Rilanciamo, dopo la relazione del card. Burke, il testo in traduzione italiana del contributo del prof. De Mattei, pubblicato in inglese da Rorate caeli.
Exsurge, quare obdormis Domine?
Riportiamo
il testo italiano della relazione tenuta dal prof. Roberto de Mattei al Rome
Life Forum svoltosi all’Hotel Columbus di Roma il 6 maggio 2016.
Gesù nel Vangelo si serve di molte metafore per indicare la Chiesa da Lui
fondata. Una delle più calzanti è l’immagine della barca minacciata dalla
tempesta (Mt. 8, 23-27; Mc. 4, 35-41; Lc. 8, 22-25). Questa immagine è stata spesso
utilizzata dai Padri della Chiesa e dai santi che parlano della Chiesa come di
una navicella sbattuta dalle onde, che vive si può dire tra le tempeste, senza
mai lasciarsi sommergere dai flutti.
Celebre, nel Vangelo, è la scena della tempesta nel lago di Tiberiade,
sedata da Nostro Signore: “Tunc surgens imperavit ventis
et mari” (Mt. 8, 26). Giotto, durante il
periodo del Papato ad Avignone, raffigurò la scena della barca di Pietro nella
tempesta in un celebre mosaico che si trovava nel frontone dell’antica basilica
di San Pietro, e che ora è nell’atrio della nuova Basilica. Nella quaresima del
1380, santa Caterina da Siena fece voto, di recarsi ogni mattina in San Pietro
per pregare davanti a questa immagine. Un giorno, il 29 gennaio 1380, verso
l’ora di vespro, mentre Caterina era assorta in preghiera, Gesù, si staccò dal
mosaico e pose sulle sue spalle la navicella della Chiesa. La santa, oppressa
sotto tanto peso, cadde a terra priva di sensi. Fu questa l’ultima visita a San
Pietro di Caterina, che aveva sempre esortato il Papa a guidare con vigore la
navicella della Chiesa.
Nel corso di duemila anni di storia, la mistica nave della Chiesa ha sempre
affrontato bufere e tempeste.
Nei suoi primi tre secoli di vita, la Chiesa fu duramente perseguitata
dall’Impero romano. In quest’epoca, tra san Pietro a Papa Melchiade,
contemporaneo dell’imperatore Costantino, si contano trentatré Papi. Sono tutti
santi e salvo due che soffrirono l’esilio, gli altri trenta morirono martiri.
Nell’anno 313 Costantino il Grande concesse libertà alla Chiesa e i
cristiani, usciti dalle catacombe, iniziarono a gettare le basi di una nuova
società cristiana, ma il IV secolo, il secolo della libertà e del trionfo della
Chiesa, fu anche il secolo della terribile crisi ariana.
Nel V secolo, l’Impero romano crollò e la Chiesa, da sola, dovette
affrontare le invasioni prima dei barbari e poi dell’Islam, che a partire
dall’VIII secolo, sommerse terre cristiane come l’Africa e l’Asia Minore, da
allora mai restituite alla vera fede.
Nei secoli che vanno da Costantino a Carlo Magno contiamo sessantadue Papi,
tra i quali san Leone Magno, che affrontò da solo Attila, il “flagello di Dio”,
san Gregorio Magno, che lottò strenuamente contro i longobardi, san Martino I,
spedito in esilio in catene nel Chersoneo, san Gregorio II e san Gregorio III,
che vissero in continuo pericolo di morte, perseguitati dagli imperatori
bizantini. Ma accanto a questi grandi difensori della Chiesa, troviamo anche
Papi come Liberio, Vigilio ed Onorio che vacillarono nella fede. Onorio, in
particolare, fu condannato come eretico da un suo successore, san Leone II.
Carlo Magno restaurò l’Impero cristiano e fondò la Civiltà cristiana del
Medioevo. Però questa epoca di fede non fu priva di piaghe, come la simonia, la
dissolutezza morale del clero e la ribellione degli Imperatori e dei sovrani
cristiani all’autorità della Cattedra di Pietro. Dopo la morte di Carlo Magno,
tra l’882 e il 1046, vi furono 45 Papi e antipapi, di cui 15 deposti e 14
assassinati, imprigionati e esiliati. I Papi del Medioevo conobbero lotte e
persecuzioni, da san Pasquale I a san Leone IX, fino a san Gregorio VII,
l’ultimo Papa canonizzato del Medioevo, che morì, perseguitato, in esilio.
Il Medioevo ebbe il suo apice sotto il pontificato di Innocenzo III, ma
santa Lutgarda ebbe una visione in cui il Papa le apparve tutto avvolto nelle
fiamme, dicendole che sarebbe rimasto in purgatorio fino al Giudizio
universale, per tre gravi colpe da lui commesse. San Roberto Bellarmino commenta:
“Se un Papa così degno e stimato da tutti subisce questa sorte,
cosa accadrà agli altri ecclesiastici, religiosi, o laici, che si macchiano di
infedeltà?”.
