Nella festa di S. Atanasio, che vinse il mondo ariano con la
forza della fede e della Verità (cfr. Corrado Gnerre, Quando Atanasio si ritrovò solo in
«un mondo ariano». e vinse con la forza della fede e della verità, in Il
Timone, 21.4.2016) rilancio volentieri
questo contributo. L'articolo è anche riportato da Chiesa
e postconcilio.
Tre Leoni nel secolo degli ariani
di Carlo Codega
Tre figure di Vescovi coraggiosi,
che hanno lottato fino all’ultimo per custodire intatto il deposito della Fede,
si sono susseguiti nel secolo degli ariani; secolo in cui nuovamente e
misticamente, il Verbo Incarnato è passato dalla morte alla vita...
«Ingemuit totus orbis et Arianum
se esse miratus est» (Il mondo intero gemette sbalordendosi di essere diventato
ariano): con queste significative parole san Girolamo descrisse lo stato
ecclesiastico della metà del IV secolo quando l’eresia ariana, ben sostenuta
dall’Imperatore Costanzo II, sembrava aver ormai abbattuto i difensori della
vera Fede, sedotto i deboli e corrotto gli opportunisti. Quella croce gloriosa
che, apparendo a Costantino prima della battaglia di Ponte Milvio nel 312,
aveva segnato il trionfo di Cristo sull’Impero Romano, passato in pochi anni
dalla persecuzione verso i Cristiani al loro pubblico riconoscimento, ora
veniva utilizzata, nella sua “apparente” debolezza, da Sacerdoti e Vescovi, ben
introdotti alla corte di Costanzo II (figlio del medesimo Costantino) per
mostrare l’inferiorità di Gesù rispetto al Padre. Strana parabola della Chiesa
in questo secolo emblematico: dalla persecuzione al trionfo, dal trionfo
all’autodistruzione per infine celebrare la sua silenziosa “risurrezione”, e
tutto nel segno della Croce, «scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani»
(1Cor 18,23). È sempre il mistero della Croce di Cristo, Capo mistico, che si
prolunga nelle membra mistiche a segnare il corso della Chiesa nella storia.
I nemici di Cristo
I nemici di Cristo
Con poche ma significative parole il grande sant’Atanasio seppe descrivere i suoi grandi avversari ariani: “Christomakoi” (nemici di Cristo). Tale giudizio duro e tagliente non è però senza ragione, considerando che sant’Alessandro d’Alessandria, il primo nemico dell’eresiarca Ario, fin dall’inizio denunciò la malvagità di quest’eresia con una lettera ai Vescovi cattolici: «Mettendo in discussione ogni pia ed apostolica dottrina, gli ariani hanno costruito un’officina per far la guerra a Cristo, alla maniera dei giudei, attaccare la divinità del nostro Salvatore e predicare che egli è semplicemente uguale a chiunque altro». Dal punto di vista teorico infatti l’arianesimo non fu altro che una rilettura razionalista della Fede cattolica, incapace di accettare i misteri della Rivelazione (Unità e Trinità di Dio, Incarnazione), per proporre una fede “a portata d’uomo”, una fede in cui Dio ha bisogno di un intermediario, “divino” (in un certo senso) ma non Egli stesso “Dio”, per comunicare con il mondo. Quest’intermediario non è altro che Gesù Cristo, il Logos, il quale ha certo in sé una scintilla del divino ma in alcun modo è Dio: Egli fu generato dal Padre dal nulla, al pari di noi, e vi fu un tempo in cui non era, quindi non è né l’origine assoluta né eterno, e, di conseguenza, non è Dio. I passi della Sacra Scrittura in cui si parla della vera umanità del Cristo vengono poi forzati e utilizzati per asserire in Lui l’assenza della Divinità.
