Sebbene non manchino voci favorevoli al documento, fondate su accomodanti letture forzate,
quanto indimostrate, circa l'asserito non contrasto col magistero della Chiesa (cfr. Il
preside dell’Istituto Giovanni Paolo II: “L’esortazione è un documento
positivo, non c’è alcun cambiamento”, in Il Foglio, 11.4.2016; Amoris laetitia? Un sacerdote (domenicano) risponde, in sinodo2015, 6.5.2015, il quale propone una benevola, quanto discutibile, interpretazione “in meliorem partem” di alcune affermazioni dell’esortazione, che va contro i dati intrinseci che emergono dal testo, i quali, obiettivamente, non si possono interpretare richiamando altri testi, peraltro risalenti, pena il tradimento della mens dell'autore dell'esortazione),
molto maggiori e fondati sono, invece, i profili seriamente problematici
per la fede e la morale che emergono dall’esortazione (cfr. Patrizia Fermani, L’Amoris
Laetitia come nuova inculturazione (prima parte), in Riscossa cristiana, 10.5.2016; la seconda parte è ivi, 11.5.2016) e la sua apertura alle eccezioni, elevate a regola generale (cfr. Ausnahmen
sind eine Sackgasse. Interview mit Kardinal
Brandmüller zum Papstschreiben “Amoris laetitia”, in Kath.net, 2.5.2016; in traduzione italiana, Card. Brandmuller: le eccezioni sono un
vicolo cieco, in sinodo2015, 10.5.2016).
Non a caso l’autorevole Voice of Family si è
spinto a richiedere al vescovo di Roma di ritirare il documento (John-Henry Westen, Voice of the
Family calls on Pope Francis to withdraw Amoris Laetitia, in Lifesitenews, 9.5.2016), avendone evidenziato sin da subito gli elementi, gravemente erronei ed
inaccettabili (cfr. Catholics cannot accept elements of Apostolic Exhortation
that threaten faith and family, in Voice of family, 8.4.2016), le
cui chiavi di lettura sono nelle ambiguità ivi presenti (Matthew McCusker, Key doctrinal errors
and ambiguities of Amoris Laetitia, ivi, 7.5.2016), le cui radici,
in fondo, sono proprio in alcune idee tipiche e ricorrenti del pensiero “incompleto”
bergogliano (cfr. Giovanni Scalese,
I postulati di Papa Francesco, in blog Senza peli sulla lingua, 10.5.2016),
ben lungi dall’evangelico “sì, sì, no, no”.
Rilanciamo quest’oggi un ulteriore contributo di Mons.
Livi (pubblicato già su Chiesa e postconcilio, 10.5.2016).
“Amoris Laetitia”: Mons. Livi parla ai penitenti e ai
confessori
6 maggio 2016, San Giovanni alla Porta Latina
Padre Pio e Leopoldo Mandic - i santi del Confessionale - esposti nella Basilica di San Pietro nel febbraio 2016 |
Nello scorso mese di
aprile, in onore alla schiettezza e lealtà ecclesiale di Santa Caterina da
Siena, Mons. Antonio Livi ha tenuto una conferenza presso la Basilica di San
Giovanni alla Porta Latina, organizzata dalla “Sacra Fraternitas Aurigarum Urbis”. Pubblichiamo la trascrizione
dall’orale, approvata dall’autore, nella certezza che il suo contenuto contribuirà
a far chiarezza fra tanti laici (ma forse anche fra tanti sacerdoti) che oggi
si sentono smarriti.
