Per il Venerabile Pio XII il
tempo è galantuomo: più trascorre e più emerge la grandezza della sua figura.
Da ultimo sono emersi dalle carte di Antonio Nogara, figlio dell’ex direttore
dei Musei Vaticani, i piani nazisti per sequestrare papa Pacelli durante l’inverno
tra il 1943-’44. In quello stesso periodo, peraltro, come si apprende da un
libro pubblicato un decennio fa, di David Alvarez e Robert Graham, Spie naziste
contro il Vaticano, il regime si servì di ex preti apostati, che nutrivano un
forte odio verso la Chiesa, come Albert Hartl, si dedicarono a testi
sull’Inquisizione, allo scopo di infangare la Chiesa “intollerante”, oppure si
prestarono a scrivere compendi teologici sulla presunta moralità
dell’eutanasia, come nel caso dell’ex sacerdote Josef Mayer (così ricorda Spie
naziste contro il Vaticano, in Libertà e persona, 10.7.2016).
«Quella notte del 1944».
Un’inedita testimonianza sul piano nazista per sequestrare Pio XII.
di Antonio Nogara
Tra
le carte di Antonio Nogara (1918-2014)— figlio di Bartolomeo, che fu direttore
dei Musei vaticani dal 1920 fino alla morte nel 1954, e di Maria Albani,
insegnante e traduttrice — il cugino Bernardino Osio ha ritrovato uno scritto
inedito datato 11 marzo 2013. Il testo, che pubblichiamo per intero con lievi
ritocchi formali, aggiunge un’importante testimonianza di prima mano sul
progettato sequestro di Pio XII da parte dei nazisti durante il terribile
inverno dell’occupazione di Roma.
Nella
Roma “città aperta” del 1943 e 1944 il linguaggio corrente annoverava, con
molta frequenza, le parole allontanarsi, eclissarsi, imbucarsi, nascondersi,
scappare, scomparire, con riferimento alle persone, e celare, mascherare,
mimetizzare, occultare, rispetto alle cose; parole tutte in contrapposizione ad
arresti, deportazioni, razzie, retate, requisizioni, sequestri, termini
rivelatori dell’allora travagliata situazione.
Pur
con l’afflusso di profughi in cerca di assistenza e rifugio, la sovrappopolata
Urbe appariva quasi deserta. Pressoché totalmente aboliti passeggi,
ricevimenti, intrattenimenti in genere; le “sortite”, talvolta ai limiti
dell’avventura, erano destinate alla ricerca dello stretto necessario da
reperire il più possibile vicino, percorrendo preferibilmente vicoli, stradine,
piazzette ove contiguità di negozi, portoni e svincoli offrivano maggiori
possibilità di occultarsi o vie di fuga.
A
sera tutti a casa, intorno a gracchianti radio, di limitate e disturbate
ricezioni, col volume al minimo, in cerca di informazioni, o impegnati, con
familiari e condomini, in prolungate partite a briscola, scopa e giochi simili,
ma sempre con le orecchie tese ad avvertire il pericolo incombente nel rumore
sospetto del passo cadenzato di una ronda, un secco comando militare, il rumore
di un veicolo, uno sparo…
Gli
assembramenti indispensabili per ragioni vitali, lesti a dissolversi al primo
segnale di allarme, si formavano a ridosso delle mense pubbliche, delle
parrocchie elargitrici di razioni provviste dal Vicariato e dal Circolo di San
Pietro, che grazie alla generosità della Società Generale Immobiliare e ai suoi
camion protetti dalle bandiere vaticane — alcuni vennero anche mitragliati con
vittime fra gli autisti — venivano reperite nell’Italia centrale (Umbria e
Toscana).
Nell’attesa
dei turni, l’anonimato e l’occasionalità degli incontri favorivano l’intreccio
di banali, guardinghe conversazioni di circostanza nelle quali la comune
forzata sopportazione trovava momenti di sfogo con interiezioni nelle quali
l’iperbole sarcastica mascherava spesso la protesta. Tra tante riportatemi mi
colpì allora quella di un tale che, raccontando di aver assistito a
sistematiche retate e sparizioni di parenti e conoscenti, azzardò, in tono
sornione, «ci manca solo che qui si portino via anche il Papa!». L’espressione,
al limite dell’immaginabile, avrebbe trovato il voluto effetto pure con
riferimento al Cupolone o al Colosseo, ma con l’allusione al Pontefice
raggiungeva la massima efficacia, come una maledizione tra dolore, umiliazione,
sgomento, risvegliando nel subcosciente, credente o non credente, l’angosciosa
domanda: ma che ne sarebbe di Roma senza il Papa, centro della cristianità?