Tale teoria che subordinava il
Figlio al Padre e, soprattutto, gli negava l’essenza divina, trovò però una
solenne condanna al Concilio di Nicea (325), convocato dall’Imperatore Costantino:
l’Assise fu quasi unanime (solo tre Vescovi rifiutarono di firmare) nel
proclamare l’omousia (consustanzialità) del Padre e del Figlio, ovvero il
Figlio è Dio tanto quanto il Padre. Contro il baluardo dottrinale di Nicea ben
presto gli ariani montarono la loro “officina”, ovvero le arti politiche di
alcuni dei loro esponenti, come Eusebio di Nicomedia ed Eusebio di Cesarea,
che, ben introdotti alla corte di Costantino, riuscirono a ribaltare
“politicamente” la sentenza di Nicea. Costantino, che molto apprezzava gli
adulatori, approvò l’azione di questi Vescovi ariani, confermando la
deposizione e l’esilio dei Vescovi difensori di Nicea, e lasciò che persuadessero
gran parte dell’Episcopato orientale, più preoccupato che convinto, a passare
dalla loro parte. Addirittura Eusebio di Nicomedia arrivò a convincere
Costantino a riabilitare l’eresiarca Ario: appena arrivato a Costantinopoli,
poco prima della pubblica reintegrazione nel Clero, Ario morì però in una
pubblica latrina, ancora scomunicato. Una fine immonda per chi aveva sparso la
sua immonda dottrina per l’orbe cattolico!
Sant’Atanasio di Alessandria: la forza del leone
In questo contesto inizia la vicenda di sant’Atanasio, già collaboratore e Diacono di sant’Alessandro, partecipe al Concilio di Nicea e, poi, successore del Patriarca di Alessandria nel 328. Se c’è qualcuno che possa, come san Paolo, “vantarsi della sua debolezza” (cf. 2Cor 11,30) nella quale si manifesta la forza di Cristo questi è proprio sant’Atanasio. Anch’egli, come l’Apostolo delle genti, avrebbe potuto elencare le numerose vicissitudini dei trent’anni di tribolazione: cinque volte deposto, due volte portato davanti ai tribunali come malfattore, due volte in esilio lontano dalla patria, una fuga nel deserto per scappare alla morte, una reclusione nella sua casa di campagna, una presso la tomba del padre e, proprio al pari di san Paolo, «oltre a tutto questo, l’assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le Chiese» (cf. 2Cor 11,23-30), per la sua Chiesa a lui fedele, costretta a soffrire insieme a lui. Tempra di leone e cuore di pastore, la fortezza rifulge in tutta la sua vicenda umana quale sua dote eminente: fortezza che lo fece resistere, saldo e incrollabile, durante i difficili trenta anni di persecuzione subiti non tanto dall’Imperatore quanto dai confratelli Vescovi, senza punto perdere confidenza verso quella Chiesa che sentiva come madre, affidando anzi a Dio tutta la sua sorte. «La tempesta passerà e tornerà il sereno», era la sua risposta abituale a chi ne compiangeva le sofferenze. Soprattutto poi quella passione per Gesù Cristo, per la difesa della sua Divinità e della sua Opera redentrice, che lo animava fin nel profondo, fino quasi a renderlo incrollabile, “immortale”, proprio ciò che il suo nome significa (athanatos = privo di morte): «Meglio morire per Dio che tradire la verità», scrisse al Vescovo Osio di Cordova, ortodosso ma, forse, caduto per debolezza.