Dottrina morale e prassi
pastorale nella “Amoris laetitia”
Cari amici,
mi avete chiesto di
spiegare in termini semplici a voi, laici - ma vedo anche nell’uditorio dei
confratelli e quindi dei confessori -, perché un sacerdote (e teologo) come me
ha pubblicamente criticato, in varie occasioni e in varie sedi, l’esortazione
apostolica Amoris laetitia di papa
Francesco. Mi accingo dunque a spiegare a voi, con la massima schiettezza, il
contenuto e le vere motivazioni ecclesiali di queste critiche, che sono
naturalmente prudenti nel merito, rispettose nella forma e responsabili nelle
intenzioni. Premetto, per cominciare, quello che dice la Chiesa stessa, in un
celebre documento della Congregazione per la Dottrina della fede, pubblicato
nel 1990 a firma dell’allora prefetto, cardinale Joseph Ratzinger:
«Il Magistero, allo scopo di
servire nel miglior modo possibile il Popolo di Dio, e in particolare per
metterlo in guardia nei confronti di opinioni pericolose che possono portare
all’errore, può intervenire su questioni dibattute nelle quali sono implicati,
insieme ai principi fermi, elementi congetturali e contingenti. E spesso è solo
a distanza di un certo tempo che diviene possibile operare una distinzione fra
ciò che è necessario e ciò che è contingente. La volontà di ossequio leale a
questo insegnamento del Magistero in materia per sé non irreformabile deve
essere la regola. Può tuttavia accadere che il teologo si ponga degli
interrogativi concernenti, a seconda dei casi, l’opportunità, la forma o anche
il contenuto di un intervento. II che lo spingerà innanzitutto a verificare
accuratamente quale è l’autorevolezza di questi interventi, così come essa
risulta dalla natura dei documenti, dall’insistenza nel riproporre una dottrina
e dal modo stesso di esprimersi […]. In ogni caso non potrà mai venir meno un
atteggiamento di fondo di disponibilità ad accogliere lealmente l’insegnamento
del Magistero, come si conviene ad ogni credente nel nome dell’obbedienza della
fede. Il teologo si sforzerà pertanto di comprendere questo insegnamento nel
suo contenuto, nelle sue ragioni e nei suoi motivi. A ciò egli consacrerà una
riflessione approfondita e paziente, pronto a rivedere le sue proprie opinioni
ed a esaminare le obiezioni che gli fossero fatte dai suoi colleghi. Se,
malgrado un leale sforzo, le difficoltà persistono, è dovere del teologo far
conoscere alle autorità magisteriali i problemi suscitati dall’insegnamento in
se stesso, nelle giustificazioni che ne sono proposte o ancora nella maniera
con cui è presentato. Egli lo farà in uno spirito evangelico, con il profondo
desiderio di risolvere le difficoltà. Le sue obiezioni potranno allora
contribuire ad un reale progresso, stimolando il Magistero a proporre l’insegnamento
della Chiesa in modo più approfondito e meglio argomentato» (Congregazione per la Dottrina
della fede, Istruzione Donum veritatis sulla vocazione ecclesiale del
teologo, 24 maggio 1990, nn. 24; 29-30).
Io conosco bene
questo documento, e l’ho studiato per anni. L’ho utilizzato soprattutto per
denunciare l’abuso del titolo di “teologo” da parte di chi si ribella per
principio agli insegnamenti definitivi del Magistero e pretende di ri-formulare
il dogma cristiano (cfr Vera e falsa teologia. Come distinguere l’autentica “scienza
della fede” da un’equivoca “filosofia religiosa”, Leonardo da Vinci, Roma
2012). Ma ora devo rifarmi proprio a questo documento per legittimare i miei
interventi critici di fronte alle tante ambiguità (nell’indirizzo pastorale) e
alla evidente deriva relativistica (nella dottrina morale) che caratterizzano,
purtroppo, molti gesti e molti discorsi di questo Papa e in particolare l’esortazione
apostolica post-sinodale Amoris laetitia.
Sono rilievi critici suggeriti sempre soltanto dalla responsabilità ecclesiale
che mi impegna - come sacerdote e come teologo - soprattutto di fronte a quei
fedeli che sovente manifestano in pubblico il loro turbamento e in privato mi
confidano il disorientamento delle loro coscienze, pensando anche a quei fedeli
che posso immaginare che siano addirittura indotti alla perdita del senso del
peccato - essendo esso la coscienza di essere tutti peccatori, unitamente alla
convinzione che solo la grazia sacramentale, una volta avviata la conversione
interiore, può redimerci e garantirci la salvezza eterna.
