Nella festa di S. Matteo apostolo rilanciamo questa
recensione di Luca Fumagalli.
Agostino e Giovanni Battista Montanari, Martirio di S. Matteo, 1605, Genova |
Alessandro Varotari detto il Padovanino, Martirio di S. Matteo, XVII sec., parrocchia di S. Anna Morosina, San Giorgio in bosco |
Guglielmo Caccia, Martirio di S. Matteo, XVII sec., Asti |
Francesco Costanzo Catanio, Martirio di S. Matteo, 1655, Ferrara |
Paolo de' Majo, Martirio di S. Matteo, 1745 circa, Chiesa di S. Matteo, Agerola |
John Gray: l’esteta omosessuale che divenne sacerdote
di Luca Fumagalli
In Wilde,
film del 1997 diretto da Brian Gilbert, vi è una scena fugace, solo pochi
secondi, che però descrive con brillante intuizione il momento della definitiva
separazione tra John Gray, giovane approdato al mondo letterario dopo una dura
gavetta, e Oscar Wilde, suo amico e amante. Il loro rapporto era stato
idilliaco, almeno fino a quando nell’orbita del vate irlandese aveva iniziato a
gravitare l’egocentrico quanto affascinante Lord Alfred Douglas, soprannominato
Bosie. Il disastroso esito della loro relazione fu il noto processo del 1895
che trascinò nel fango la reputazione del campione dell’estetismo inglese,
confinandolo negli angusti spazi di una cella.
Quando Gray vede
Oscar allontanarsi con Douglas, l’autocommiserazione si fa largo in lui: «Io
sono solo il figlio di un falegname, mentre Bosie…». Robbie Ross, da poco
diventato cattolico, non può far altro se non consolare l’amico con parole che,
col senno di poi, suonano singolarmente profetiche: «Qualcun altro era figlio
di un falegname».
Miseria e grandezza
sono i due limiti entro cui si snodò la vita di uno dei protagonisti più
discussi della Londra fin de siècle. Di umili origini, John Gray
(1866-1934) dovette faticare non poco per affermarsi. Dalla sua parte vi erano
la grande vivacità intellettuale e la serietà con cui si dedicava agli studi.
Poeta di rara delicatezza, aperto alle influenze letterarie d’oltremanica,
presto entrò a far parte del circolo decadente, legandosi tra gli altri
a Ernest Dowson e a Aubrey Beardsley (di cui curò la pubblicazione
postuma delle epistole).
Il suo nome iniziò a
circolare sulla stampa britannica quando venne associato al protagonista
de Il ritratto di Dorian Gray, chiaramente ispirato a lui. La ridda
di polemiche che investì Wilde, accusato di aver scritto un romanzo immorale e
impudico, fu mitigata dalla stampa cattolica, l’unica impegnata nella difesa di
un testo che raccontava con precisione la progressiva discesa di un’anima negli
abissi del peccato.
Vincenza Lagioia con
il suo La vera storia di Dorian Gray compie un’operazione
biografica singolare, soprattutto per quanto riguarda lo stile, costruendo una
narrazione fatta di piccoli quadri, di tanti spiragli che si aprono senza
soluzione di continuità sulla corrotta maestosità della letteratura britannica
alle soglie del XX secolo. Il saggio, quasi un edificio felliniano, ripercorre
con la passione di un avventuriero la biografia di John Gray, per troppo tempo
rimasta celata dietro la maschera di Dorian.
In pochi, infatti,
conoscono il secondo tempo della vita del giovane poeta, il cui inizio coincise
proprio con l’abbandono di Wilde. La crisi che ne scaturì guidò
provvidenzialmente Gray verso i sicuri lidi della Chiesa di Roma, una strada
che percorse in compagnia di un nuovo amico, Andrè Raffalovich, un ebreo russo
che divenne cattolico e che gli fu compagno fedele per il resto della vita.
Se è pur vero che il
mondo dell’estetismo poté vantare numerose conversioni al cattolicesimo, per la
maggior parte si trattò di infatuazioni passeggere, gesti provocatori che
durarono lo spazio di un mattino. Quella fin de siècle, come ha
scritto Griffith in un recente saggio, fu una “falsa partenza” per il revival
cattolico britannico che sbocciò solamente qualche anno dopo, a ‘900 ormai
avviato.
Raffalovich e Gray,
al contrario, furono due sopravvissuti di quella tragica generazione.
Quest’ultimo, tra l’altro, dopo gli studi presso il Collegio Scozzese di Roma –
lo stesso seminario che aveva ospitato l’irrequieto Frederick Rolfe “Baron
Corvo” – venne ordinato sacerdote. Entrambi divennero terziari domenicani e
grazie ai loro sforzi congiunti fu costruita a Edimburgo una nuova chiesa
parrocchiale.
Il poeta aveva ceduto
il passo al sacerdote, un uomo pio e devoto che prendeva sul serio la sua
vocazione. Lontano dagli eccessi giovanili, Gray trascorreva le giornate
aiutando i bisognosi e trattenendosi per ore al confessionale. Nutriva un
affetto particolare per la liturgia cattolica; ogni giorno, mentre Raffalovich
occupava puntuale il suo posto in prima fila, celebrava la messa con dignità,
attento a scandire le parole, rispettando il ritmo e le pause.
Negli ultimi anni di
vita Gray fu in contatto anche con il domenicano McNabb, amico di Chesterton e
Belloc, che tentò inutilmente di coinvolgerlo nel progetto distributista,
finalizzato ad applicare i principi del cattolicesimo sociale espressi da Leone
XIII nell’enciclica Rerum Novarum.
Attraverso gli studi
di esegesi biblica conobbe inoltre il gesuita irlandese George Tyrrel, uno dei
campioni del modernismo. Sebbene non condividessero una virgola delle sue idee,
lui e Raffalovich gli furono vicini nei difficili momenti della scomunica,
offrendogli anche un cospicuo aiuto economico (che Tyrrel rifiutò
garbatamente).
La vera storia di
Dorian Gray, al di là dei molti
altri aneddoti che si potrebbero citare, è dunque un saggio audace, che
smitizza attraverso il particolare punto di vista di John Gray, il poeta che
divenne sacerdote, un’epoca sovente ridotta a trita collezione di cliché.
Il volume è sopratutto la storia di una conversione, di un cuore che cambia,
che riorienta il suo desiderio di bellezza passando dall’arte a Dio: «La poesia
perfetta che questo sacerdote-poeta ha fatto è stato il poema finito della sua
vita a Lui dedicata».
Il libro: Vincenzo
Lagioia, La vera storia di Dorian Gray, Bologna, Minerva Edizioni,
2012, pagine 318, euro 19.
Fonte: Radiospada, 20.9.2016
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