Nella
festa dei santi martiri Abdon e Sennen, rilanciamo questo contributo.
Ambito romano, Crocifissione con Madonna ed i SS. Maria Maddalena, Giovanni evangelista, Abdon e Sennen, XVIII sec., museo diocesano, Rieti |
Guillaume Courtois, Sepoltura dei SS. Abdon e Sennen, 1656-57, Basilica di S. Marco, Roma |
Rispetto
dei luoghi sacri, decoro dell’abito sacerdotale… qualcuno se ne ricorda?
di Giovanni Lugaresi
“… È perciò un peccato che di fatto, la consacrazione […] venga ai nostri
giorni vanificata, proprio ad opera di sacerdoti, con manifestazioni non
compatibili col luogo sacro: concerti, spettacoli, balletti, riunioni di ogni
tipo, che un tempo si facevano fuori, o ‘di fronte al tempio’, come ricorda la
parola latina pro-fanum; sembra inarrestabile il fenomeno delle
chiese adibite a concerti non solo di musica sacra ma profana: gli atti non
sacri che normalmente si fanno altrove, comportano una profanazione. Nella
pubblicità delle cosiddette ‘Notti Sacre’, scorreva in sequenza la scritta ‘musica,
preghiera e spettacoli nelle chiese’: una scimmiottatura delle ‘Notti Bianche’,
ormai diffuse nelle città secolarizzate europee. Come il cristiano
nell’iniziazione consacra se stesso a Dio, dopo l’esorcismo, così il luogo
santo con la dedicazione è consacrato a Dio, dopo essere stato sottratto
all’influenza del maligno, che deve restare fuori del tempio con tutte le sue
azioni. Non si possono ospitare tali o altre azioni profane, laddove si
celebrano i divini misteri. Come è possibile che vescovi e preti abbiamo
dimenticato che quel luogo, edificato spesso con sacrificio dei fedeli, è stato
‘dedicato’ – parola che ricorda l’atto con cui si offre qualcosa di molto personale
a chi si ama – a Dio?…”.
Queste espressioni si leggono nel nuovo libro di don Nicola Bux “Con i sacramenti non si scherza”
(Prefazione di Vittorio Messori; Cantagalli Editore; pagine 223, Euro 17,00)
che dovrebbe essere letto e meditato soprattutto da certi presbiteri e,
naturalmente, da certi vescovi.
Quelle espressioni le abbiamo tratte dalla parte finale del libro, il
capitolo “L’estensione del senso sacramentale”, con riferimento alla
“Benedizione della chiesa e… profanazione”.
Già, la chiesa, il luogo sacro, la casa di Dio – si diceva una volta. Dove
peraltro, a quanto pare (o per lo meno in non pochi casi), Dio viene… dopo.
Viene dopo la vanità e le “fantasie” del prete, che fa quello che vuole,
alterando il rituale della messa, per esempio. E non ci si riferisce al vetus ordo, bensì al novus ordo, che pure
ha delle “regole”, regolarmente (ci si consenta il bisticcio) disattese dai
celebranti.
Facciamo una sola osservazione, secondaria, rispetto a ben altre
“alterazioni”, aggiunte, omissioni.
Dopo il saluto finale, di “andare in pace” (non ce n’è uno migliore!) per
esempio, occorre dire: “buona domenica”? E che bisogno c’è di affidare la
distribuzione delle sacre particole a un laico? Dove sta scritto? Ci risulta,
da nessuna parte… Potremmo citare altre cose, ma lasciamo perdere.
Per occuparci invece di altre azioni come l’applauso: non a Dio, bensì ai
cresimandi, agli sposi (una volta lo si faceva fuori dalla chiesa insieme al
lancio del riso!), ai morti, perfino, dopo certe interminabili testimonianze,
sermoni, letture, messaggi, e chi più ne ha più ne metta, spesso una baraonda
indescrivibile…
E poi, ecco: ci sia mai nessun prete che controlla come ci si presenta in
chiesa? Cioè come ci si va vestiti? Donne e ragazze sbracciate, indossano
braghette (si chiamano minishorts?) e da qualche tempo anche i maschi non
scherzano. Uomini maturi che vanno a far la comunione (a ricevere il Corpo di
Cristo) come andassero in spiaggia: pantaloni corti e infradito ai piedi… Ma
dove siamo? Consapevolezza del luogo dove ci si trova? Rispetto per Nostro
Signore? – detto per inciso, a volte sembra di trovarci a “ruoli” invertiti: al
centro, non più Dio, ma l’uomo (il prete), o gli uomini (i fedeli): ma questo
non significa creare degli idoli, nuovi idoli al posto del vero Dio?…
Rispetto per certi preti, no, non lo meritano. Dal momento che sono proprio
loro, a dare il cattivo esempio, dal momento e nel momento che li vedi in giro vestiti da
tutto, tranne che… da prete.