Nel XIV secolo, al trasferimento per settant’anni del Papato ad Avignone
seguì una crisi altrettanto terribile di quella ariana, il Grande scisma di
Occidente, che vide la Cristianità divisa tra due, e poi tre Papi, senza che si
riuscisse a risolvere, fino al 1417, il problema della legittimità canonica.
Seguì un’età che sembrò tranquilla, quella dell’umanesimo, che in realtà
preparò una nuova catastrofe: la Rivoluzione protestante del XVI secolo. La
Chiesa reagì ancora una volta vigorosamente, ma nei secoli XVII e XVIII si
insinuò nel suo seno la prima eresia che scelse di non separarsi dalla Chiesa,
ma di rimanere al suo interno: il giansenismo.
La Rivoluzione francese e Napoleone cercarono di distruggere il Papato
senza riuscirvi. Due Papi, Pio VI e Pio VII furono esiliati da Roma e
imprigionati. Quando, nel 1799, morì a Valence Pio VI, il municipio di quella
città lo comunicò al Direttorio, scrivendo che si era sepolto l’ultimo papa
della storia.
Da Bonifacio VIII, l’ultimo Papa del Medioevo, a Pio XII, l’ultimo dell’era
pre-conciliare, contiamo 68 Papi, di cui solo due canonizzati finora dalla
Chiesa, san Pio V e san Pio X, e due beatificati, Innocenzo XI e Pio IX. Tutti
si trovarono al centro di furiose tempeste. San Pio V combatté il protestantesimo
e animò la Lega Santa contro l’Islam, ottenendo la vittoria di Lepanto; il
Beato Innocenzo XI combatté il gallicanesimo e fu l’artefice della liberazione
di Vienna dai Turchi nel 1683. Il grande Pio IX resisté impavidamente alla Rivoluzione
italiana che, nel 1870, gli strappò la Città Santa. San Pio X combatté una
nuova eresia, anzi la sintesi di tutte le eresie, il modernismo, che infiltrò
profondamente la Chiesa tra il XIX e il XX secolo.
Il Vaticano II, aperto da Giovanni XXIII e concluso da Paolo VI, si propose
di inaugurare una nuova era di pace e progresso per la Chiesa, ma il
post-concilio si rivelò uno dei periodi più drammatici nella vita della Chiesa.
Benedetto XVI, utilizzando una metafora di san Basilio, ha
paragonato il post-concilio una battaglia navale, nel corso della notte, in un
mare in tempesta[1]. È questa l’epoca in cui viviamo.
Il fulmine che cadde su San Pietro l’11 febbraio 2013, il giorno in cui
Benedetto XVI annunciò la sua abdicazione è come il simbolo di questa tempesta
che da allora sembra aver travolto la navicella di Pietro e travolge la vita di
ogni figlio della Chiesa.
La
storia delle tempeste della Chiesa è la storia delle persecuzioni che ha subito, ma è anche la storia degli
scismi e delle eresie che, fin dalle origini, ne hanno minato l’unità interna.
Gli attacchi interni sono sempre stati più gravi e pericolosi di quelli
esterni. I più gravi di questi attacchi, le due tempeste più terribili, sono
state l’eresia ariana del IV secolo e il Grande Scisma d’Occidente del XIV
secolo.
Nel primo caso il popolo cattolico non sapeva dove era la vera fede, perché
i vescovi erano divisi, tra ariani, semi-ariani, anti-ariani e i Papi non si
esprimevano con chiarezza. Fu allora che san Girolamo coniò l’espressione
secondo cui “il mondo gemette e si accorse con stupore di essere diventato ariano” [2].
Nel secondo caso il popolo cattolico non sapeva chi fosse il vero Papa,
perché cardinali, vescovi, teologi, sovrani e persino santi, seguivano Papi
diversi. Nessuno negava il Primato pontificio e perciò non si trattava di
eresia, ma tutti seguivano due o addirittura tre Papi e dunque si trovavano in
quella situazione di divisione ecclesiale che la teologia definisce scisma.
Il modernismo fu una crisi potenzialmente superiore alle due precedenti, ma
non esplose in tutta la sua virulenza perché fu parzialmente debellato da san
Pio X. Scomparve per qualche decennio, ma riemerse con forza durante il
Concilio Vaticano II. Questo Concilio, l’ultimo della Chiesa, svoltosi tra il
1962 e il 1965, volle essere un Concilio pastorale, ma per il carattere ambiguo
ed equivoco dei suoi testi, portò a risultati pastorali catastrofici.
La crisi contemporanea discende direttamente dal Concilio Vaticano II e ha
la sua origine nel primato della prassi sulla dottrina affermato dal Concilio
Vaticano II.
Giovanni XXIII nel suo discorso di apertura del Concilio, l’11 ottobre 1962
enunciò la natura pastorale del Vaticano II, distinguendo tra “il deposito o le verità della fede” e “il modo in cui vengono enunziate, rimanendo pur sempre lo stesso
significato e il senso profondo”.