Le sue traversie iniziarono nel 335 quando la sua intransigente difesa del Concilio di Nicea di fronte al diffondersi dell’arianesimo “cortigiano” e il rifiuto di riaccogliere Ario in comunione, gli costò la prima convocazione, davanti al Concilio di Tiro. Non avendo niente di oggettivo di cui accusarlo, le più svariate imputazioni vennero scagliate contro di lui: violenze contro un Prete, profanazione di un Calice e di un Altare, immoralità con una donna e, addirittura, l’uccisione di un Vescovo scismatico, a cui avrebbe addirittura tagliato un braccio – che i nemici potevano ben esibire – per compiere atti magici. Le scarse prove che si presentavano erano false e tendenziose, il che rendeva abbastanza facile a sant’Atanasio provare la sua innocenza: davanti all’accusa di omicidio, seppe scovare e presentare al Concilio il Vescovo Arsenio e, mostrando l’integrità dei suoi arti, domandò all’insigne Sinodo se «pensasse che l’Onnipotente possa dare ad un uomo più di due braccia»! Nonostante ciò la via per condannare il Patriarca di Alessandria si trovò lo stesso: l’astuto Eusebio di Nicomedia, facendo leva sui sospetti politici di Costantino, fece credere all’Imperatore che sant’Atanasio trattenesse derrate di grano egiziano dirette a Costantinopoli, per affamare la popolazione e spingerla alla ribellione. Conquistato l’animo dell’Imperatore la soluzione fu veloce: sant’Atanasio fu deposto dal Concilio di Tiro ed esiliato da Costantino a Treviri!
Primo dei cinque esili, e prima
delle molte sofferenze, in cui a quelle fisiche si sommavano quelle morali:
dopo la morte di Costantino (337) – in seguito alla quale poté rientrare ad
Alessandria – il secondo esilio fu deciso nuovamente dai Vescovi orientali
spinti da Costanzo II, figlio di Costantino e suo successore in Oriente. In
questo secondo esilio (339-’42), che lo portò a Roma, almeno ebbe dalla sua
parte Papa Giulio, l’Imperatore d’Occidente Costante e tutto l’Episcopato
occidentale. Non sarebbe stato così in seguito: dopo la morte di Costante e la
riunificazione dell’Impero nelle mani dell’ariano Costanzo (350), ecco che il
Patriarca di Alessandria dovette subire anche il terzo esilio, forse il più
doloroso. Più doloroso perché il Vescovo nominato al suo posto, l’empio Giorgio
di Cappadocia – forse un ex-soldato radiato dall’esercito per immoralità –
versò più volte il sangue dei fedeli, che mal accettavano il suo episcopato,
mentre il Santo, protetto dal suo Clero, riuscì a scappare e prendere la via
del deserto, dove trascorse ben sei anni (356-’62); più doloroso perché
l’intero Episcopato occidentale, con solo poche eccezioni, cedette alle
pressioni di Costanzo scomunicando il Patriarca; più doloroso ancora perché lo
stesso Papa Liberio, estenuato dalle violente lusinghe imperiali, finì pro bono
pacis per rifiutare la comunione al Vescovo perseguitato; ancor più doloroso
perché i Vescovi occidentali e orientali, nei Sinodi gemelli di Rimini e
Seleucia (359), finirono per rifiutare il Concilio di Nicea e proporre una
formula dogmatica che, pur senza negarla, occultava la Divinità di Cristo: è
proprio questo il momento in cui l’intero mondo sembrava diventato ariano e in
cui maggiormente il cuore del Santo soffriva per la sorte della sua amata
Chiesa.
Eppure la morte di Costanzo e
l’avvento al trono di Giuliano (362) permisero al partito cattolico di
risorgere e riconquistare, con la credibilità della Dottrina e la forza
dell’esempio, piano piano le diocesi. Gli ultimi due esili del leone di Alessandria
– voluti dal pagano Giuliano nel 362 e dall’ariano Valente nel 364 – tutto
sommato, furono brevi e non impedirono al Patriarca di esercitare, finalmente
dopo trent’anni di difficoltà, il suo ministero pastorale, rischiarando le
menti con la sana Dottrina, svegliando le coscienze intorpidite dall’eresia e
porgendo la mano anche a coloro che erano caduti per debolezza e ingenuità
nella trappola dell’arianesimo. La fortezza di questo leone, a ben vedere, non
sta tanto nella forza con cui seppe trionfare quanto nella pazienza con cui
seppe attendere e pazientare il trionfo di Cristo, sfruttando sempre le
circostanze infelici per fare del bene (a Treviri e a Roma il Santo “importò”
il monachesimo egiziano), infatti, come dice il libro dei Proverbi, «l’uomo
paziente vale più dell’uomo forte, e chi domina l’animo vale più di un
espugnatore di città» (16,32).