Ce ne erano sette, sere fa ad una sagra paesana in un paese del Veneto ad
aggirarsi fra gli stands, fermarsi davanti ad uno spiedo gigante. E uno degli
addetti alla cucina cui si era rivolto uno di questi individui, non
conoscendolo ma vedendo i suoi abiti senza alcun “segno di
riconoscimento-distintivo” gli ha risposto chiamandolo “capo”, come si usa da
certe parti, in certe occasioni, con certe persone.
Non diversamente è andato ad altri che si sono visti pochi giorni fa (siamo
a fine luglio) arrivare a casa il parroco a cavallo della bicicletta, maglietta
verde a mezze maniche, jeans con robuste tiracche, cappellino da giocatore di
baseball in testa… a fare che cosa? Ma a dare la benedizione “pasquale”! Al
che, uno di questi laici ha avvertito il parroco… ritardatario e vestito in
modo non degno di un sacerdote nell’adempimento delle sue funzioni, che la
“benedizione pasquale” era già venuto a impartirla, nel periodo giusto, qualcun
altro: un frate amico!
Ora (limitandoci all’abito): possibile che non esista più il concetto del
“decoro dell’abito”, appunto, riguardante laici e presbiteri? Non è una
questione di forma, è una questione di sostanza, alla base della quale ci sono,
secondo noi, due elementi: buona educazione, rispetto del prossimo, ma soprattutto,
trattandosi di “cose di religione”, rispetto di Dio, della chiesa, per cui più
che mai l’abito deve essere consono al ruolo ricoperto.
E per quel che riguarda poi il vestirsi… da tutto, tranne che da prete (oh,
i begli abiti che sembrano tagliati da Caraceni!, oppure vestitacci da sensale
di bestiame nei paesi); sovviene un ricordo di giovinezza.
Correva l’anno 1966 e non era ancora estate. Ragazzo di bottega nella
redazione del Resto del Carlino di Ravenna, il caposervizio incaricò me,
cattolico e conoscitore di tanti preti, di svolgere una piccola inchiesta sulla
adozione del clergyman, da poco concessa dalle autorità ecclesiastiche, che prevedeva
anche il mantenimento di quel colletto bianco chiamato anche “collare romano”,
adesso raramente usato, perché si preferisce tenere aperta al collo la camicia
e in tal guisa apparire magari in tv mentre si spiega il Vangelo domenicale… in
chiesa!!!
Feci un giro di telefonate e la risposta che mi piacque maggiormente fu
quella di don Giovanni Zambotti, colto personaggio, docente di filosofia in
seminario, che disse pressappoco: vedi, mio caro, ci sono preti grassi e
magrissimi, belli e brutti, piccoli e alti… la veste talare copre tutto e va
bene così! Vedrai che robe con il clergyman!!!
In effetti, clergyman prima, abiti vari poi, esaltano pregi e difetti
fisici di chi li indossa. Certo, questo è un discorso che riguarda l’estetica,
e non gli diamo un peso superiore a quello che ha, però… però… vedere certi
preti budelloni, con ventri prominenti, ancorché sostenuti da robuste tiracche,
non aiuta ad avere il senso del loro ministero…
Prevediamo la battuta antica: “l’abito non fa il monaco”.
Verissimo, ma noi abbiamo sempre sostenuto che “può aiutare a farlo!”.
E se questi preti (non parliamo di certi vescovi, ignari di quel che fa il
loro clero, e che magari non vogliono neppure saperlo – forse perché ciò
metterebbe in discussione i loro compiti, anche, di controllo?) sono così, si
comportano così, è ovvio che nelle loro chiese si faccia di tutto, tranne che
avere rispetto e rendere omaggio al “padrone di casa”, cioè a Nostro Signore,
al quale peraltro vengono voltate le spalle nelle celebrazioni liturgiche…
Et de hoc, satis.
PS: Tutto quanto sopra è stato visto, ben osservato da chi scrive.
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