Nella festa di S. Bernardo di
Chiaravalle, dottore della Chiesa e confessore, rilanciamo quest’interessante
contributo, pubblicato anche da Corrispondenza romana.
Autore sconosciuto, Pala di S. Bernardo con scene della sua vita, 1285-90, Museu de Mallorca, Palma, Majorca |
Juan Correa de Vivar, Morte di S. Bernardo con La Vergine ed i SS. Lorenzo e Benedetto, 1566, museo del Prado, Madrid |
Anonimo, Madonna con Bambino con i SS. Vincenzo, Bernardo e Defendente, XVI sec., chiesa di S. Bernardo di Cerete Basso, Cerete |
Autore ignoto, S. Bernardo, XVII-XVIII sec., Abbazia di Nostra Signora del Sacro Cuore, Westmalle, Malle |
Alejandro de Loarte, Miracolo di S. Bernardo, 1620, museo del Prado, Madrid |
Vicente Carducho, Miracolo della Lattazione di S. Bernardo, 1634, Museo de Santa Cruz, Toledo |
Wouter Crabeth II, S. Bernardo converte il duca Guglielmo d'Aquitania, 1641 |
Gaspar de Crayer, S. Stefano Harding ammette Bernardo nell’Ordine cistercense, 1660 circa, Art Gallery of Ontario, Toronto |
Ambito veneto, Madonna in gloria con S. Bernardo, XVIII sec., Verona |
Giovanni Odazzi, Miracolo della Lattazione di S. Bernardo alla presenza di S. Agostino, 1720-31, Palazzo ducale, Gubbio |
Francisco Muntaner Moner, stampa della Lattazione di S. Bernardo da un'opera del Murillo, 1791-1800, museo del Prado, Madrid |
Denatalità, aborto, celibato, divorzio, malthusianesimo:
ecco perché è finito l’Impero romano Lo storico francese De Jaeghere racconta
l’epoca del disincanto che tiene di mira l’occidente
di Giulio Meotti
Thomas Cole, “La distruzione dell'Impero romano” (particolare), 1836 (New York, Historical Society). Il dipinto, allegorico, è ispirato al sacco di Roma del 455 a opera dei Vandali |
Prima fu Montaigne, che nel freddo inverno del 1580 a
Roma si guarda intorno e riflette sulla “grandezza infinita” soffocata sotto
quei ruderi. Poi Piranesi e Goethe, che si soffermano davanti alle rovine del
Foro romano, alle occhiaie vuote del Colosseo, all’immensità delle Terme di
Caracalla. Due secoli dopo, davanti a quella stessa maestà indistruttibile, fu
Edward Gibbon a interrogarsi sui motivi che portarono alla fine del maggior
impero della storia, a descriverne il rapido declino e l’agonia. Passano altri
due secoli e uno storico inglese, Michael Grant, individua le somiglianze fra
Roma e l’occidente: i ricchi, come allora, enormemente ricchi, che si
distaccano dal tessuto sociale; la borghesia che perde ogni capacità di
resistenza; la burocrazia che si estende in modo incontrollabile; la classe
politica che vive isolata dai sentimenti delle masse. Le orde dei barbari, i
fantasmi delle province periferiche, le ville dei senatori egoisti, i fragori
degli scontri religiosi e razziali passano ammonitori, costantemente tenendo di
mira il presente.
L’idea del declino occidentale spiegato attraverso la
storia di Roma non è affatto nuova. Dopo la Prima guerra mondiale, un
insegnante tedesco prematuramente in pensione di nome Oswald Spengler aveva
pubblicato il primo volume di uno dei libri più influenti del secolo, “Der
Untergang des Abendlandes”, tradotto come “Il tramonto dell’occidente”. Un
testo accantonato nella seconda metà del secolo, troppo turgida la sua prosa,
troppo acceso il suo debito nei confronti di Nietzsche, troppo evidente la sua
influenza sui nazisti. Poi, fino al crollo dell’Unione sovietica, gli storici
si sono concentrati su quello che lo storico britannico J. M. Roberts ha
chiamato “Il trionfo dell’occidente”, in un libro pubblicato nel 1985. Vi è
stata poi la consolidata tradizione liberal espressa da Gore Vidal nel suo
“Declino e caduta dell’impero americano”, il rischio che gli Stati Uniti
potessero fare la fine di Roma, la paura che le istituzioni repubblicane
potessero essere danneggiate da una presidenza imperiale.