Parto dal presupposto che
la “nota teologica” di questo documento pontificio sia proprio quella indicata
nel n. 30 della dichiarazione Donum
veritatis, e quindi limito le mie critiche alla “forma” dell’esortazione e
alla sua opportunità pastorale, date le premesse storico-ecclesiastiche e le
conseguenze nella formazione della coscienza dei fedeli. Le premesse storiche
sono molto significative: il Papa ha fatto sua una delle due opinioni
formalmente espresse dai padri sinodali (quella dei cardinali Schoenborn, Marx,
Baldisseri e Kasper, e dei vescovi Forte e Semeraro, tutti favorevoli a un
cambiamento radicale della prassi pastorale e dei suoi presupposti dottrinali),
non tenendo minimamente conto dell’opinione di quanti (come i cardinali Müller,
Caffarra, Burke, De Paolis, Sarah) avevano insistentemente criticato l’ipotesi
della concessione della Comunione ai fedeli in stato di pubblico scandalo per
aver divorziato davanti al tribunale civile e per aver istituito una convivenza
more uxorio (la quale configura
canonicamente il “pubblico concubinato”), dopo aver contratto un invalido e
finto nuovo matrimonio, sempre davanti al tribunale civile.
Per queste concrete
circostanze, l’esortazione apostolica post-sinodale era un documento molto
atteso per conoscere le indicazioni della Chiesa dopo i due Sinodi dei vescovi
sulla famiglia e la ridda di interpretazioni da parte dei vescovi favorevoli al
mantenimento della disciplina attuale e di quelli che chiedevano un cambiamento
radicale. Ma l’attesa di un chiarimento è stata delusa.
Alcune parti del
documento papale - quelle che sono dedicate a illustrare i nuovi criteri
pastorali - sono caratterizzate dall’ambiguità dell’enunciato, un’ambiguità che
genera gravissimi equivoci di interpretazione proprio riguardo a ciò che Francesco
vuole che sia fatto in pratica, all’atto di decidere che cosa suggerire o
prescrivere ai fedeli che manifestano l’intenzione di accostarsi all’Eucaristia
pur trovandosi in una situazione irregolare. I termini «misericordia», «accompagnamento»
e «discernimento», pur ripetuti tante volte, non sono mai spiegati in modo da
far capire se sono davvero la cifra di una nuovissima prassi (nel qual caso
avrebbero ragione quelli che hanno parlato di una «novità rivoluzionaria»)
oppure sono semplicemente sinonimi di quello che le leggi ecclesiastiche
vigenti e i documenti dell’ultimo Concilio chiamano la «carità pastorale», non
diverso, sostanzialmente, da ciò che si ritrova nella dottrina
teologico-pratica di un dottore della Chiesa come sant’Alfonso Maria de’ Liguori
(autore tra l’altro della Praxis
confessarii ad bene excipiendas Confessiones), il cui positivo riscontro
pastorale è ben visibile nell’esempio dei santi (si pensi al Curato d’Ars nell’Ottocento
o a padre Pio e a padre Leopoldo nel Novecento).
Per di più, l’aspra
ma generica polemica del Papa contro quelli che a suo avviso sarebbero dei
rigoristi dal cuore duro, dei formalisti senza carità, addirittura dei
«farisei», lascia intendere che il Papa ha non solo favorito una delle due opinioni
emerse nella discussione sinodale – quella dei riformisti – , ma ha anche tolto
ogni credibilità a coloro che avevano presentato ponderose e documentate
obiezioni alle proposte di riforma (e pensare che tra questi oppositori c’era
addirittura il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede!). Per
di più, avvalendosi di questa (voluta) ambiguità del documento pontificio,
molti vescovi si sono precipitati a dichiarare che il Papa con questa
esortazione apostolica veniva a legittimare una prassi «misericordiosa» (cioè
permissiva, o meglio lassista, anzi irresponsabile) che essi già avevano
consentito nelle rispettive diocesi, in disobbedienza alle leggi canoniche
vigenti.