Sant’Ilario di Poitiers: il coraggio del leone
Al leone d’Oriente si affianca il leone di Poitiers, detto anche l’Atanasio d’Occidente: sant’Ilario. Di una generazione successiva, sant’Ilario non vide i primordi dell’arianesimo e gli anni di Costantino ma incominciò a operare e a combattere proprio nei momenti dell’illusorio trionfo dell’arianesimo su tutta la Chiesa, per poi essere tra i primi a cooperare alla ricostruzione del vero Cattolicesimo. Nato nel paganesimo Ilario arrivò al Cristianesimo per una via filosofica: fu in particolare, come narra nelle vibranti pagine del libro I del De Trinitate, il dogma della Santissima Trinità e della consustanzialità del Padre e del Figlio a illuminargli il cammino verso la conversione. Il prologo del Vangelo di san Giovanni aprì il suo intelletto all’accettazione del Cristianesimo: «Lì la mente già trepida e ansiosa ritrova più speranza, di quanto ne avrebbe aspettata. In primo luogo viene imbevuta della cognizione di Dio Padre. E ciò che prima conosceva per ragione dell’eternità, dell’infinità e della natura del suo Creatore, ora lo considera come proprio anche dell’Unigenito di Dio [...]. È poi rarissima la fede in questa conoscenza, ma comporta il massimo premio: poiché “anche i suoi non lo hanno accettato” mentre coloro che lo hanno accettato sono stati elevati a figli di Dio non per una generazione della carne ma della fede». Questo splendido mistero della Trinità che gli aveva dischiuso gli scrigni della Verità, ora veniva distrutto, con particolare attenzione alla Divinità di Cristo, da quest’arrogante setta che, sotto la protezione del potere imperiale, s’imponeva con la violenza anziché con la forza della verità sui Pastori della Chiesa. Lo stesso sant’Ilario, divenuto Vescovo negli anni ’50, dovette assistere al terribile spettacolo del Concilio di Milano del 355, quando i Vescovi occidentali furono costretti dai funzionari imperiali con la violenza a rompere la comunione con sant’Atanasio. Solo san Dionigi di Milano, sant’Eusebio di Vercelli e Lucifero di Cagliari seppero opporsi e pagarono questa loro scelta con la medesima pena del Patriarca di Alessandria, l’esilio, spesso in mezzo a violenze e umiliazioni. Nel 356 lo stesso triste destino sant’Ilario dovette subirlo sulla sua pelle: in un Sinodo convocato ad Arles – da lui chiamato «sinodo dei falsi apostoli» – sotto la presidenza di Saturnino, longa manus dell’Imperatore Costanzo II, egli solo, insieme al Vescovo di Marsiglia, si oppose e fu condannato all’esilio in Asia Minore. Qui, come in tutta la sua vita, diede prova di ciò che poi avrebbe scritto all’Imperatore: «Io sono cattolico e non voglio essere eretico; sono cristiano, e non sono ariano: preferisco morire in questo mondo piuttosto che lasciar corrompere dal dominio d’un uomo la purezza immacolata della verità».