Tutti i venti concili ecumenici precedenti erano stati pastorali, perché
avevano avuto accanto a una forma dogmatica e normativa una dimensione
pastorale. Nel Vaticano II la pastoralità non fu solo la naturale esplicazione
del contenuto dogmatico del Concilio nei modi adatti ai tempi. La “pastorale”
fu invece elevata a principio alternativo al dogma. La conseguenza fu una
rivoluzione nel linguaggio e nella mentalità, la trasformazione della pastorale
in una nuova dottrina.
Tra i più fedeli continuatori dello “spirito del Concilio” c’è il cardinale
tedesco Walter Kasper. È stato proprio a lui che papa Francesco ha affidato la
relazione introduttiva del dibattito pre-sinodale, nel Concistoro del febbraio
2014. Il cardine di questa relazione è l’idea secondo cui ciò che deve mutare
non è la dottrina sull’indissolubilità matrimoniale, ma la pastorale verso i
divorziati-risposati. La stessa formula è stata usata dal cardinale Kasper per
commentare l’esortazione post-sinodale di papa Francesco Amoris laetitia. Il cardinale Kasper ha spiegato che “l’esortazione apostolica del Papa non cambia niente nella dottrina
della Chiesa o nel diritto canonico, ma cambia tutto”[3]. La bussola del pontificato di Papa
Francesco e la chiave di lettura della sua ultima esortazione apostolica
post-sinodale sta nel principio di un cambiamento necessario non della
dottrina, ma della vita della Chiesa. Però, per sostenere l’irrilevanza della
dottrina, il Papa ha prodotto un documento di 250 pagine, in cui si espone una
teoria del primato della pastorale.
Il 16 aprile, tornando da Lesbo, il Papa ha raccomandato ai giornalisti di
leggere la presentazione dell’Amoris Laetitia fatta
dal cardinale Schönborn, attribuendogli l’interpretazione autentica
dell’esortazione. Nella conferenza stampa in cui, l’8 aprile, ha presentato il
documento, il cardinale Schönborn ha definito l’esortazione pontificia innanzitutto
“un evento linguistico”. Questa formula non è nuova: è
già stata usata da un confratello di papa Francesco, il gesuita John O’Malley
della Georgetown University, che nella sua storia del Vaticano II, ha definito
il Concilio II come “un evento linguistico”[4], un nuovo modo di esprimersi che, secondo
lo storico gesuita, “segnò una rottura definitiva con i Concili
precedenti”[5]. Dire evento linguistico, spiega
O’Malley, non significa minimizzare la portata rivoluzionaria del Vaticano II,
perchè anche il linguaggio ha in sé un insegnamento. I leader del Concilio “capivano benissimo che il Vaticano II, essendosi autoproclamato
concilio pastorale, era proprio per questo anche un Concilio docente (…). Lo
stile discorsivo del Concilio era il mezzo, ma il mezzo comunicava il messaggio”[6].
La scelta di uno “stile” di linguaggio con cui parlare al proprio tempo
rivela un modo di essere e di pensare, e in questo senso si deve ammettere che
il genere letterario e lo stile pastorale del Vaticano II non solo esprimono
l’unità organica dell’evento, ma veicolano implicitamente una coerente dottrina.
“Lo stile – ricorda O’Malley – è l’espressione ultima del significato, è significato e non ornamento, ed è anche lo strumento
ermeneutico per eccellenza”[7].
La Rivoluzione nel linguaggio non consiste solo nel cambiare il significato
delle parole, ma anche nell’omettere alcuni termini e concetti. Si potrebbero
fare molti esempi: affermare che l’inferno è vuoto è certamente una
proposizione temeraria, se non eretica. Omettere, o limitare al massimo, ogni
riferimento all’inferno non formula nessuna proposizione erronea, ma
costituisce un’omissione che prepara la strada ad un errore ancora più grave
dell’inferno vuoto: l’idea che l’inferno non esiste, perché non se ne parla, e
ciò che è ignorato è come se non esistesse.
Papa Francesco non ha mai negato l’esistenza dell’inferno, ma, in tre anni,
ha accennato solo un paio di volte all’inferno, in maniera molto impropria, e
nella Amoris laetitia, affermando che “la strada della Chiesa è quella di non condannare eternamente
nessuno” (§ 296) sembra negare la condanna eterna dei peccatori.
Questa ambiguità non ha lo stesso valore pratico di una negazione teorica?
Niente cambia nella dottrina, tutto cambia nella prassi. Ma se non si vuole
negare il principio di causalità, su cui si fonda tutto l’edificio della
conoscenza dell’Occidente, bisogna ammettere che ogni effetto ha una causa e
che da ogni causa derivano conseguenze. Il rapporto tra la causa e l’effetto è
quello tra la teoria e l’azione, tra la dottrina e la prassi. Tra coloro che lo
hanno ben compreso è il vescovo di Orano, mons. Jean-Paul Vesco che, in
un’intervista a La Vie, ha detto che con la Amoris Laetitia “rien ne change de la doctrine
de l’Église et pourtant tout change dans la rapport de l’Église au monde”[8]. Oggi, ha sottolineato il vescovo di Orano, nessun confessore
potrà rifiutare l’assoluzione a chi è in coscienza convinto che la situazione
irregolare in cui si trova è l’unica, o quantomeno la migliore possibile. Le
circostanze e la situazione, secondo la nuova morale, dissolvono il concetto di
male intrinseco e di peccato pubblico e permanente.