Adesso Roger-Pol Droit, classe 1949, accademico francese
e filosofo di fama internazionale, affronta l’argomento in uno strepitoso
saggio di copertina della rivista Le Point, dove campeggia l’immagine di Roma
in rovina. “Francia, Belgio, Germania, si moltiplicano gli attacchi
terroristici”, scrive Roger-Pol Droit. “Mentre aumenta il numero delle vittime,
l’impotenza e la fragilità della nostra civiltà, la sua usura e il suo declino,
hanno cominciato a perseguitarci”. Ovunque ci sono segni di frattura: “I
jihadisti hanno condotto l’assalto contro le libertà delle democrazie laiche. Le
nostre paure sono innumerevoli: pandemie, invasioni, cambiamenti climatici,
veleni alimentari, estinzione delle specie… Il caos e le lacrime occupano
l’immaginario collettivo, ormai saturo di confronti simbolici. Forse un giorno
parleranno di noi come si parla dei dinosauri: un universo strano, andato,
inghiottito. Non appena ci guardiamo indietro, che spettacolo! Civiltà
scomparse hanno lasciato dietro di sé macerie, capolavori e domande per lo più
senza risposta”.
Roger-Pol Droit fa l’esempio di otto civiltà perdute,
oltre a Roma. Come la Mesopotamia, il territorio dell’Iraq moderno, dove più di
tremila anni prima di Cristo la civiltà sumera aveva inventato la scrittura, i
contratti commerciali, e altri fattori chiave del progresso. “Rivolte e rovesci
militari possono essere la causa della sua morte”. C’è la storia di Creta,
l’isola del re Minosse, che “ha visto una fiorente civiltà i cui palazzi,
scritture, metallurgia, ceramica e terracotta, affreschi e raffinatezza non
hanno smesso affascinare Arthur John Evans. Le ragioni della sua scomparsa sono
controverse e i terremoti non sono più considerati una spiegazione
sufficiente”. Ci sono gli Olmechi del Messico: “Le cause della loro scomparsa
rimangono sconosciute”. Si passa dagli Etruschi ai Nabatei di Petra, la
capitale scavata nella roccia. Per arrivare al regno Khmer: “Questo vasto
impero sembra essere crollato sotto una combinazione di eccessiva burocrazia,
immigrazione e impoverimento del suolo”. E per concludere con gli Anasazi in
America (“sappiamo solo che i loro villaggi furono abbandonati molto tempo
prima dell’arrivo degli europei) e l’Isola di Pasqua nel Pacifico: “Abitata,
fiorente, poi abbandonata per ragioni che sono ancora oggetto di discussione”.
Le civiltà muoiono dall’esterno o dall’interno? Questo è
il quesito più affascinante e riguarda anche l’occidente contemporaneo. “La
loro scomparsa è il frutto di aggressioni esterne (guerre, disastri naturali,
epidemie) o la conseguenza di una erosione interna (decadimento, incompetenza,
scelta disastrosa)?”, si chiede Roger-Pol Droit. Arnold Toynbee, nel secolo
scorso, è stato irremovibile: “Le civiltà muoiono per suicidio, non per
omicidio”. Questa formula dello storico britannico, autore di uno studio
monumentale di storia in dodici volumi, pubblicati dal 1934 al 1961, è
diventata celeberrima. Lo studioso francese René Grousset ha sviluppato la
stessa idea: una civiltà è distrutta dalle proprie mani. “Nessuna civiltà viene
distrutta dall’esterno senza essersi innanzi tutto essa stessa deteriorata,
nessun impero viene conquistato dall’esterno senza essersi precedentemente
autodistrutto”, scriveva Grousset. “E una società, una civiltà non si
distruggono con le proprie mani che quando hanno cessato di capire la loro
ragione d’essere, quando l’idea dominante intorno alla quale si erano dianzi
organizzate ridiventa loro estranea”.
