lunedì 2 maggio 2016

L’iconografia su san Marco parla ai nostri tempi

Oggi, oltre alla festa di S. Atanasio, si celebra pure l’Ottava di san Marco evangelista.
In quest’ultima ricorrenza, rilanciamo questo contributo di Cristina Siccardi.

L’iconografia su san Marco parla ai nostri tempi

di Cristina Siccardi

Sarebbe San Marco, del quale si è celebrata la festa in questi giorni, il giovane senza nome che fuggì, nudo, al momento dell’arresto di Gesù? Il Vangelo di Marco è il solo a raccontare brevemente questo episodio. Siamo nell’Orto del Getsemani, dopo aver vegliato in solitudine, Gesù viene catturato dalle guardie, mentre un «giovanetto lo seguiva, vestito soltanto di un lenzuolo, e lo fermarono. Ma egli, lasciato il lenzuolo, fuggì via nudo» (Marco, XIV, 51-52).
Anche Marco fugge, come gli altri discepoli, compreso San Pietro. La tradizione iconografica più antica raffigura il primo Papa piccolo, mentre ferisce il servo del sommo sacerdote, di nome Malco, proprio per significare la distanza tra lui e il Buon Pastore, come dimostrano, per esempio, i mosaici di San Marco a Venezia. Molto significativa questa iconografia petrina: San Pietro ha sbagliato – sia nel non vegliare nell’ora del calice di Cristo; sia nel fuggire; sia nel misconoscere pubblicamente il Figlio di Dio per ben tre volte – se, dunque, ha sbagliato San Pietro, a maggior ragione possono commettere errori anche i suoi eredi.
L’iconografia sacra è chiara a questo riguardo: soltanto il Cristo è l’Autorità suprema ed indiscussa. Nel momento della grande prova tutti i discepoli sono separati dal Salvatore. Chi ha riprodotto più fedelmente la narrazione marciana del giovane fuggiasco dall’Orto degli Ulivi è stato il pittore italiano Giuseppe Cesari, detto il Cavalier d’Arpino (1568-1640), alla cui bottega si formarono celebri pittori, fra i quali Caravaggio, Andrea Sacchi, Pierfrancesco Mola.
Definito «pictor unicus, rarus et excellens ac primarius et reputatus», nel 1600 affrescò l’Ascensione nel transetto di San Giovanni in Laterano, opera che gli valse il Cavalierato di Cristo. Sempre in quegli anni assunse la direzione dei lavori di decorazione musiva della cupola di San Pietro, successivi, invece, sono gli affreschi della Villa Aldobrandini a Frascati e quelli della Cappella Paolina in Santa Maria Maggiore, realizzati fra il 1605 e il 1612. L’arresto di Gesù Cristo, descritto da Cesari, è impresso in una tela conservata in Germania, (Cristo fatto prigioniero ca. 1597. Olio su pannello di noce, 89 x 62 cm. Staatliche Museen, Kassel).
La concitazione è generale: soldati, discepoli, lance e bastoni si agitano in modo confuso. Solo la notte, sullo sfondo, è quieta e stellata, mentre la candida luna illumina con i suoi bagliori la tragica scena. Gesù si trova al centro, bellissimo e solenne. La sua veste è rossa, per ricordare il Sommo Sacrificio. Giuda lo ha già indicato con un bacio agli aggressori, ma il Cavalier d’Arpino non fissa questo empio gesto, bensì ritrae il traditore mentre si allontana velocemente con un mantello giallo, lo stesso colore utilizzato da Giotto. Del resto anche San Pietro qui porta un mantello giallo, perché pure lui, quella notte, rivelò il suo distacco dal Maestro. Il Rabbi, mesto, ma già glorioso, realtà già evidenziata dalla luce e dalla bellezza che emana, è abbandonato dai suoi infedeli discepoli, che si fanno carpire dai limiti della loro umanità. Finanche Pietro, quindi, si comporta come un incapace nel comprendere la Verità che gli era stata rivelata vis-à-vis.
Nella tela di Cesari sono tre i discepoli raffigurati: Giuda, Pietro e Marco, gli altri sono già scappati e sono lontani. E tutti e tre vengono indicati da Gesù. La sua mano sinistra, nascosta, è rivolta verso Giuda. Accanto alla colluttazione di Pietro, intento a tagliare l’orecchio al servo, che Gesù vorrebbe con la mano destra fermare, c’è un giovinetto verso il quale è rivolto lo sguardo di Cristo, ma questi fugge via, lasciando il lenzuolo di cui era rivestito.
Nella tradizione della Chiesa, molti commentatori hanno individuato proprio in lui l’autore del Vangelo più antico, scritto fra il 65 e il 70, raccogliendo e ordinando elementi anteriori già utilizzati dalla predicazione, dalla liturgia e dalla catechesi. San Marco viene illuminato nel creare il genere letterario «Vangelo» al fine di aiutare le comunità cristiane disperse per l’Impero romano, dove si fronteggiavano culture e religioni diverse e quindi offrire uno strumento sacro in grado di coagulare, attraverso la Scrittura, la dottrina del Figlio di Dio e seminare così la Verità, evangelizzando e convertendo. L’autore non scrive una vita di Gesù, ma ne fa un ritratto attraverso racconti e parabole, facendo scoprire progressivamente che, in Cristo, Dio realizza per ogni uomo le promesse antiche.
Nel giovane Marco, dipinto dal Cavalier d’Arpino, possiamo scorgere anche un importante segno simbolico: il lenzuolo che lascia cadere riconduce alla Sindone, dove riposerà Gesù nel sepolcro prima di risorgere. La luce folgorante della Sindone, che il pittore dipinge, sigilla la promessa della Risurrezione dopo tre giorni di morte. Cristo è solo, ma nella rotazione della sua figura, Egli segnala i punti chiave di tutto il dipinto: la torsione del suo corpo e la posizione del volto del ragazzo sono, in linea d’aria, molto vicini, e sul lenzuolo, che ancora per poco lo avvolge, si concentra e insieme rimbalza la luminosità che irradia tutta la rappresentazione figurativa.
Osservando San Marco in fuga si scorge, contemporaneamente, un’altra luce, più calda, dorata, simile a quella dell’unica aureola della scena, quella del Figlio di Dio. Infatti, a terra, una scia luminosa disegna un percorso, quello che va dal fuggiasco alla grotta scavata nella roccia, immersa in un giardino e posta sullo sfondo: è il prossimo sepolcro di Nostro Signore, dove sarà trovata la Sacra Sindone, testimonianza nei secoli della Sua risurrezione, quella Sindone che il pittore erede della tradizione artistica del Rinascimento, già affacciato sul Seicento, fa balenare nelle tenebre dell’oltraggio più ignominioso della Storia.

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