Allo stesso tempo, il
cardinale americano Burke e il vescovo kazaco Schneider dichiaravano ai
giornalisti che l’esortazione apostolica di papa Francesco non era da prendere
come documento del Magistero, tanti erano i riferimenti dottrinali confusi o
addirittura erronei che essa conteneva. Insomma, l’opinione pubblica cattolica
è stata indotta a ritenere che il Papa abbia voluto abrogare la dottrina
cristiana circa l’indissolubilità del matrimonio e la necessità dello stato di
grazia per accedere alla Comunione. E, di fronte a questa (presunta) “rivoluzione”
dogmatica, molti hanno provato sgomento, ritenendo che papa Francesco sia stato
ingannato dai suoi consiglieri e abbia avallato l’eterodossia, mentre altri
hanno gioito ritenendo che finalmente la Chiesa aveva messo da parte l’ortodossia
dei conservatori per concedere piena libertà alle dottrine teologiche più
avanzate, più consone ai nuovi tempi e alla mentalità dell’uomo di oggi.
La Chiesa, nella sua
storia bimillenaria, ha vissuto tante vicende drammatiche. La storia
ecclesiastica narra di diverse epoche di confusione e di scisma, persino di
pontefici che con la loro condotta di vita hanno scandalizzato. Papa Francesco
certamente non lo fa con la sua condotta personale, ma la dottrina teologica
che egli favorisce, questa sì che scandalizza, nel senso biblico del temine,
nel senso che è una “pietra di inciampo” per la fede dei semplici e disorienta
le coscienze di tanti.
Questa confusione e
questo disorientamento della coscienza dei comuni fedeli è il risultato - forse
voluto, forse imprevisto, anche se facilmente prevedibile - dell’ambiguità
strutturale del documento pontificio. Ed è il motivo per il quale io ne parlo,
evidenziandone gli aspetti critici: non per mancare di rispetto al Magistero,
né per prendere le parti dei conservatori contro i progressisti nella disputa
ideologica che affligge la Chiesa da tanto tempo, e tanto meno per voler contrapporre
alla dottrina del Papa - che dovrebbe esprimere e interpretare con autorità
divina il dogma della fede - una mia opinabile dottrina teologica: ma solo per
responsabilità pastorale nei confronti dei fedeli che da siffatta situazione
non possono non subire danni gravissimi nella loro coscienza di fede, sia
riguardo al dovere di obbedire all’autorità ecclesiastica lì dove essa comanda
espressamente e lecitamente, sia riguardo al dovere di rispettare la natura
divina dei segni sacramentali, evitando ogni rischio di profanazione e di
sacrilegio.
A voi che siete qui
presenti, laici e quasi tutti regolarmente coniugati, mi rivolgo con un
accorato appello: non pensate che il documento pontifico, in materia di
Sacramenti (Matrimonio, Penitenza, Eucaristia), vi obblighi a credere qualcosa di diverso da quello
che avete sempre creduto, né di fare
qualcosa di diverso da quello che avete sempre fatto. Anzi, vi dirò di più. L’esortazione
apostolica non è una nuova legge ecclesiastica: non comanda alcunché ad alcuno
nella Chiesa cattolica; è, appunto, soltanto un’esortazione, un invito, un
incoraggiamento, rivolto ai Pastori (vescovi e presbiteri) perché pratichino il
loro ministero con attenzione alle situazioni specifiche dei loro fedeli,
aiutandoli anche con la direzione spirituale personale (il “foro interno”) e
sempre con spirito di misericordia. Dunque sono soprattutto i sacerdoti in cura
d’anime a dover applicare al loro quotidiano servizio (catechesi e
amministrazione dei sacramenti) i criteri indicati dal Papa. Sono io, e con me
tutti i miei confratelli nel sacerdozio, sotto la guida del rispettivo vescovo,
a dover recepire e attuare questi consigli pastorali, senza mettere da parte -
nessuno me lo può chiedere, e il Papa non me lo ha chiesto - i criteri
teologico-morali e le norme canoniche vigenti, ossia i criteri di base, sempre
validi, con i quali ho esercitato il ministero della Confessione fino a oggi,
nei miei 55 anni di sacerdozio. Questi criteri mi impediscono di fraintendere
(o di intendere secondo l’interpretazione dei “riformisti e progressisti”)
alcuni passi ambigui dell’esortazione apostolica, che ora leggo con voi, per
poi fornirne l’unica interpretazione ammissibile dal punto di vista di una
prassi sacramentaria rispettosa del dogma e dei principi morali definitivamente
stabiliti dalla Chiesa.