Nel 2005, Jared Diamond, professore di geografia presso
l’Università della California, nel suo libro “Collapse” indica cinque fattori
principali di mortalità delle civiltà, in testa il cambiamento climatico. E’ il
caso dei vichinghi, che in Groenlandia prosperarono per quattro secoli, prima
di degenerare rapidamente, fra violenze e carestie, rimanendo infine vittime
della loro insipienza. C’è invece chi, come l’americano Joseph Tainter, autore
del celebrato saggio “The Collapse of Complex Societies”, sostiene che a
causare il crollo delle civiltà, come Roma, siano sistemi istituzionali sempre
più costosi, la svalutazione monetaria, il debito pubblico, la tassazione e
l’eccessiva regolamentazione. “Ogni civiltà ha la tendenza a credersi eterna”,
scrive Roger-Pol Droit. “Non prevede la fine, tranne la nostra”. Roma, per
esempio, non ha mai pensato che il suo regno si sarebbe estinto. Le generazioni
hanno visto un mondo che si stava disintegrando, ma per secoli, nonostante lo
scricchiolio, l’edificio sembrava immortale. “Ci sono solo tre possibili
ipotesi”, conclude il filosofo francese. “Il più ottimista in cui ci si illude
che la nostra sopravvivenza sia altamente probabile. Il più pessimista: la
nostra terra un giorno non lontano sarà fredda come la luna. L’ipotesi più
plausibile è che i nostri attuali stili di vita periranno, ma tutto il resto
vivrà. Come al solito”.
Un altro storico francese, Michel De Jaeghere, direttore
del Figaro Histoire, nel suo libro di seicento pagine “Les derniers
jours”, gli ultimi giorni, spiega che la vera grande causa della caduta
dell’impero fu l’implosione demografica. Il volume è stato appena tradotto in
italiano dalla casa editrice Leg, nella bella traduzione di Angelo Molica
Franco. De Jaeghere spiega che “a partire dal Terzo secolo il declino
demografico divenne evidente”. Non ci fu soltanto la “peste antonina”, che
imperversò sotto Marco Aurelio e Commodo. La crisi economica, l’insicurezza, il
brigantaggio, scoraggiarono la natalità, che smise di garantire anche il
semplice rimpiazzo delle generazioni. In Gallia la popolazione era regredita
del venti per cento. “Le famiglie erano fragili e poco feconde. Il concubinato
rimaneva la norma, il divorzio era frequente, la mortalità elevata. Le province
di frontiera del Reno e del Danubio (Rezia, Norica, Pannonia, Mesia) avevano
una densità di popolazione bassissima; per questo avrebbero esercitato sui
barbari che vivono dall’altro lato del confine un’attrazione irresistibile. La
perdita della pietas si tradusse, da dopo l’apogeo dell’Alto Impero, in uno
spopolamento che avrebbe avuto un grande peso sui destini del mondo romano. Se
si arrivò a reclutare i barbari nell’esercito, a donare loro delle terre, se si
cercò di imprigionare i popoli sotto un giogo fiscale, amministrativo e
finanziario, fu in gran parte perché il censo ogni cinque anni costringeva le
autorità a constatare che la popolazione romana diminuiva di continuo, persino
nelle provincie non esposte all’invasione e alla guerra”. L’archeologia porterà
alla luce cimiteri in luoghi dove due secoli prima esistevano alcuni dei più
prestigiosi edifici della vita urbana. “L’impero d’occidente non aveva più una
popolazione sufficiente e quindi meno ricchezze per affrontare lo sforzo
sovrumano che richiedeva, in termini di uomini e di denaro, la difesa del suo
vasto territorio e delle sue lunghissime frontiere”. Augusto aveva promulgato
delle leggi contro i celibi (riguardavano solo i cittadini romani, quindi in
sostanza solo la popolazione italiana). Lucano aveva descritto, sotto Nerone,
la desolazione di un’Italia in cui “pochi abitanti vagano per le strade deserte
di antiche città”.