Se i pastori cessano di parlare di peccato pubblico e incoraggiano adulteri
e concubini a integrarsi nella comunità cristiana, senza escludere loro
l’accesso ai Sacramenti, con la pastorale cambia necessariamente anche la
dottrina. La regola della Chiesa era: “i divorziati, risposati
civilmente, che vivono in concubinato, non possono accostarsi all’Eucarestia”.
La Amoris laetitia stabilisce invece: “i divorziati risposati, in alcuni casi, possono comunicarsi”.
Il cambiamento non è solo di fatto, è di principio. È sufficiente una sola
eccezione nella pratica, per cambiare il principio. Come negare che questa
Rivoluzione nella prassi non sia anche una Rivoluzione nella dottrina? Ma se
anche nulla cambiasse nella dottrina, sappiamo che cosa cambierà nella pratica:
aumenterà il numero delle comunioni sacrileghe; aumenterà il numero delle
confessioni invalide; aumenterà il numero dei peccati gravi commessi contro il
VI e il IX comandamento; aumenterà il numero delle anime che vanno all’inferno;
e tutto questo accadrà non contro, ma a causa della Amoris Laetitia.
A Fatima, la Madonna mostrò ai tre pastorelli la visione terrificante
dell’inferno dove vanno le anime dei poveri peccatori e a Giacinta fu rivelato
che il peccato che conduce più anime all’inferno è quello contro la purezza.
Chi avrebbe potuto immaginare che al numero già grande di peccati impuri si
sarebbe aggiunta la diffusione della convivenza more uxorio,
spesso ratificata da un matrimonio civile? E come immaginare che questa
condizione fosse avallata da un’esortazione pontificia? Eppure questo è
accaduto. E non si può fingere di non vederlo…
La Chiesa ha una missione pratica: la salvezza delle anime. Come si salvano
le anime? Spingendole a vivere in conformità con la legge del Vangelo.
Anche il demonio ha un fine pratico: la perdizione delle anime. Come si
perdono le anime? Spingendole a vivere in difformità dalla legge del Vangelo.
Quando Gesù, dopo la Resurrezione, appare ai suoi discepoli sui monti della Galilea
dà loro la missione di battezzare in nome della Santissima Trinità, Padre,
Figlio e Spirito Santo, e di insegnare ad osservare la sua legge, senza
trasgredire alcun precetto: “docentes eos, servare omnia”
(Mt. 18, 19-20). “Chi crederà e sarà battezzato –
aggiunge sarà salvo – chi non crederà sarà condannato”
(Mc. 16, 16).
Il compito dei Pastori è di insegnare ad osservare la legge non a
disapplicarla, non a trovare le eccezioni per trasgredirla. Chi crede, ma
contraddice con le opere la fede in cui crede, sarà condannato, come coloro
che, secondo San Paolo, “dichiarano di conoscere Dio, ma
lo rinnegano con i fatti, abominevoli come sono, ribelli e incapaci di
qualsiasi opera buona” (Ad Titum, I,
16).
Per esprimere un giudizio negativo sulla esortazione apostolica Amoris Laetitia non è necessario aver studiato
teologia, è sufficiente il sensus fidei che
scaturisce dal battesimo e dalla Cresima. Il sensus fidei ci
porta, per istinto soprannaturale, a rifiutare questo documento, lasciando ai
teologi il compito di applicare adesso le adeguate note teologiche.
Tra eresia e ortodossia esistono molte gradazioni possibili. L’eresia è
l’opposizione aperta, formale e pertinace ad una verità di fede. Però esistono
proposizioni dottrinali che, pur non essendo esplicitamente eretiche, sono
riprovate dalla Chiesa con qualificazioni teologiche proporzionali alla gravità
e al contrasto con la dottrina cattolica [9]. L’opposizione alla verità presenta
infatti gradi diversi, a seconda che sia diretta o indiretta, immediata o
remota, aperta o dissimulata, e così via. Le “censure teologiche” esprimono il
giudizio negativo della Chiesa su di una espressione, una opinione o un’intera
dottrina teologica Esse riguardano il contenuto dottrinale:
proposizioni eretiche, prossime all’eresia, di sapore
eretico, erronee nella fede, temerarie; riguardano
la forma, per cui le proposizioni sono giudicate equivoche, dubbie, capziose, sospette, male sonanti ecc.;
riguardo agli effetti che possono produrre per le particolari circostanze di
tempo e di luogo. In tal caso le proposizioni sono censurate come perverse, viziose, scandalose, pericolose, seduttive dei semplici In tutti questi casi, la verità
cattolica manca di integrità dottrinale o è espressa in maniera carente e
impropria.