Leggo innanzitutto il § 305:
«A
causa dei condizionamenti o dei fattori attenuanti, è possibile che, entro una
situazione oggettiva di peccato – che non sia soggettivamente colpevole o che
non lo sia in modo pieno – si possa vivere in grazia di Dio, si possa amare, e
si possa anche crescere nella vita di grazia e di carità, ricevendo a tale
scopo l’aiuto della Chiesa» (Francesco, Esort. Ap. Amoris Laetitia, § 305).
A questo punto il documento è corredato da una nota:
«In
certi casi, potrebbe essere anche l’aiuto dei Sacramenti. Per questo, ”ai sacerdoti ricordo che il
confessionale non dev’essere una sala di tortura bensì il luogo della misericordia
del Signore” […] Ugualmente segnalo
che l’Eucaristia ”non
è un premio per i perfetti, ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli” [Esort. Ap. Evangelii gaudium,
24 novembre 2013, § 44 e 47: AAS 105, 2013, pp. 1038-1039]» (Francesco,
Esort. Ap. Amoris Laetitia, § 305,
nota n. 351).
Il paragrafo e la nota sono inserite nel capitolo VIII
dedicato alle «situazioni irregolari», cioè
alla convivenze e soprattutto alle nuove unioni civili a seguito di divorzio
dove il precedente matrimonio è canonicamente valido. Nel testo si fa riferimento
all’ipotesi che ci si trovi di fronte a una situazione oggettivamente
disordinata (il divorziato che si è risposato civilmente) ma il cui soggetto
(il fedele cattolico divorziato risposato) dia a intendere di non esserne
cosciente. Fatta tale ipotesi, il Papa suggerisce, come strumento pastorale per
questa condizione particolare, l’amministrazione dei sacramenti della
Riconciliazione e dell’Eucarestia. Il suggerimento ha senso solo se nel caso in
questione il divorziato-risposato sia riconosciuto come trovandosi in stato di grazia perché privo di
responsabilità soggettiva della sua condizione. Mancando la piena avvertenza
sulla materia grave, costui non sarebbe in stato di peccato mortale, ergo il divorziato risposato potrebbe
comunicarsi. Che il Papa intenda insinuare una soluzione del genere sembra
confermato da un altro passaggio del documento:
«Non
è più possibile dire che tutti coloro che si trovano in qualche situazione
cosiddetta “irregolare” vivano in stato di peccato mortale, privi della grazia
santificante. I limiti non dipendono semplicemente da una eventuale ignoranza
della norma. Un soggetto, pur conoscendo bene la norma, può avere grande
difficoltà nel comprendere “valori insiti nella norma morale” [Giovanni
Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio, 22
novembre 1981, § 33: AAS 74,
1982, p. 121]» (Francesco, Esort.
Ap. Amoris Laetitia, § 301).
In altri termini, secondo questi suggerimenti papali, il
confessore potrebbe giudicare non del tutto responsabile il penitente se fosse
in grado di verificare in “foro interno” e caso
per caso che il penitente versa in uno stato di errore in merito alla sua
condizione. Ma come è possibile effettuare tale verifica se non ricorrendo alla
tradizionale “praxis confessariorum”?