L’incalzare
degli avvenimenti non mi distolse dal ricordo di quella battuta, scaturita
ingenuamente come effusione in un momento di stizza, ma non tanto inverosimile
né del tutto infondata. A distanza di poche settimane la sorte me ne avrebbe
inaspettatamente data personale prova.
Nel
1921 in considerazione dei molteplici incarichi affidati, oltre alla direzione
generale dei Musei, il Pontefice Benedetto xv concesse a mio padre Bartolomeo,
privilegio ambito ed eccezionale per un laico sposato con prole, l’abitazione
nei Sacri Palazzi apostolici che, con i Musei, la Biblioteca, l’Archivio e una
limitata parte degli attuali giardini, completavano territorialmente il
Vaticano, prima del concordato e del trattato del Laterano del 1929. Pur con le
migliori disposizioni da parte degli uffici competenti, la ristrettezza degli
spazi rendeva difficile il reperimento dei locali idonei a uso abitativo
familiare e, dopo vari mesi di ricerche, l’assegnazione cadde su un gruppo di
sale dismesse dalla Segreteria dei Brevi, affacciate con due ampie vetrate sul
centro del braccio centrale della Terza loggia, con un retro di camere e
corridoi prospicienti il cortile del Triangolo. L’accesso era a fianco
dell’ascensore, allora ad acqua, che serviva anche le altre logge del cortile
di San Damaso.
Quando
la Segreteria di Stato era chiusa, la deserta Terza loggia diveniva un ideale
ambulacro con vista su Roma, da percorrere da un capo all’altro col bello e col
brutto tempo. I miei genitori ne approfittavano la sera dopo pranzo; spesso li
raggiungevo e più volte li trovavo mentre conversavano con monsignor Giovanni
Battista Montini che incontravano mentre usciva, abbondantemente fuori orario,
dalla Segreteria di Stato per ritornare alla sua abitazione situata sul retro
della Prima loggia, a poca distanza dall’appartamento Borgia.
I
contatti per motivi di ufficio di mio padre con monsignor Montini erano
pressoché giornalieri e i ripetuti incontri serali, divenuti abituali negli
anni, avevano dato un’impronta di familiarità anche ai rapporti con mia madre e
con me. A parte l’ora — saranno state le ventitré — non provai quindi
particolare sorpresa, quando a sera inoltrata in pieno inverno del 1944, tra
fine gennaio e i primi di febbraio, avendo sentito suonare il campanello
all’ingresso, mi trovai di fronte monsignor Montini che, entrando velocemente e
chiudendo immediatamente la porta alle sue spalle, mi disse di «dover»
incontrare urgentemente «il professore».
Imbarazzato
di trovarmi già in vestaglia e pantofole, lo pregai di accomodarsi nello
studio-biblioteca e corsi da mio padre che già era a letto sotto un paio di coperte
pesanti, papalina in testa e piumino sui piedi. Il riscaldamento era stato
abolito per mancanza di carbone e per rispetto ai sacrifici imposti dalle
circostanze ai romani; la stanza, esposta a nord, era particolarmente fredda.
Con
i tempi che correvano, sorpreso ma non contrariato tenuto conto dell’urgenza
manifestata da un personaggio di nota discrezione, mio padre si rivestì
rapidamente. Non ricordo come intrattenni l’illustre ospite finché, più presto
del previsto, comparve mio padre e, dopo un breve conciliabolo riservato fra i
due, essi uscirono frettolosamente: mio padre imbacuccato con in mano il
pesante mazzo delle chiavi del Museo e della Biblioteca, monsignor Montini con
una torcia elettrica che aveva depositato su una cassapanca all’ingresso,
torcia del tipo di quelle in dotazione dei pompieri per le ronde notturne.
Preoccupato
per la salute di mio padre più che per i motivi dell’escursione che aveva per
evidente oggetto i musei, attesi con mia madre il ritorno che avvenne dopo
quasi tre ore. Mio padre, che apparve molto provato e infreddolito, laconicamente
ci rassicurò e, rinviando il resoconto a ore migliori, si mise decisamente a
letto con aria preoccupata.