In una sua riflessione del 16 aprile 2016, l’abbé Gleize ricorda il §299,
dell’Amoris laetitia, secondo cui “Accolgo le considerazioni di molti Padri sinodali, i quali hanno
voluto affermare che i battezzati che sono divorziati e risposati civilmente
devono essere più integrati nelle comunità cristiane nei diversi modi
possibili, evitando ogni occasione di scandalo” (§299) e commenta: “Nei diversi modi possibili”: perché, dunque, non ammettendoli alla
comunione eucaristica? Se non è più possibile dire che i divorziati risposati
vivono in una situazione di peccato mortale (§301), in cosa il fatto di donar
loro la comunione rappresenterebbe un’occasione di scandalo? E, d’ora in poi,
perché rifiutar loro la santa comunione? L’Esortazione Amoris Laetitia va nettamente in questa direzione. Facendo ciò,
rappresenta come tale un’occasione di rovina spirituale per tutta la Chiesa,
cioè ciò che i teologi designano in senso stretto come uno “scandalo”. E questo
scandalo deriva esso stesso da una relativizzazione pratica della verità della
Fede cattolica, riguardo la necessità e l’indissolubilità del matrimonio
sacramentale” [10].
L’Amoris laetitia è un documento scandaloso, dagli
effetti catastrofici per le anime.
Non manchiamo di rispetto al papa e tanto meno mettiamo in dubbio il
Primato pontificio. Dobbiamo essere profondamente grati al Beato Pio IX per
avere definito, nel corso del concilio Vaticano I, due dogmi che ci permettono
di affrontare con chiarezza la crisi attuale: il dogma del Primato Romano e
quello dell’infallibilità pontificia.
Il Primato di governo del Papa, assieme all’infallibilità del suo
Magistero, costituisce il fondamento su cui Gesù Cristo ha istituito la sua
Chiesa e sul quale Essa rimarrà salda fino alla fine dei tempi. Questo Primato
fu conferito a Pietro, principe degli Apostoli, dopo la Risurrezione (Gv. 21, 15-17) e gli venne riconosciuto dalla
Chiesa primitiva, non come un privilegio personale e transitorio, ma come un
elemento permanente ed essenziale della divina costituzione della Chiesa.
Non c’è autorità più alta sulla terra del Papa, perché non c’è carica più
alta, non c’è missione più alta sulla terra. Quale missione? Quella di
confermare i fratelli nella fede, di aprire il cielo alle anime, di pascere gli
agnelli e le pecore del gregge di Cristo, unico e sommo Buon Pastore: in una
parola di governare la Chiesa.
Il Papa è colui che governa la Chiesa. Questa missione gli deriva dal fatto
di essere il successore di san Pietro a cui Gesù affidò la missione di capo
visibile della Chiesa. Una missione che trascendeva la sua persona, perché
sarebbe stata continuata dai suoi successori.
Il Papa non è il successore di Cristo, è il successore di Pietro e non lo è
in maniera immediata, ma attraverso una successione apostolica che, nello
spazio di venti secoli, lo lega a Pietro, principe degli Apostoli e primo
Vicario di Cristo.
Il Vicario di Cristo è vescovo di Roma perché Roma non è una città o una
diocesi come un’altra: ha una vocazione universale. I successori di Pietro sono
vescovi di Roma perché per disposizione di Dio, san Pietro è venuto a Roma e morendo
in questa sede ha aperto per i vescovi di Roma la successione legittima e
ininterrotta del suo primato universale.
Tutti i vescovi hanno la pienezza del sacramento dell’ordine e il Papa,
sotto questo aspetto non è superiore agli altri vescovi, è uguale a loro. Ma
solo il Papa ha il supremo potere di giurisdizione che gli conferisce un potere
pieno, e illimitato sopra tutti gli altri vescovi. È la giurisdizione, non il sacramento,
che fa la differenza.
Il Concilio Vaticano I ha stabilito come dogma di fede il Primato
universale, pieno e illimitato del papa su tutti i vescovi del mondo. Il
primato di giurisdizione è la potestà di governo del Papa e comprende anche la
potestà di insegnamento del Papa. Il Concilio Vaticano I, nel 1870, dopo il
dogma del Primato romano ha promulgato quello dell’infallibilità di Magistero,
a determinate condizioni, del Sommo Pontefice. L’infallibilità è quella
prerogativa soprannaturale per cui il Papa e la Chiesa non possono errare nel
professare e definire la dottrina rivelata per una speciale assistenza divina,
attribuita allo Spirito Santo. E il Papa, che non è infallibile nel governare
la Chiesa, può essere infallibile nel suo insegnamento pontificio.
Il Papa non è sempre infallibile. Deve volerlo essere, e se vuole esserlo,
deve rispettare determinate regole. Le condizioni dell’infallibilità sono state
chiarite dalla costituzione Pastor aeternus. Il
Papa deve parlare come persona pubblica, ex cathedra, con
l’intenzione di definire una verità di fede e di morale e di imporla come
obbligatoria a credere a tutti i fedeli.
Se queste condizioni non sono rispettate non significa che il Papa sbaglia.
