggetto l’atto peccaminoso, essi sono sempre stati presi in attenta considerazione dai buoni confessori: ma non per coonestare una situazione che si è prolungata nel tempo e che sembra priva di soluzione proprio perché il peccato è stato ostinatamente ripetuto malgrado gli incessanti inviti della grazia divina alla conversione e alla riparazione dei danni arrecati al coniuge e alla Chiesa. La buona direzione spirituale da parte dei buoni confessori è sempre stata impegnata a suscitare nell’animo del cristiano che fino ad allora non ha mai voluto cambiare vita le risorse per «resistere fino al sangue nella lotta contro il peccato», che è quello che a tutti chiede il Vangelo (cfr. Lettera agli Ebrei).
Quanto poi ai “limiti” soggettivi (ignoranza, debolezza, dipendenza da passioni o condizionamenti sociali) che possano rendere meno imputabile in un determinato soggetto l’atto peccaminoso, essi sono sempre stati presi in attenta considerazione dai buoni confessori: ma non per coonestare una situazione che si è prolungata nel tempo e che sembra priva di soluzione proprio perché il peccato è stato ostinatamente ripetuto malgrado gli incessanti inviti della grazia divina alla conversione e alla riparazione dei danni arrecati al coniuge e alla Chiesa. La buona direzione spirituale da parte dei buoni confessori è sempre stata impegnata a suscitare nell’animo del cristiano che fino ad allora non ha mai voluto cambiare vita le risorse per «resistere fino al sangue nella lotta contro il peccato», che è quello che a tutti chiede il Vangelo (cfr. Lettera agli Ebrei).
Peccato “materiale” e peccato “formale”.
- «A partire dal
riconoscimento del peso dei condizionamenti concreti, possiamo aggiungere che
la coscienza delle persone dev’essere meglio coinvolta nella prassi della
Chiesa in alcune situazioni che non realizzano oggettivamente la nostra
concezione del matrimonio. Naturalmente bisogna incoraggiare la maturazione di
una coscienza illuminata, formata e accompagnata dal discernimento responsabile
e serio del Pastore, e proporre una sempre maggiore fiducia nella grazia. Ma
questa coscienza può riconoscere non solo che una situazione non risponde
obiettivamente alla proposta generale del Vangelo; può anche riconoscere con
sincerità e onestà ciò che per il momento è la risposta generosa che si può
offrire a Dio, e scoprire con una certa sicurezza morale che quella è la
donazione che Dio stesso sta richiedendo in mezzo alla complessità concreta dei
limiti, benché non sia ancora pienamente l’ideale oggettivo. In ogni caso,
ricordiamo che questo discernimento è dinamico e deve restare sempre aperto a
nuove tappe di crescita e a nuove decisioni che permettano di realizzare l’ideale
in modo più pieno» (nn. 302-303).
Ho sottolineato, nel testo
pontificio, l’aggettivo “nostra” riferito alla «concezione del matrimonio»
della Chiesa Cattolica: perché attribuirla a un assurdo “noi”, come se il
soggetto di questa concezione fosse un qualsiasi opinion leader dei tanti che
si agitano nella nostra società e non la Chiesa che custodisce e interpreta
infallibilmente il Vangelo di Cristo? Non era certo questo il linguaggio, ad
esempio, di san Giovanni Paolo II, che nelle sue catechesi sull’amore umano insisteva
nel presentare la morale cattolica come l’espressione puntuale e fedele dell’intenzione
d’amore di Dio creatore, che la Chiesa, depositaria della rivelazione di Gesù
Cristo, si limita a esprimere in formule dogmatiche, dalle quali derivano sia i
“precetti” che i “consigli”, senza nulla inventare e nulla imporre che non sia
davvero il “piano di Dio”.
Il giudizio della Chiesa sull’imputabilità
soggettiva degli atti contrari alla legge di Dio. - «È meschino soffermarsi a considerare solo se l’agire
di una persona risponda o meno a una legge o a una norma generale, perché questo
non basta a discernere e ad assicurare una piena fedeltà a Dio nell’esistenza
concreta di un essere umano» (n. 304).
Qui il discorso è ancora più
ambiguo, perché confonde volutamente la valutazione “esterna” della situazione
morale di un fedele dalla conoscenza della sua situazione “interna” davanti a
Dio: la condizione di coscienza dell’individuo sfugge all’occhio umano, anche a
quello del direttore spirituale o del confessore, e l’autorità della Chiesa non
è chiamata a dare giudizi sulla coscienza («de internis neque Ecclesia iudicat»).
Quindi la valutazione dall’esterno,
per ciò che risulta evidente agli occhi degli uomini, è quanto basta per un
giudizio meramente prudenziale che non pretende di essere assoluto e definitivo
ma riguarda il dovere dell’autorità ecclesiastica di riconoscere i
comportamenti esterni conformi alla legge orale giusti e di sanzionare quelli
ingiusti (un caso tipico di sanzione ecclesiastica, a parte la scomunica per
reati più gravi, è appunto quello di negare l’accesso alla Comunione a chi
pubblicamente vive in una condizione di adulterio senza intenzione di porvi
rimedio). Non può che ingenerare ancora più confusione nei fedeli il fatto che
un Papa parli della legge morale - già codificata dalla Chiesa da secoli in
dogmi e disposizioni canoniche - come di qualcosa di “astratto” che non si può
applicare a situazioni “concrete”. Peggio ancora, parla di situazioni “concrete”
che oggi sarebbero diverse da quelle di ieri, per cui sarebbe legittimo fare
oggi il contrario di quello che ha prescritto il magistero solenne e ordinario
della Chiesa fino a ieri.
In realtà, l’unica differenza tra
ieri e oggi che può essere significativa per la pastorale è che molti fedeli
hanno una coscienza obnubilata dall’ignoranza religiosa e dai vizi, e per
questo non avvertono più il loro peccato come volontaria infrazione delle norme
morali, oppure non riescono ad applicare correttamente la regola morale
(naturale ed evangelica) alla loro personale situazione. Ma se il Papa volesse davvero
assecondare con la nuova prassi del “caso per caso” l’insensibilità degli
uomini del nostro tempo nei confronti del “piano d’amore di Dio”, allora
avrebbero ragione coloro che hanno visto la sua Esortazione come una resa
totale del Magistero all’opinione pubblica, alla secolarizzazione, alla
teologia progressista che esalta il soggettivismo (quella che afferma che ogni
soggetto è in buona fede, e la Chiesa deve confermarlo nella sua infondata
presunzione di essere in grazia!).
Fonte: La nuova bussola quotidiana, 13.4.2016
Fonte: La nuova bussola quotidiana, 13.4.2016
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