Nella festa del Santo
Protomartire Stefano, rilanciamo quest’intervista al nostro amico artista
Giovanni Gasparro.
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Ambito umbro-toscano, Lapidazione di S. Stefano, XVII sec., Città di Castello |
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Francesco Cappella, S. Stefano in atto di ricevere il martirio, 1761-65, Chiesa dei SS. Bartolomeo e Stefano, Bergamo |
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Ambito emiliano, Martirio di S. Stefano, XIX sec., Bologna |
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Giovanni Battista Epis, Martirio di S. Stefano, 1852, chiesa di S. Stefano, Villa di Serio |
Un Campari con ...
Giovanni Gasparro
a cura
di Alessandro Rico
Giovanni
Gasparro è nato a Bari, ha studiato al liceo artistico ‘De Nittis’, si è diplomato
nel 2007 all’Accademia di belle arti di Roma in pittura. Di lui Vittorio Sgarbi
dice “giovane valentissimo con una carica di passione e di vitalità che
lo ha portato a dipingere 18 pale, prove di un impegno formidabile. Per San
Giuseppe Artigiano la scelta di un autore figurativo è la prova di una
visione liturgica ed estetica in ordine agli scritti di Papa Benedetto XVI che
indicano in modo molto chiaro quale debba essere la funzione delle opere d’arte
in una chiesa: una funzione eminentemente liturgica”. Incuriositi dal fatto
che esista un artista sacro contemporaneo, lo abbiamo intervistato.
Esordiamo
chiedendoti non, banalmente, cosa è per te l’arte, ma cosa è oggettivamente l’arte.
L’arte
è una delle manifestazioni più nobili che distingue l’uomo dalla bestia. È
l’insieme codificato di tutte le capacità creative che esprimono la natura del
pensiero in forme visibili, sonore, performative e testimoniano l’essenza del
tempo in cui sono state concepite. Non a caso l’immagine di un “fondo oro”
rimanda inevitabilmente ad un contesto di Sancta Dei Civitas medioevale
italiana, tanto quanto la musica di Offenbach è prepotentemente identitaria e
diviene paradigma perfetto della società francese della fine XIX secolo. L’evoluzione
del pensiero critico che ha declinato il senso di tèchne,
ovvero il complesso di regole e codici atti a rappresentare un dato naturale e
realistico, in una creazione che sia l’espressione originale dell’artista,
è alla base della concezione attuale delle arti e dell’evoluzione del concetto
del “bello”, nelle sue differenti teorizzazioni ed espressioni estetiche,
così difformi a seconda dei contesti spazio-temporali.
Perché
nell’era contemporanea l’arte è così decaduta?
Il
decadimento estetico contemporaneo è connaturato con il decadimento morale ed
il rinnegamento di Dio, perpetrato in forme embrionali
sin dal XVI secolo, ed evolvendo nel pensiero di Lutero e Calvino, Diderot e Voltaire,
Kant ed Hegel, sino alle forme più abominevoli e triviali della nostra età.
Il “bello”
per come lo concepiscono ancora gli spiriti nobili, è l’espressione dello
splendore del vero e del bene. San
Tommaso d’Aquino, nel solco del pensiero aristotelico, intuisce che ciò che è
presente nell’intelletto è necessariamente percepito sensorialmente, in prima
istanza. A differenza degli animali, l’uomo è in grado di saggiare le
delizie della bellezza, riconducendole ad un senso più alto, ovvero a Dio. Nella Summa
Theologiae identifica il bello come la sintesi di vero e di bene. Verum,
bonum, pulchrum, verità, bene e bellezza. Questi sono i caratteri
costitutivi del Dio dei cattolici, inteso come Divina perfezione, e per l’appunto
la somma di ogni bellezza, verità e bontà. Una società che rifiuta Dio,
inevitabilmente, rifiuta la Bellezza più autentica, ed essendo l’arte l’espressione
dell’epoca che la produce, oggi non si può che assistere a questo decadimento.
Il sistema ideologico postmoderno, tanto quanto quello truffaldino di
complicità fra critica e mercato dell’arte, hanno inaugurato la stagione del De
Immundo, per dirla come Jean Clair.
Nella
maggior parte delle tue opere hai scelto di trattare il tema del sacro. È
possibile, nell’era del secolarismo, produrre arte sacra, cioè dipinti e decorazioni
che non abbiano solo un valore strumentale, ma assoluto?