Dobbiamo avere anzi, di principio una prevenzione a sua favore. Però quando il
Papa non è infallibile, può commettere degli errori, nel suo governo e nel suo
insegnamento. Il Magistero cosiddetto straordinario, ex cathedra del Papa, è sempre infallibile. Un
esempio è costituito dai due dogmi dell’Immacolata Concezione e
dell’Assunzione. Ma anche il magistero ordinario del papa può essere
infallibile, quando ribadisce una verità di fede o di morale che per secoli è
stata insegnata dalla Chiesa. È il caso dell’enciclica Humanae Vitae, che non è infallibile per sé, perché non
si tratta di un atto ex cathedra del
Sommo Pontefice, ma è infallibile nel punto in cui ribadisce la millenaria
condanna della chiesa della contraccezione artificiale. Se un insegnamento
della Chiesa è universale, non tanto nello spazio, quanto nel tempo, nella
durata, quando è confermato dalla Tradizione, significa che è assistito dallo
Spirito Santo.
Lo Spirito Santo assiste i cardinali quando in conclave eleggono il Papa e
poi, una volta eletto il Papa, lo assiste nell’esercizio del suo governo e del
suo Magistero ma, come la storia insegna, malgrado questa assistenza, possono
essere stati eletti Papi indegni che nella vita privata possono avere peccato,
anche gravemente, così come possono essere stati eletti Papi che hanno errato
nel loro governo, e perfino nel loro Magistero; ma questo non deve
scandalizzare. Anche se la Provvidenza permette che venga eletto un cattivo
Papa, ciò avviene per fini superiori e misteriosi che saranno chiariti solo
alla fine dei tempi. Lo Spirito Santo sa trarre il bene dal male.
La salvezza, che i teologi chiamano giustificazione, nasce dal misterioso
incontro tra la volontà dell’uomo e la grazia divina. Chi pensa che nella vita
di un uomo, per salvarsi, sia sufficiente l’azione dello Spirito Santo, senza
la collaborazione della propria volontà. assume una posizione luterana o calvinista.
Chi sostiene che il Papa non può sbagliare perché è infallibilmente assistito
dallo Spirito Santo, ripete l’errore dei calvinisti sulla grazia.
La papolatria è un peccato perché trasforma Pietro in Cristo. Attribuire al
Papa la perfezione e l’infallibilità di ogni atto e parola significa
divinizzarlo e la divinizzazione del Papa non ha nulla a che fare con la
venerazione che dobbiamo alla sua persona. La devozione al Papa, come quella
alla Madonna è un pilastro della spiritualità cattolica. Ma la spiritualità
deve avere un fondamento teologico e, prima ancora, razionale. Per venerare il
Papa bisogna sapere chi è, e anche chi non è, il Papa.
Il Papa non è, come Gesù Cristo, un uomo-Dio. In lui non c’è una divinità
che assorbe l’umanità. Non ci sono due nature, una umana e una divina, in una
sola Persona. Il Papa ha una sola natura e una sola persona, umana: è segnato
dal peccato originale e al momento della sua elezione non è confermato in
grazia. Può peccare e può errare, come tutti gli altri uomini, ma i suoi
peccati e i suoi errori sono più gravi di quelli di tutti gli altri uomini non
solo per le maggiori conseguenze che hanno, ma perché ogni sua mancanza di corrispondenza
alla grazia divina è tanto più grave quanto più grande è l’assistenza dello
Spirito Santo che egli riceve.
Ma, oltre al Primato Romano e all’infallibilità, c’è una terza verità di
fede, che può essere considerata un dogma, anche se la Chiesa non lo ha mai
proclamato con un decreto straordinario. È il dogma della indefettibilità della
Chiesa. L’indefettibilità è affermata da Gesù Cristo stesso: quando dice “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le
porte dell’inferno non prevarranno contro di essa” (Mt.16, 18).
Che cosa significa indefettibilità? Non significa che la Chiesa non può
sbagliare. Significa, come spiegano i teologi, che la Chiesa arriverà fino alla
fine del mondo identica a sé stessa, senza mutare l’essenza che Gesù Cristo le
ha dato.
L’indefettibilità è la proprietà soprannaturale della Chiesa per cui essa
non solo non scomparirà, ma non muterà, rimarrà, sino alla fine del mondo così
come Gesù Cristo l’ha istituita. La Chiesa rimarrà sempre con le sue
caratteristiche, con la sua costituzione, con il suo insegnamento, identica a
se stessa: una nella fede, monarchica e gerarchica nella forma, visibilmente organizzata,
perpetuamente duratura, identica per tutti gli uomini e per tutti i tempi,
senza che nessun conversione o riconversione sia possibile. Il decreto Lamentabilis di san Pio X ha condannato la
proposizione 53 dei modernisti secondo cui “La costituzione organica della
Chiesa non è immutabile; ma la società cristiana, non meno della società umana,
va soggetta a continua evoluzione”.
La Chiesa è indefettibile e tuttavia, nella sua parte umana, può commettere
degli errori e questi errori, queste sofferenze, possono essere provocate dai
suoi figli e anche dai suoi ministri.