La crisi demografica accasciò l’impero nei primi due
secoli della nostra èra: “Nell’età dell’oro dell’Alto Impero, all’apogeo della
civiltà. Il divorzio era diventato una pratica comune tra le élites alla fine
della Repubblica, sotto l’influsso dei costumi ellenistici”. La contraccezione
era praticata in tutta la scala sociale: “Galla – scriveva Marziale in uno dei
suoi Epigrammi – vuole essere soddisfatta ma non vuole figli”. “Qui –
dichiarava un contadino di Crotone nel ‘Satyricon’ di Petronio – nessuno cresce
bambini perché se si hanno degli eredi naturali non si viene invitati ai
banchetti, né agli spettacoli, si è esclusi da ogni piacere e si vive in
tristezza tra la feccia”. Le fonti letterarie ci informano della varietà dei
metodi utilizzati: amuleti e pozioni magiche, periodi di astinenza, impacchi o
beveroni a base di noce di galla, di ferola erubescente, di artemisia, di
scorza di melograno, di polpa di fico secco. “Nel II secolo l’aborto, che fino
ad allora veniva praticato per far sparire bambini nati da amori clandestini,
si estese a grande scala tra le coppie dell’alta società. L’infanticidio di una
creatura non riconosciuta dal padre non veniva punito dalla legge.
L’omosessualità era diffusa”. Se lo spopolamento venne aggravato dalle epidemie
di peste scoppiate ai tempi di Marco Aurelio e di Claudio II, oltre che dai
cinquant’anni di guerra e di distruzioni del III secolo, questo tuttavia non fu
solo la conseguenza della crisi dell’impero, “ma anche lo specchio di un
disincanto, il frutto di un materialismo che portava a ritenere la famiglia una
forma di schiavitù, il bene comune una chimera e la felicità di vivere senza
obblighi, invece, come il fine supremo dell’esistenza”. Per dirla con Papa
Benedetto XVI, “il disfacimento degli ordinamenti portanti del diritto e degli
atteggiamenti morali di fondo che ad essi davano forza, causavano la rottura
degli argini che fino a quel momento avevano protetto la convivenza pacifica
tra gli uomini. Un mondo stava tramontando”. Michel De Jaeghere spiega ancora
che “i privilegiati praticavano un malthusianesimo che garantiva loro di
soddisfare la propria arte di vivere, i contadini evitavano gravidanze che li
avrebbero fatti vivere nell’imbarazzo, le masse urbane li imitavano per
preservare il livello di vita che veniva loro assicurato, senza eccessivo
sforzo, dagli aiuti e dalle distribuzioni statali”. Una serie di leggi
d’ispirazione cristiana tentò, nel IV secolo, di rilanciare la demografia: con
impedimenti al divorzio, multe per la rottura dei fidanzamenti, repressione
degli stupri, dei rapimenti, dell’omosessualità, dell’adulterio, senza che in
apparenza si ottenesse alcun risultato. “Si stima che il tasso di fecondità
delle famiglie aristocratiche non fosse superiore a 1,8 figli per donna, nel IV
secolo”. Appena un po’ meglio di quello dell’Europa di oggi (1,5).
Michel De Jaeghere conclude indicandoci Roma come un
monito: “Possiamo stare tranquilli davanti allo spettacolo della nostra
prosperità senza precedenti, delle nostre tecnologie sempre più sofisticate, di
un mondo le cui connessioni virtuali danno l’illusione dell’onnipotenza.
Possiamo persuaderci del fatto che i sintomi che annunciavano la caduta
dell’Impero romano di occidente si erano manifestati in modo chiaro ai loro
contemporanei. Che le élites del V secolo (la generazione degli ultimi Romani
che fu testimone del sacco di Roma e della perdita della sua potenza) avevano
presagito che avrebbero vissuto grandi avvenimenti, che il destino li aveva
scelti per assistere all’affondare del più grande impero mai esistito sotto il
cielo. Che non soffriremo alcun male finché non noteremo nessuno dei segnali
che avevano fatto intuire loro il disastro. Non è così, però. I contemporanei
della fine dell’impero romano, infatti, rifiutarono di crederci per tutto il
tempo in cui riuscirono ad afferrarsi alle loro chimere. Roma ci serve da
avvertimento”.
Edward Gibbon nel suo capolavoro sul crollo dell’Impero
romano indica il ruolo decisivo giocato dall’islam, che prima diede un colpo
mortale al ramo d’occidente avanzando in Francia fino a Poitiers (732), e che
poi fece crollare quello d’oriente con la presa di Costantinopoli (1453). Siamo
al terzo capitolo di questa saga?
Fonte: Il Foglio, 16.8.2016
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