Si è sempre saputo che la cosiddetta «ignoranza invincibile» deve essere
responsabilmente accertata dal ministro della Penitenza; costui, peraltro,
tenendo presente che tale ignoranza può anche essere colpevole (la ripetizione
di peccati consapevolmente commessi può condurre la persona all’ottundimento
della coscienza), può arrivare alla convinzione che il soggetto in questione
non può essere considerato dalla Chiesa in grazia di Dio. E poi, anche ammesso
che l’ignoranza invincibile di quel dato soggetto sia davvero tale da non
renderlo soggettivamente colpevole (ipotesi che io ritengo meramente teorica e
non riscontrabile nella vita reale dei fedeli che frequentano i sacramenti),
ogni sacerdote sa bene che ciò che egli è chiamato a giudicare (nel tribunale della Penitenza il confessore è il giudice
per conto della Chiesa) non è la
coscienza del penitente, e tanto meno l’azione
della grazia in essa, ma solo le manifestazioni
esterne del pentimento e della volontà di rimediare al male commesso, in
relazione alla situazione (esterna, talvolta anche pubblica) del penitente. Se
tali rilevamenti portano il confessore a concludere che non è possibile
assolvere la tale persona, egli avrà cura di spiegare con la massima delicatezza
al penitente che spetta a lui impegnarsi a percorrere fino in fondo la strada
della conversione, e che nel frattempo non gli è consentito di fare la
Comunione. Gli spiegherà anche che ciò che non lo rende ancora “degno” della
Comunione eucaristica è la sua condizione esterna, visibile, indice delle sue
ancora imperfette condizioni interiori: ricevere sacramentalmente Cristo esige
una condizione della vita personale che non sia oggettivamente in
contraddizione con la santità di Cristo.
Sicché ogni sacerdote che sia davvero responsabile, se
chiamato dal vescovo o dal fedele stesso a dare un suo giudizio in merito, non
consiglierà mai ai conviventi e ai divorziati-risposati che non vivono
castamente (o che vivono castamente ma che dovrebbero interrompere la loro relazione
perché su di loro non gravano particolari obblighi morali) di accostarsi alla
Comunione, perché tali condizioni sono oggettivamente contrarie alla volontà di
Dio, ossia alla sua misericordia verso noi uomini. Il sacerdote deve illuminare
la coscienza del penitente ricordandogli che la nostra vita personale e sociale
deve essere conforme all’ordo amoris, un sapientissimo orientamento di
ogni cosa alla gloria del Creatore e al bene delle creature. La legge naturale
e la rivelazione divina ci fanno sapere, con certezza di ragione e di fede, che
vi sono atti che sono di per sé contrastanti con questo ordo, ed è appunto il caso dei rapporti sessuali al di
fuori del rapporto di coniugio: tali atti non sono conformi al piano di Dio -
non sono cioè santificabili e santificanti - e di conseguenza pongono la
persona che li compie volontariamente in una condizione che di fatto è
incompatibile con all’ordo amoris, al di là della maggiore o minore consapevolezza della loro
gravità. Ciò comporta per il confessore - diretto responsabile del culto divino
nella celebrazione della Penitenza - il gravissimo dovere ministeriale di non
assolvere il fedele “divorziato-risposato” che non intendesse di fatto cambiare
la sua situazione. Per amministrare validamente l’assoluzione mancherebbero
infatti le condizioni essenziali, ossia il sincero pentimento e la volontà di riparazione.
Il pentimento non risulta esserci quando il fedele non dichiara
al confessore di voler uscire dal proprio stato di “divorziato-risposato”
troncando il rapporto con il (o la) convivente e adoperandosi per tornare con
il legittimo consorte, oppure quando non si propone di riparare ai danni
arrecati al coniuge legittimo, alla eventuale prole, al convivente che ha
indotto in peccato e all’intera comunità cristiana a cui ha recato scandalo.
Mancando queste condizioni - le quali, dal punto di vista teologico, costituiscono
la “materia” del sacramento della Penitenza - il confessore è tenuto a negare,
per il momento, l’assoluzione, che non sarebbe un atto di misericordia ma un
inganno (perché l’assoluzione sarebbe illecita, e soprattutto invalida).
Fonte: blog Disputationes Theologicae, 7.5.2016
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