Ciò può avvenire quando si confonde l’istituzione con gli uomini che la
rappresentano. La forza del papato non nasce dalla santità di Pietro, così come
la defezione di Pietro non significa la sua debolezza. Perché è alla persona
pubblica del Papa, non alla persona privata, che Gesù ha rivolto le parole: “Tu sei Pietro e su questa Pietra edificherò la mia Chiesa”.
Il Papa non è Giorgio Bergoglio, né Joseph Ratzinger, ma è prima di tutto,
come ci insegna il Catechismo, il successore di Pietro e il Vicario in terra di
N. S. Gesù Cristo. Ma ciò nulla toglie alla grandezza e alla indefettibilità
del Corpo Mistico di Cristo. La santità è una nota ineliminabile della Chiesa,
ma non significa l’impeccabilità dei suoi Pastori, anche supremi, per quanto
riguarda non solo la loro vita personale, ma anche l’esercizio della loro
missione.
Quando Gesù dice che le porte dell’inferno non prevarranno, non promette
l’assenza di attacchi da parte dell’inferno. Egli lascia anzi intravedere
l’esistenza di una lotta accanita. Non mancherà la lotta, ma non ci sarà
sconfitta. La Chiesa vincerà. L’opera principale dell’inferno è l’eresia.
L’eresia non prevarrà sulla fede della Chiesa.
Il dogma dell’indefettibilità ci ricorda due verità: la prima è che la
Chiesa vive continuamente nella lotta, sottoposta agli attacchi dei suoi
nemici: la seconda è che la Chiesa vince i suoi nemici e trionfa nella storia.
Senza lotta però non c’è vittoria e questa è una verità che ci riguarda perché
tocca la nostra vita di figli della Chiesa, ma anche semplicemente di uomini.
La frase “Le porte dell’inferno non
prevarranno” è analoga a quella “Infine il mio Cuore Immacolato
trionferà” pronunciata dalla Madonna a Fatima. Un evento di cui
quest’anno ricorre il 99esimo anniversario.
Il 3 gennaio 1944, la Madonna rivolse parole profetiche a suor Lucia, in
preghiera davanti al tabernacolo.
Suor Lucia racconta: “Ho sentito lo spirito inondato
da un mistero di luce che è Dio e in Lui ho visto e udito: la punta della
lancia come fiamma che si stacca, tocca l’asse della terra ed essa trema:
montagne, città, paesi e villaggi con i loro abitanti sono sepolti. Il mare, i
fiumi e le nubi escono dai limiti, traboccano, inondano e trascinano con sé in
un turbine, case e persone in un numero che non si può contare, è la
purificazione del mondo dal peccato nel quale sta immerso. L’odio, l’ambizione,
provocano la guerra distruttrice. Dopo ho sentito nel palpitare accelerato del
cuore e nel mio spirito una voce leggera che diceva: nel tempo, una sola fede,
un solo battesimo, una sola Chiesa, Santa, Cattolica, Apostolica. Nell’eternità
il Cielo!’. Questa parola ‘Cielo’ riempì il mio cuore di pace e felicità, in
tal modo che, quasi senza rendermi conto, continuai a ripetermi per molto
tempo: il cielo, il cielo!” [11].
“Una sola fede, un solo battesimo, una sola Chiesa, Santa,
Cattolica, Apostolica”. Le parole della Madonna sono le stesse del
papa Bonifacio VIII nella Bolla Unam Sanctam, con
cui, alla fine del Medioevo, ha riaffermato l’unicità salvifica della Chiesa: “La fede ci obbliga a ammettere e ritenere che esiste una sola
Chiesa, santa, cattolica e apostolica (…) al di fuori della quale non troviamo
né salvezza, né remissione di peccati (…) In essa c’è un solo Signore, una sola
fede, un solo Battesimo (Ef, 4, 5)” [12].
E l’ultima esclamazione: “il cielo! il cielo!”
sembra ricordare la drammatica scelta tra il Cielo, che è il luogo dove raggiungono
la felicità eterna le anime che si salvano, e l’inferno, che è il luogo dove
soffriranno eternamente i dannati.
La Chiesa non apre le porte dell’inferno, ma quelle del Cielo.
La Chiesa, comprende non solo il Papa e i vescovi, ma tutti i fedeli,
religiosi e religiose, secolari e laici. Ad essa viene garantita sino alla fine
del mondo l’assistenza divina, la quale non permetterà che essa perisca o si
indebolisca. Ciò significa che la Chiesa nella storia può conoscere momenti di
smarrimento e di defezione ma, considerata nel suo insieme, non condurrà mai i
fedeli alla perdizione.
Gesù, dopo la Risurrezione, appare una seconda volta sul lago di Tiberiade
e dice ai suoi Apostoli: “Ecce ego vobiscum sum omnibus
diebus, usque ad consummationem saeculi” (Mt. 28,
20). Sono con voi, tutti i giorni, fino alla fine dei secoli.
Queste parole non solo confermano che la Chiesa è indefettibile, perché è
divinamente assistita, ma ci ricordano anche che Dio non ci ha dato una legge
impraticabile. Gesù è con noi, ogni giorno, in tutte le situazioni, in tutte le
circostanze. Praticare la legge non è impossibile, perché tutto è possibile con
l’aiuto della grazia di Dio. È questo che vorremmo che il Papa ci ricordasse,
confermandoci nella fede.