L’arte
dovrebbe avere sempre, in senso costitutivo, questo anelito all’assoluto. Dirò di più, oggi si evita persino la creazione di
manufatti artistici che possano durare nel tempo perché concepiti con materiali
effimeri. Si è scelto in modo programmatico di impedire ad essi di avere una durata
temporale più estesa di qualche stagione. Non lasceremo molto ai posteri. In
questo panorama desolato, partorito dopo lo spartiacque del ready-made di Marcel
Duchamp, è ancora possibile produrre arte sacra. È un dovere morale. Posso
certamente testimoniare le difficoltà di inserirsi in un sistema espositivo,
mecenatizio, storico-critico, commerciale, ma in termini estetici ed intellettuali,
con ricadute inevitabilmente spirituali, è doveroso sfidare il secolarismo
imperante con una nuova stagione d’arte sacra. La avverto come una sorta di
missione per scardinare il sistema. È la mia personale controrivoluzione.
Va detto che per arte sacra si intende l’arte concepita per un contesto
liturgico, quindi per le chiese, sicché va distinta dall’arte di ispirazione
religiosa in senso lato. Ne consegue che le problematiche restano correlate
alle richieste della committenza tanto quanto alla sensibilità delle maestranze
artistiche.
Nei
tuoi quadri raffiguri i soggetti rappresentando diverse posture delle loro
mani, quasi come in una fotografia scattata in movimento. Che cosa vuoi
comunicare? Che ruolo hanno per te le mani nell’espressione artistica?
Le
mani sono idealmente portatrici di un linguaggio non verbale, strumentale nella
resa pittorica che si esprime per figure.
Nei
miei dipinti sono ripetute in modo multiforme, rimandando idealmente ad antiche
iconografie sacre del XV secolo, dalla Pietà di Lorenzo Monaco del 1404 e
quella del Maestro della Madonna Strauss, entrambe nelle collezioni delle Gallerie
dell’Accademia di Firenze, Il Cristo in Pietà nel pannello centrale del
trittico di Domenico di Michelino al Musée des Beaux-Arts di Chambéry o il
Cristo deriso fra san Domenico e la santa Vergine in meditazione della cella numero
sette nel convento di San Marco a Firenze, opera ad affresco del Beato
Angelico.
Molti
storici dell’arte hanno evidenziato il legame estetico con il Futurismo. Se per
Balla e Boccioni la moltiplicazione delle figure era puro esercizio ed analisi
meccanica del movimento dei corpi, per la mia pittura, la frammentarietà
e la moltiplicazione connotano una percezione spirituale diversificata più che
una analisi fisica del movimento. I futuristi avevano il culto del
progresso e della macchina. La mia latria è riservata a Dio.
Della
decadenza dell’arte contemporanea fa parte, purtroppo, anche l’arte sacra,
spesso e volentieri con il consenso della Chiesa stessa, che autorizza la
realizzazione di edifici orrendi, o impiega arredi e oggetti sgraziati e
dozzinali. Quali sono le cause di questa involuzione? Il Concilio Vaticano II
ha una responsabilità?
La Chiesa cattolica, negli ultimi cinquant’anni, si è mondanizzata in modo
preoccupante. Come appena detto, se l’arte è l’espressione e la proposizione
figurata della cultura della società che l’ha generata, l’arte sacra è
la traslazione in figura della Chiesa che l’ha commissionata. Quello che sperimentiamo
in modo tangibile, in questi ultimi decenni, è un progressivo processo
di protestantizzazione in campo dottrinale, liturgico, pastorale. La deriva
ecumenico-sincretista, l’incredulità malcelata riguardo la Presenza reale del
Corpo e Sangue di Cristo nelle Sacre Specie, davanti alle quali non ci si inginocchia
più, si traduce chiaramente nelle nuove forme artistiche e negli “adeguamenti
liturgici” scellerati seguiti alla riforma liturgica di Paolo VI e Bugnini, rei
di aver snaturato centinaia di presbitèri e altari antichi, sacrificato
balaustre ed inginocchiatoi.