Solo
nel pomeriggio seguente, con raccomandazioni di assoluta segretezza, mio padre
ci svelò che l’ambasciatore del Regno Unito sir Francis d’Arcy Osborne e
l’incaricato d’Affari degli Stati Uniti Harold Tittmann avevano congiuntamente
avvertito monsignor Montini di aver avuto notizia, da parte dei rispettivi
servizi militari di informazione, di un avanzato piano dell’Alto Comando
tedesco per la cattura e deportazione del Santo Padre col pretesto di porlo in
sicurezza «sotto l’alta protezione» del Führer. Nel qual caso, ritenuto
imminente, le forze alleate sarebbero immediatamente intervenute per bloccare
l’operazione, anche con sbarchi a nord di Roma e lancio di paracadutisti.
Occorreva pertanto apprestare subito un rifugio segreto ove rendere
irreperibile il Santo Padre per il tempo strettamente necessario, due o tre
giorni, all’intervento militare.
Queste
in sintesi la sostanza e la portata del passo diplomatico anglo-americano,
confidenzialmente esposte da monsignor Montini a mio padre come drammatico
movente eccezionale dell’escursione notturna, naturalmente da mantenersi
segreta. Con questo scopo, sempre secondo il resoconto di mio padre, iniziò
quella notte la ricerca, dalla Galleria lapidaria alla scala del Bramante e, da
lì, nei locali della vecchia Direzione dei musei e annessi, intorno al
Nicchione, al cortile Ottagono sino al cortile della Pigna, non trascurando
ambienti minori adibiti a depositi, ripostigli, spogliatoi, eventualmente da
adattare; ma purtroppo la ricerca relativa a questi locali diede esito
negativo.
Escludendo
a priori per troppa visibilità la Pinacoteca e il fabbricato inerente al nuovo
ingresso, parzialmente abitato, ed escludendo i magazzini dei Marmi
strutturalmente inabitabili, si imponeva una sosta. La ricerca, sino a quel
momento deludente, venne estesa alla Biblioteca che, non presentando soluzioni
interne, suggerì tuttavia a mio padre, per avervi lavorato oltre dieci anni
quale “scrittore” agli inizi del secolo, l’idea di visitare anche la contigua
Torre dei Venti e la visita confermò le aspettative.
Il
massiccio ed elegante torrione, in stato di semiabbandono, si rivelò il
contenitore di un intrico di vani, corridoi, scale e scalette, un
minilabirinto, in ubicazione favorevole per un tragitto coperto e di breve
durata da percorrere. Monsignor Montini ne parve convinto per quindi concludere
la galoppata straordinaria e tornare a casa.
Non
vi è dubbio che di galoppata si fosse trattato per il ritmo di marcia che
monsignor Montini aveva impresso nella foga della ricerca, retto bene da mio
padre che contava trent’anni di età più di Montini [Bartolomeo Nogara aveva
allora quasi 76 anni, Montini 46]. Mio padre ricordava anche come l’illustre
compagno di galoppata, pur nell’angoscia della ricerca, manifestasse ogni tanto
brevi commenti per le bellezze d’arte suggestive intraviste, a sprazzi di luce,
nella rapida ricerca. Quanto alla definitiva scelta del rifugio mio padre aveva
la sua personale convinzione sulle improbabilità del caso di ricorrervi,
trattandosi di un espediente precario, di sicurezza relativa e di validità
temporale molto ridotta. E aveva proposto a monsignor Montini anche un piano
alternativo di riserva, e cioè di estendere la ricerca anche alla basilica di
San Pietro, con annessi e connessi, sotterranei compresi, come sede forse più
sicura nella deprecata ipotesi di sequestro del Santo Padre. Mio padre concluse
il resoconto, fissandoci amorevolmente, con la frase «Dio ci aiuti», invocazione
che era anche un invito: «non chiedetemi altro».
Seguì
un lungo silenzio, mia madre annichilita tra incredulità e sgomento, io stupito
dell’improvvisa piega degli avvenimenti che richiedevano l’immediata ricerca di
soluzioni certamente a elevato rischio personale, anche per gli amici che
avevamo aiutato a nascondersi in Vaticano e che non volevamo abbandonare. Oltre
all’umiliante infelice sorte del Santo Padre cui ci legavano affetto e
devozione, incombeva l’opprimente pensiero che una visita delle ss non avrebbe
giovato a nessuno, rifugiati ebrei e non ebrei, con le possibili ritorsioni sui
residenti ecclesiastici e laici. In questa spasmodica quanto vana attesa di
confortanti sviluppi del fronte di Anzio trascorsero alcune settimane agitate,
anche per un susseguirsi di informazioni contrastanti provenienti da varie
fonti, anche autorevoli.