Anziché fiaccarlo o sconfortarlo, l’esilio, colto come un’occasione della Provvidenza, lo accrebbe nella forza e nel coraggio: in Asia Minore, con lo studio dell’arianesimo e dei sottili sofismi che avevano ingannato molti Vescovi e presbiteri in buona fede, svolse una preziosissima opera di avvicinamento tra l’Episcopato occidentale e orientale, che lo portò a scrivere il suo celebre De Trinitate. Soprattutto sant’Ilario fu l’anima della resistenza “nicena” al Concilio di Seleucia (359), coinvolgendo anche gli ariani moderati (i cosiddetti semiariani od omeusiani) contro l’empia eresia anomea (gli ariani più estremi che negavano qualsiasi somiglianza tra Gesù e il Padre). Purtroppo l’Imperatore, avvedutosi dei consensi che stava raccogliendo attorno a sé Ilario anche tra l’Episcopato orientale, trasferì il Concilio a Costantinopoli, perché avesse un esito simile a quello gemello di Rimini (359), dove l’Episcopato occidentale aveva ceduto a firmare una professione di Fede lacunosa, anche se non apertamente eretica. Nonostante la delusione per questa terribile notizia, sant’Ilario non dubitò che, nonostante la debolezza dei Vescovi in Oriente e in Occidente, la Fede cattolica sopravvivesse nei cuori dei fedeli: «Spesso le orecchie dei fedeli sono più pure delle labbra dei pastori», come ebbe a scrivere in quest’occasione. Ciò lo spronò a continuare a lottare con cuore impavido per la retta Fede: trasferitosi a Costantinopoli, in preparazione del Concilio, scrisse più volte all’Imperatore Costanzo perché autorizzasse una pubblica disputa col suo grande accusatore, Saturnino di Arles. Da buon “pastore” ariano, ben più avvezzo alla politica che alla Teologia, questi si guardò bene dall’accettare la sfida, anzi sollecitò il suo patrono imperiale ad una scelta singolare: sant’Ilario venne infatti rimandato in patria, apparentemente come “perdono” ma in realtà per allontanarlo dal Concilio che doveva avere nei piani ariani un esito identico a quello di Rimini. Pur accettando la decisione imperiale, sant’Ilario rispose alla cabala tra Imperatore e ariani con un atto di coraggio, degno di un vero difensore del Verbo Incarnato di fronte all’arroganza dei nemici di Cristo. Nel libello Contra Costantium il Santo sfidò frontalmente l’Imperatore accusandolo di attentare alla Chiesa molto più che gli antichi persecutori pagani Nerone e Decio: «È giunto il tempo di parlare, perché è finito il tempo di tacere. [...]. Oggi dobbiamo combattere contro un persecutore mascherato, contro un nemico che ci lusinga, contro l’Anticristo Costanzo che ha per noi non colpi mortali ma carezze, che non proscrive le sue vittime per dare loro la vera vita, ma le colma di carezze per dar loro la morte, che non dà la libertà delle prigioni oscure, ma una servitù di onori nei propri palazzi, che non lacera i fianchi, ma invade i cuori, che non stacca la testa con la spada, ma uccide l’anima con l’oro, che non pubblica editti per condannare al fuoco, ma accende per ciascuno il fuoco dell’inferno. Non discute, per timore di essere sconfitto, ma lusinga per dominare, confessa Cristo per rinnegarlo, procura una falsa unità perché non vi sia affatto la pace, infierisce contro alcuni errori per meglio distruggere la dottrina di Cristo, onora i Vescovi, perché cessino di essere Vescovi, costruisce chiese, mentre va distruggendo la fede».
L’effimero trionfo ariano dei due Concili gemelli, lasciò spazio, con la morte di Costanzo II (361), alla possibilità di rinascita della Fede cattolica, così come stabilita al Concilio di Nicea. Accettato dai Vescovi francesi, divenne il trascinatore carismatico di questi, favorendo i buoni senza respingere coloro che erano caduti per debolezza più che per malizia. Mentre combatteva a spada tratta con Aussenzio di Milano, celebre Vescovo ariano, egli ricostruì passo dopo passo la cattolicità in Gallia, unendo, come ha detto Benedetto XVI, «la fortezza nella fede alla mansuetudine nei rapporti interpersonali» (Catechesi del 10.10.2007), il tutto esito di una comprensione singolare della Rivelazione e delle Sacre Scritture. Il coraggio di cui diede prova sant’Ilario in tutta la sua vita contro quel “mondo” che sembrava tutto coalizzato contro i veri Cristiani, non fu altro che una risposta fiduciosa a Colui che per primo aveva detto ai suoi Discepoli: «Abbiate coraggio! Io ho vinto il mondo» (Gv 16,33).
