Oggi, oltre alla festa di S. Atanasio, si celebra pure
l’Ottava di san Marco evangelista.
In quest’ultima ricorrenza, rilanciamo questo
contributo di Cristina Siccardi.
L’iconografia su san Marco parla ai nostri tempi
di Cristina Siccardi
Sarebbe San Marco, del quale si è celebrata la festa in questi giorni, il
giovane senza nome che fuggì, nudo, al momento dell’arresto di Gesù? Il Vangelo di Marco è il solo a raccontare brevemente
questo episodio. Siamo nell’Orto del Getsemani, dopo aver vegliato in solitudine,
Gesù viene catturato dalle guardie, mentre un «giovanetto lo seguiva, vestito
soltanto di un lenzuolo, e lo fermarono. Ma egli, lasciato il lenzuolo, fuggì
via nudo» (Marco, XIV, 51-52).
Anche Marco fugge, come gli altri discepoli, compreso San Pietro. La
tradizione iconografica più antica raffigura il primo Papa piccolo, mentre
ferisce il servo del sommo sacerdote, di nome Malco, proprio per significare la
distanza tra lui e il Buon Pastore, come dimostrano, per esempio, i mosaici di
San Marco a Venezia. Molto significativa questa iconografia petrina: San Pietro
ha sbagliato – sia nel non vegliare nell’ora del calice di Cristo; sia nel
fuggire; sia nel misconoscere pubblicamente il Figlio di Dio per ben tre volte
– se, dunque, ha sbagliato San Pietro, a maggior ragione possono commettere
errori anche i suoi eredi.
L’iconografia sacra è chiara a questo riguardo: soltanto il Cristo è
l’Autorità suprema ed indiscussa. Nel momento della grande prova tutti i
discepoli sono separati dal Salvatore. Chi ha riprodotto più fedelmente la
narrazione marciana del giovane fuggiasco dall’Orto degli Ulivi è stato il
pittore italiano Giuseppe Cesari, detto il Cavalier d’Arpino (1568-1640), alla cui
bottega si formarono celebri pittori, fra i quali Caravaggio, Andrea Sacchi,
Pierfrancesco Mola.
Definito «pictor unicus, rarus et excellens ac primarius et reputatus», nel 1600 affrescò l’Ascensione nel transetto di San
Giovanni in Laterano, opera che gli valse il Cavalierato di Cristo. Sempre in
quegli anni assunse la direzione dei lavori di decorazione musiva della cupola
di San Pietro, successivi, invece, sono gli affreschi della Villa Aldobrandini
a Frascati e quelli della Cappella Paolina in Santa Maria Maggiore, realizzati
fra il 1605 e il 1612. L’arresto di Gesù Cristo, descritto da Cesari, è
impresso in una tela conservata in Germania, (Cristo fatto prigioniero ca.
1597. Olio su pannello di noce, 89 x 62 cm. Staatliche Museen, Kassel).
La concitazione è generale: soldati, discepoli, lance e bastoni si agitano
in modo confuso. Solo la notte, sullo sfondo, è quieta e stellata, mentre la
candida luna illumina con i suoi bagliori la tragica scena. Gesù si trova al
centro, bellissimo e solenne. La sua veste è rossa, per ricordare il Sommo Sacrificio.
Giuda lo ha già indicato con un bacio agli aggressori, ma il Cavalier d’Arpino
non fissa questo empio gesto, bensì ritrae il traditore mentre si allontana
velocemente con un mantello giallo, lo stesso colore utilizzato da Giotto. Del
resto anche San Pietro qui porta un mantello giallo, perché pure lui, quella
notte, rivelò il suo distacco dal Maestro. Il Rabbi, mesto, ma già glorioso,
realtà già evidenziata dalla luce e dalla bellezza che emana, è abbandonato dai
suoi infedeli discepoli, che si fanno carpire dai limiti della loro umanità.
Finanche Pietro, quindi, si comporta come un incapace nel comprendere la Verità
che gli era stata rivelata vis-à-vis.
Nella tela di Cesari sono tre i discepoli raffigurati: Giuda, Pietro e
Marco, gli altri sono già scappati e sono lontani. E tutti e tre vengono
indicati da Gesù. La sua mano sinistra, nascosta, è rivolta verso Giuda.
Accanto alla colluttazione di Pietro, intento a tagliare l’orecchio al servo,
che Gesù vorrebbe con la mano destra fermare, c’è un giovinetto verso il quale
è rivolto lo sguardo di Cristo, ma questi fugge via, lasciando il lenzuolo di
cui era rivestito.
Nella tradizione della Chiesa, molti commentatori hanno individuato proprio
in lui l’autore del Vangelo più antico, scritto fra il 65 e il 70, raccogliendo
e ordinando elementi anteriori già utilizzati dalla predicazione, dalla
liturgia e dalla catechesi. San Marco viene illuminato nel creare il genere letterario
«Vangelo» al fine di aiutare le comunità cristiane disperse per l’Impero
romano, dove si fronteggiavano culture e religioni diverse e quindi offrire uno
strumento sacro in grado di coagulare, attraverso la Scrittura, la dottrina del
Figlio di Dio e seminare così la Verità, evangelizzando e convertendo. L’autore
non scrive una vita di Gesù, ma ne fa un ritratto attraverso racconti e
parabole, facendo scoprire progressivamente che, in Cristo, Dio realizza per
ogni uomo le promesse antiche.
Nel giovane Marco, dipinto dal Cavalier d’Arpino, possiamo scorgere anche
un importante segno simbolico: il lenzuolo che lascia cadere riconduce alla
Sindone, dove riposerà Gesù nel sepolcro prima di risorgere. La luce folgorante
della Sindone, che il pittore dipinge, sigilla la promessa della Risurrezione
dopo tre giorni di morte. Cristo è solo, ma nella rotazione della sua figura,
Egli segnala i punti chiave di tutto il dipinto: la torsione del suo corpo e la
posizione del volto del ragazzo sono, in linea d’aria, molto vicini, e sul
lenzuolo, che ancora per poco lo avvolge, si concentra e insieme rimbalza la
luminosità che irradia tutta la rappresentazione figurativa.
Osservando San Marco in fuga si scorge, contemporaneamente, un’altra luce,
più calda, dorata, simile a quella dell’unica aureola della scena, quella del
Figlio di Dio. Infatti, a terra, una scia luminosa disegna un percorso, quello
che va dal fuggiasco alla grotta scavata nella roccia, immersa in un giardino e
posta sullo sfondo: è il prossimo sepolcro di Nostro Signore, dove sarà trovata
la Sacra Sindone, testimonianza nei secoli della Sua risurrezione, quella
Sindone che il pittore erede della tradizione artistica del Rinascimento, già
affacciato sul Seicento, fa balenare nelle tenebre dell’oltraggio più
ignominioso della Storia.
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