Ricordo
quindi come giorno di grande sollievo quello nel quale mio padre, ritornando a
casa, dopo una delle pressoché quotidiane visite in Segreteria di Stato, ci
confidò che il piano di Hitler era già da tempo a conoscenza del Vaticano, che
era stato allertato da riservate indiscrezioni tedesche di persone ostili al
piano in questione. La stessa ambasciata di Germania avrebbe evidenziato a
Berlino gli inevitabili riflessi negativi nelle popolazioni cattoliche, anche
dei vari paesi neutrali. La temuta folle operazione non sarebbe avvenuta grazie
alle prese di posizione interne delle autorità diplomatiche tedesche a Roma. È
certo comunque che le apprensioni per l’incolumità del Pontefice trovarono fine
solo dopo l’abbandono di Roma da parte dell’esercito tedesco.
La
pacifica soluzione della vicenda non dissipò alcune perplessità che
l’accompagnarono e che, trattandone, non possiamo trascurare. È fuori dubbio
che le informazioni portate dai due ambasciatori alleati fossero di gravità
tale, anche rispetto a quanto già a conoscenza, da indurre monsignor Montini ad
attivarsi immediatamente per affrontare subito un’improvvisa emergenza. È
altrettanto impensabile che monsignor Montini non rendesse immediatamente
edotto del passo diplomatico il cardinale Luigi Maglione, allora segretario di
Stato, senza escludere più estese e alte consultazioni. L’intervallo di circa
quattro ore, tra il congedo dei due ambasciatori e la solitaria
intrusione-visita all’abitazione di Bartolomeo Nogara, troverebbe spiegazione
in queste previe consultazioni interne nella Segreteria di Stato.
L’assicurazione dell’immediato intervento che nel giro di pochissimi giorni
avrebbe liberato il Pontefice fecero senza dubbio affiorare motivi di
incertezza e scetticismi per il brevissimo tempo prospettato per l’intervento
militare come sulla possibilità di contrastare gli eventuali incursori tedeschi
che, certamente ben addestrati e preparati allo scopo, avrebbero agito a colpo
sicuro nel termine di mezz’ora o poco più.
A
distanza di qualche tempo, riparlando della escursione notturna con i dubbi che
l’accompagnarono, mio padre manifestò il convincimento che nella circostanza
monsignor Montini, indipendentemente da personali valutazioni, assolvesse a un
atto dovuto, con lo scrupolo e lo zelo a lui connaturati. Nella situazione
drammatica di quei mesi la denuncia congiunta degli ambasciatori delle due
maggiori potenze alleate non poteva in alcun modo essere disattesa. Fortunatamente
l’esecrabile evento fu scongiurato risparmiando alla storia pagine più dolorose
di quelle già registrate in quei tempi. Ritengo oggi pressoché condivisa da
tutti la convinzione espressa da mio padre che Pio xii, per l’alto senso di
dignità, per il carattere forte dimostrato in varie circostanze, per l’alto
senso di onore che sempre accompagnò il suo magistero, mai avrebbe ammesso
compromessi barattando la propria incolumità con soluzioni incompatibili, pur
in minima parte, col decoro e il prestigio del Pontefice e della Chiesa.
La
riesumazione di ricordi di quel periodo intensamente vissuto mi risveglia
ancora sopite emozioni come quella delle ampie vetrate della Terza loggia che
tremavano al rombo cadenzato delle cannonate del fronte, ormai vicino ai
Castelli romani, annuncio dei tempi nuovi che avrebbero presto bussato alla porta.
Fonte: L’Osservatore romano, 6.7.2016, p. 4, rilanciato dal sito papa Pio XII, 8.7.2016. In francese, cfr. Zenit, 8 juill. 2016
Fonte: L’Osservatore romano, 6.7.2016, p. 4, rilanciato dal sito papa Pio XII, 8.7.2016. In francese, cfr. Zenit, 8 juill. 2016
Nessun commento:
Posta un commento