Sant’Ambrogio di Milano: una leonessa per curare i cuccioli feriti
Un altro salto generazionale, rimanendo nel mondo occidentale, ci conduce invece all’epoca di sant’Ambrogio di Milano. Con la morte dell’Imperatore Costanzo l’arianesimo perse il suo grande sostegno politico e, di fatto, perse gran parte della sua consistenza, lasciando però una Chiesa lacerata dalla contesa interna e un clero “cortigiano” privo di profondità dottrinale e senza alcuna spinta verso la perfezione, se non immerso nell’immoralità vera e propria. Avendo suscitato ben poche vocazioni autentiche, spesso gli ariani riempivano i ranghi del clero con personaggi discutibili e ambiziosi, più carrieristi che pastori. Il successore di Costanzo II, Giuliano, passato alla storia come l’Apostata per il suo tentativo di far rivivere il paganesimo e annientare “dolcemente” il Cristianesimo, nonostante avesse avuto come precettore un Vescovo ariano, non favorì il partito eretico ma preferì, ambiguamente, permettere il ritorno dei Vescovi cattolici, così da fomentare la discordia interna e indebolire la Chiesa, sua prima nemica. Vero è che la fine del suo breve regno (365) riportò nella pars orientale dell’Impero un fazioso ariano, Valente, che per una decina di anni fece rivivere la politica di Costanzo, anche se con minor efficacia.
Insomma, l’arianesimo recedeva
ovunque, in Occidente più che in Oriente, ma rimanevano ampie sacche di
resistenza, soprattutto dove meno giungeva l’influenza del Papa. Una di queste
sacche fu Milano, governata dal 355 al 374 dall’ariano Aussenzio, nominato
Vescovo dall’Imperatore dopo l’esilio di san Dionigi, che non aveva voluto
sottoscrivere la condanna di sant’Atanasio. «Più immorale di un giudeo», secondo
sant’Ambrogio, questi nei venti anni di Episcopato provocò la decadenza morale
e religiosa della città e del Clero, dove sopravvivevano comunque alcuni buoni
Sacerdoti come il dotto san Simpliciano, maestro e successore di sant’Ambrogio.
Ambrogio, proveniente da una nobile famiglia romana di funzionari e cresciuto a
stretto contatto con la Chiesa di Roma, era asceso a importanti cariche
politiche, fino a quella di consolare dell’Italia Occidentale. Nel 374, alla
morte di Aussenzio, mentre egli cercava di guidare pacificamente e con
equilibrio l’elezione del successore, turbata dai contrasti tra ariani e
cattolici, finì per venire egli stesso eletto, nonostante non avesse ancora
ricevuto il Battesimo (cosa abbastanza comune allora): un bambino, mentre si discuteva
accanitamente, ispirato da Dio, incominciò a gridare “Ambrogio Vescovo”,
riscuotendo i plausi e l’accordo di tutta la folla.
Nonostante potesse sembrare
l’elezione di un moderato, a metà strada tra Cattolici niceni e ariani,
sant’Ambrogio era sicuramente di schietta fede cattolica, tanto è vero che come
prima decisione dispose il ritorno delle spoglie mortali di san Dionigi. Il
Santo però, da abile “politico”, comprese la difficile situazione, e, sotto la
guida di san Simpliciano, adottò, al pari di sant’Atanasio e sant’Ilario, una
politica ecclesiastica di pacificazione: più che perseguitare o cacciare i Sacerdoti
e fedeli ariani, che costituivano gran parte del suo gregge, tentò di
riconquistarne i cuori e d’illuminarne le menti, anche attraverso un solerte
programma di moralizzazione, a cui sono dedicati gran parte delle sue prediche
e dei suoi commentari biblici. Non che si rifiutasse pavidamente di lottare
contro la fazione ariana, ancora fortemente radicata a corte (che era proprio a
Milano), come testimonia la celebre disputa delle Basiliche del 386. Nei primi
mesi del 386, infatti, il Vescovo ariano Mercurino, che aveva adottato il
soprannome di Aussenzio in onore del predecessore di sant’Ambrogio, era stato
invitato a Milano dall’Imperatrice madre Giustina (che governava al posto del
fanciullo Valentiniano II) per prendere la guida dei fedeli ariani, creando
così uno scisma di fatto. La protervia di Giustina arrivò a imporre, attraverso
una legge ad hoc, a sant’Ambrogio di cedere a Mercurino la Basilica Porziana
(l’odierna San Vittore), col pretesto del fatto che i Cattolici avevano appena
costruito una nuova Basilica e che anche gli ariani avessero diritto a
celebrare i riti della Settimana Santa in un luogo sacro. Senza volerne sentire
ragione, il Santo chiamò a raccolta il popolo cristiano che la notte della
Domenica delle Palme si asserragliò nella Basilica Porziana, mentre la guardia
imperiale con minacciose torce circondava la Basilica. La pacifica resistenza
dei Cattolici milanesi, spronati dal loro Pastore, che in quell’occasione
adottò per la prima volta il canto degli inni sacri, per tenere svegli e
rincuorare i fedeli nel grande pericolo, ebbe alla fine la meglio sulla
superbia di Giustina.