Mai come in questo momento sentiamo il bisogno di un punto di appoggio, di
una luce che ci orienti, di una roccia a cui ancorarci. E questa roccia non può
che essere Pietro. Pietro, non Simone. Di Pietro cerchiamo l’essenza, il
significato, l’elemento immutabile. Gli uomini, tutti gli uomini, anche i più
grandi, passano. I princìpi restano e tra tutti ve ne è uno che sorregge gli
altri: è il Primato Romano. Sappiamo perfettamente che solo una voce suprema e
solenne può por fine al processo di autodemolizione in atto: quella del Romano
Pontefice, l’unico al quale sia stata garantita la possibilità di definire la
Parola di Cristo, facendosi portavoce infallibile della fede. Ma sappiamo che
un Papa può contribuire alla auto-demolizione della Chiesa, fino a cadere
nell’eresia, e in questo caso la coscienza ci impone di resistergli.
La Amoris laetitia attribuisce alla coscienza un
posto fondamentale e insostituibile nella valutazione dell’agire morale (303).
Ma la Amoris laetitia svincola la coscienza
dall’oggettività della morale, mentre è sulla morale, sulla fede e sulla
ragione, che noi vogliamo radicare le nostre scelte. Il lume della fede, come
il lume della ragione, non è estrinseco a noi, illumina il cuore e la coscienza
di ogni battezzato, perché la coscienza non è altro che la voce della verità
nella nostra anima. Per questo l’amore illimitato che portiamo verso il Papa
non potrà mai andare contro la nostra coscienza.
Il giorno del giudizio saremo soli davanti a Dio, con la nostra coscienza,
senza Papi, né vescovi, senza parenti né amici, senza la possibilità di mentire
agli altri e a noi stessi e lo sguardo di Dio trapasserà e illuminerà come una
folgore la nostra coscienza. Chi segue la propria coscienza con purezza di
intenzione, avendo come criteri di giudizio i dati oggettivi della fede e della
ragione, non può sbagliare, perché Dio già la illumina in questa via. La
illumina con il dono della fede e con il dono della ragione, su cui la fede si
appoggia. Non possiamo fare nulla che vada contro la fede e contro la ragione,
nulla che sia in qualche modo contraddittorio, ambiguo, equivoco, perché Dio
non è contraddittorio, è luminoso, è semplice, è uguale a sé stesso, nella sua
unità e nella sua Trinità.
La barca della Chiesa sembra essere sommersa dai flutti, e il Signore
sembra dormire, come il giorno della tempesta sul lago di Tiberiade. A lui ci
rivolgiamo dicendogli Exsurge, quare obdormis Domine?
Exsurge (Ps. 42, 23).
Forse era questo l’appello che gli rivolgeva santa Caterina da Siena, davanti
al mosaico di Giotto, in quel lontano gennaio 1380. E forse non è un caso che
quest’anno la tradizionale ora di adorazione al Santissimo dei partecipanti
alla Marcia per la Vita si svolga nella Basilica di Santa Maria sopra Minerva
dove, sotto l’Altar maggiore, riposa il corpo di santa Caterina da Siena. In
quest’ora di adorazione non chiederemo assistenza solo per la Marcia per la
Vita, ma per la Santa Madre Chiesa, lanciando anche noi un estremo appello al
Signore: “Exsurge, quare obdormis Domine? Exsurge!”.
[1] San Basilio, De Spiritu Sancto, XXX, 77, in PG, XXXII, col. 213.
[2] San Girolamo, Dialogus
adversus Luciferianos, n. 19, in PL, 23, col. 171: “Ingemuit totus orbis, et Arianum se esse miratus est”.
[3] Vatican Insider, 14 Aprile 2016
[4] John O’Malley, Che cosa è successo nel Vaticano II, tr. it., Vita
e Pensiero, Milano 2010, p. 313.
[5] Ivi, p.
47.
[6] Ivi, p.
314.
[7] Ivi, p.
51.
[8] http://www.lavie.fr/religion/catholicisme/jean-paul-vesco-dans-amoris-laetitia-le-pape-appelle-a-une-revolution-du-regard-11-04-2016-72152_16.php.
[9] Antonio Piolanti, Pietro Parente, Dizionario di teologia dogmatica, Studium, Rome 1943,
pp. 45-46.
[10] Abbé Jean-Michel Gleize FSPX, Amoris Laetitia, considerations on chapter 8, in http://sspx.org/en/amoris-laetitia-sspx-gleize.
[11] Carmelo de
Coimbra, Um Caminho sob o olhar de Maria, Ediçoes
Carmelo, Coimbra 2012, p. 267.
[12] Bonifacio VIII, Bolla Unam Sanctam, 18 aprile 1302, in Denz-H, n. 870.
Fonte: Corrispondenza romana, 18.5.2016
Fonte: Corrispondenza romana, 18.5.2016
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