Nella festa dei Sette Dolori della B. V. Maria rilanciamo
questo contributo.
Ambito dell'Italia Centrale, Madonna dei Sette Dolori, XVIII sec., Orvieto |
Ambito emiliano, Madonna dei sette dolori, XIX sec., Bologna |
Ambito bergamasco, Addolorata, XIX sec., Bergamo |
Ambito calabrese, La Vergine Addolorata appare a S. Alfonso M. de' Liguori, XIX sec., Locri |
Ambito tedesco, stampa della Mater Dolorosa, 1875-99, Padova |
Alessandro Abate, Addolorata, 1915, Catania |
La Vultum Dei quaerere e la sovietizzazione dei
Monasteri
di Cristiana de Magistris
La Santa Chiesa di Dio è stata fondata da Nostro Signore Gesù Cristo in modo
innegabilmente gerarchico. Basta sfogliare le pagine del Vangelo per imbattersi
nella chiamata degli apostoli o nel primato di Pietro o nella istituzione –
durante l’ultima Cena – di una gerarchia solidamente costituita per comprendere
che il principio gerarchico nella Chiesa di Dio non è un’ipotesi, ma un fatto
ben determinato ed irrevocabile.
Il potere supremo di giurisdizione, ad esempio, è conferito dal Signore al
solo Pietro e non al Collegio apostolico, né tantomeno a un sinodo o ad
un’assemblea. La giurisdizione delle Chiese particolari è data – nella storia
della Chiesa sin dai primordi – a singoli Vescovi e non a collegi episcopali.
Questa struttura piramidale non implica naturalmente che coloro che
appartengono alla gerarchia voluta da Nostro Signore siano tutti santi. La
storia ha dato infinite prove del contrario. Ciononostante – scrive il grande
padre domenicano R.T. Calmel – «il Signore ha voluto nella sua
Chiesa l’autorità personale e l’ha istituita personale. Invece dopo il
Concilio, assistiamo ad un gigantesco tentativo di spersonalizzazione
dell’autorità: da personale quale essa è per diritto divino, la vediamo
parlamentarizzarsi, collegializzarsi, si potrebbe dire sovietizzarsi».
Attraverso questa sovietizzazione dell’autorità nella Chiesa, coloro che,
di fatto, esercitano l’autorità hanno infiniti mezzi per eclissarsi e
scomparire nell’anonimato della collegialità. Ma il sistema collegiale – scrive
ancora Padre Calmel – «è ipocrita e contro natura»,
perché, se da un lato «esenta ciascuno dal peso delle proprie
responsabilità e dagli intollerabili bruciori dei rimorsi», «al tempo stesso e in forza dello stesso meccanismo, fa cooperare
tutti ai peggiori misfatti, all’istallazione di una falsa religione cristiana
sotto una maschera cristiana». Si tratta di una autentica “commedia
collegiale” attraverso cui i vescovi sono personalmente sempre più impotenti ma
divengono collegialmente onnipotenti.
Questo “abile camuffamento collegiale” ha tristemente penetrato la Chiesa
di Dio in tutte le sue dimensioni. A partire dalle Conferenze episcopali,
passando per ogni tipo di Commissione, fino alle parrocchie ed ora anche ai
Monasteri di clausura, i quali – in forza della recente Costituzione apostolica Vultum Dei quaerere – hanno ora l’obbligo di “federarsi”, ossia di appartenere ad
una Federazione, che altro non è se non l’applicazione della rivoluzione
collegialista e democratica ai Monasteri.
Una delle caratteristiche principali delle comunità monastiche è stata,
infatti, finora, la loro configurazione canonica di monasteri sui iuris, ossia autonomi, in quanto dipendenti
direttamente da un superiore (il Vescovo o il Superiore del ramo maschile del
medesimo Ordine). Tale configurazione, di
origine antichissima, riflette e garantisce il “proprium” di ogni monastero,
che è la separazione dal mondo per sostenere il mondo con la preghiera e la
penitenza. Ogni monastero è, o meglio era, una piccola tebaide, un luogo
solitario dove le monache attendono solo a Dio e alla salvezza delle anime. La
clausura, caratteristica dei monasteri femminili, separa le monache dal mondo
ma non dagli uomini, che esse, grazie anche alla clausura, ritrovano nel Cuore
di Dio. Le associazioni di più monasteri – le cosiddette “Federazioni” –
imposte dalla nuova Costituzione apostolica minano questa struttura secolare,
giuridica e religiosa, fin dalla sue fondamenta.