Come dicevamo però l’opera pastorale di sant’Ambrogio non fu tanto una polemica e un’opposizione frontale contro l’arianesimo quanto un tentativo di conquista e di risanamento: come una leonessa non mancò di proteggere con coraggio e forza i suoi cuccioli dalle fiere eretiche ma, allo stesso tempo, da vera madre, curò le loro ferite morali e dottrinali di venti anni di “pastorale” ariana con la sua lingua melliflua, proprio come una leonessa avrebbe fatto verso i cuccioli vulnerati.
Come dicevamo però l’opera pastorale di sant’Ambrogio non fu tanto una polemica e un’opposizione frontale contro l’arianesimo quanto un tentativo di conquista e di risanamento: come una leonessa non mancò di proteggere con coraggio e forza i suoi cuccioli dalle fiere eretiche ma, allo stesso tempo, da vera madre, curò le loro ferite morali e dottrinali di venti anni di “pastorale” ariana con la sua lingua melliflua, proprio come una leonessa avrebbe fatto verso i cuccioli vulnerati.
La sua predicazione risanatrice
poi, come ammettono tutti gli studiosi, fu dominata dalla figura di Cristo, proprio
quella che la propaganda pseudo-teologica ariana colpiva a morte. «Omnia est
Christus nobis» (Cristo è tutto per noi), questa è la parola d’ordine del Santo
Vescovo di Milano, precursore, nell’epoca patristica, di quel sano
cristocentrismo che risuona in tutte le sue opere: Cristo, l’Unigenito del
Padre, è «il principio della Creazione, il seme di tutto», attraverso cui Dio
ha creato tutte le cose; è «l’eterno splendore dell’anima» che è stato mandato
dal Padre «per darci la possibilità di contemplare, nella luce del suo volto,
le realtà eterne e celesti»; ma soprattutto è il Salvatore di tutti, «la
sorgente della vita» tanto che «nel Redentore di tutti non entrava un solo
uomo, ma tutto quanto il mondo». Pertanto tutti gli uomini, qualsiasi sia il loro
stato e le ferite che indeboliscono la loro anima, devono rivolgersi con
fiducia a Cristo: «Se vuoi curare una ferita, egli è medico; se sei riarso
dalla febbre, è fontana; se sei oppresso dall’iniquità, è giustizia; se hai
bisogno di aiuto, è forza; se temi la morte, è vita; se desideri il cielo, è
via; se fuggi le tenebre, è luce; se cerchi cibo, è alimento». L’appello ad
accogliere Cristo nei propri cuori che sant’Ambrogio rivolge a tutti i
Cristiani è il più bel suggello alla storia di questo secolo, dove nuovamente e
misticamente, il Verbo Incarnato è passato dalla morte alla vita, per dare a
tutti la vita: «Entri nella tua anima Cristo, abbia dimora nei tuoi pensieri
Gesù, per precludere ogni spazio al peccato nella sacra tenda della virtù».
Nessun commento:
Posta un commento