Va detto che le Federazioni di Monasteri non sono in sé una novità: esse
furono istituite da Pio XII negli anni ‘50 a seguito delle due guerre mondiali,
che avevano reso difficile e decadente la vita di alcune Comunità monastiche.
Fu un’iniziativa forse discutibile, ma fatta con ottime intenzioni. In ogni
caso, l’istituzione delle Federazioni non implicava l’obbligo di appartenervi.
Ciascun monastero, essendo sui iuris, cioè
autonomo, poteva decidere se aderirvi o meno.
Ora le cose sono cambiate. Con l’obbligo di appartenere alle Federazioni, i
monasteri perdono, de facto anche
se non de iure, la loro autonomia per annegarsi in una massa
anonima di monasteri che andranno verso l’appiattimento e la dissoluzione della
vita monastica “di sempre”. Le Federazioni sembrano il “cavallo di Troia” della
Costituzione apostolica. Attraverso di esse, la normalizzazione modernista dei
pochi monasteri, che ancora sopravvivono alla rivoluzione in atto da
cinquant’anni, sarà un’operazione inevitabile oltre che rapida.
L’opera di smantellamento, del resto, inaugurata con le riforme conciliari
della vita religiosa, continua nella recente Costituzione apostolica anche
attraverso la definitiva abrogazione di tutti gli articoli del CIC contrari
alla Costituzione stessa, nonché dei documenti pontifici che avevano regolato
finora la vita claustrale (Sponsa Christi di
Pio XII, Inter preclara e Verbi Sponsa della
Congregazione per i Religiosi).
Molto giustamente nel documento è riaffermato a più riprese il valore
inestimabile della vita claustrale, poiché – vi si legge – «le sorti dell’umanità si decidono nel cuore orante e nelle braccia
alzate delle contemplative» (n. 17). Evidentemente, se lo scenario
mondiale che è sotto i nostri occhi è frutto della preghiera delle claustrali,
si può lecitamente sollevare qualche perplessità sulla santità di vita che si
conduce nei monasteri. E il loro futuro – dopo questa Costituzione apostolica –
non si profila certo migliore, visto che il colpo mortale ai Monasteri è stato
inferto dall’Autorità che dovrebbe difenderli e vivificarli. La loro
“sovietizzazione” avrà come unico risultato la loro normalizzazione e
dissoluzione, con le nefaste conseguenze, per la Chiesa e per il mondo, che
ognuno può ben immaginare. Ancora una volta “Roma mi ha fatto male”.
Nel processo di autodemolizione della Chiesa resta allora da chiedersi se e
come potrà sopravvivere la vita contemplativa. Prima di morire, il cardinal
Liénart, che fu tra gli artefici di quest’autodistruzione, disse: «Umanamente parlando, non c’è più salvezza per la Chiesa».
Ma resta il soprannaturale, cioè l’essenziale, di cui la vita contemplativa
rappresenta la punta di diamante. E se la vita contemplativa, nella sua
struttura giuridica, segue inevitabilmente l’autodemolizione della Chiesa,
niente e nessuno potrà arrestare la contemplazione delle anime amanti di Dio
con la quale esse – nonostante l’autodemolizione della Chiesa – restano
invariabilmente ancorate all’anima e ai frammenti sempre viventi del suo Corpo.
La Chiesa si ricostruirà con i mezzi soprannaturali che – come ci ricorda
Padre Calmel – sopravvivono al logorio della storia e alle turpitudini del
mondo, perché sono le risorse inespugnabili di vita e di risurrezione.
Nessun commento:
Posta un commento