Le
architetture tradiscono una chiara volontà di protestantizzare il culto e la
liturgia cattolica. In numerose chiese dove si è
proceduto con adeguamenti liturgici o in quelle costruite negli ultimi anni,
soprattutto in area belga, tedesca ed austriaca, ma ormai anche in Francia, Italia
(chiesa di San Fedele a Milano, chiesa del “monastero” di Bose) e Spagna, gli
altari sono posti al centro, sottendendo un concetto luterano di “sacerdozio
universale”. L’altare assume la foggia di tavolo perché non è più concepito
come ara sacrificale per il sacrificio incruento di Cristo che si rinnova nella
Santa Messa. Diviene una mensa per la cena, nell’accezione analoga a quella del porcus
saxoniae. Nelle arti figurative, la Chiesa ha sposato l’aniconismo
più estremo, spogliando le cappelle delle immagini che in passato avevano
anche una funzione chiaramente didattica e catechetica, traducendo in figura le
Verità rivelate dei Testi sacri. La biblia pauperum ha
lasciato il posto a Croci senza il Santo Corpo di Nostro Signore. Eppure la
Chiesa cattolica, sin dal secondo Concilio di Nicea, nel 787 d.C., ha inteso
ribadire che le immagini sacre sono elementi irrinunciabili della devozione,
non certamente come oggetto del culto (latria), ma come strumento di ausilio ad
essa. Lo hanno ribadito numerosi santi e romani Pontefici. La
stessa incarnazione di Nostro Signore legittima la riproposizione visibile, in
forme d’arte, della Sua immagine. Il Cattolicesimo è l’unica religione
monoteista che ha un marcato senso iconico, a contrario dell’Ebraismo e dell’Islam
e delle varie sette ereticali protestanti. Per questo siamo debitori verso il
Cattolicesimo, altrimenti non avremmo avuto né Ghiberti, né Michelangelo né
Francesco Solimena.
Le
arti sacre sono sempre state un valido strumento di proselitismo, per la
salvezza delle anime, ispirando un autentico sensu fidei. Capirà che da quando lo stesso concetto di proselitismo
è stato derubricato, tacciandolo addirittura di essere “il veleno più forte
verso l’ecumenismo”, dalle più alte gerarchie cattoliche, che senso mai potrà
avere l’arte sacra se non quello di diventare arredo alla stregua del design? L’arte
cattolica, come le Verità rivelate, dovranno essere sacrificate al nuovo culto
sincretista, lodato dai poteri forti.
Il
Concilio Vaticano II, pur essendo un concilio pastorale e non dogmatico, ha
assunto, nella mentalità del clero attuale, i connotati di un superdogma che
azzera tutto il Magistero e la Tradizione.
Chiaramente, non ha suggerito esplicitamente di rinnegare le forme artistiche
del passato per convertirle nelle attuali soluzioni controverse. Ad ogni modo
ha numerose responsabilità intrinseche, sia come evento storico che nei
contenuti dei documenti prodotti. Nei testi conciliari, i cenni alle
questioni artistiche ed iconografiche sono esigui, ma come la gran parte delle
costituzioni e degli altri documenti partoriti nell’assise, il linguaggio è ambiguo,
demandando a terzi le responsabilità delle scelte da operare. I pronunciamenti
immediatamente precedenti di San Pio X, Pio XI e Pio XII, riguardo le arti e la
musica sacra, mostrano chiaramente che il problema del Vaticano II è riferibile
al linguaggio non definitorio, più che ad un’annosa questione ermeneutica. Se
un pronunciamento non intende definire, lascia inevitabilmente spazio all’arbitrio,
generando l’anarchia. I risultati in termini estetici sono sotto gli occhi
di tutti. Persino le frange moderniste, all’interno della Chiesa, si mostrano
perplesse dinanzi allo scempio di certe architetture o cicli decorativi. Dai
frutti valutiamo gli intenti primigeni conciliari.
Nella contemporaneità, molte forme d’arte sacra hanno assunto valenze
gnostiche, al pari di certe teologie osannate da stampa, università,
editoria, omelietica e catechesi parrocchiali sedicenti cattoliche. Ovviamente
l’arte sacra può evolvere in senso iconografico e stilistico. I secoli passati
hanno sedimentato opere d’arte sacra notevolmente diverse. Il Cattolicesimo non
ha imposto la fissità iconografica dell’oriente ortodosso che produce ancora
oggi icone aderenti ai caratteri formali dei primi secoli. Nella storia
dell’arte sacra cattolica c’è evoluzione stilistica ma senza rinunciare alle
prerogative formali iconiche che facilitino l’azione cultuale, le esigenze
catechetiche e l’adesione alle sacre scritture. Oggi gli artisti sono
abbandonati ad un culto autoreferenziale della propria arte, a cui le esigenze
del sacro debbano soggiacere. La committenza ecclesiastica, ridestatasi
iconoclasta o al massimo filo-bizantina (le icone moderne appaiono ormai in
ogni chiesa), appare lassista, talvolta per ignoranza o senso di inferiorità
verso gli artisti (in seminario non si studiano più queste discipline), in
altri casi per non apparire arroccata su posizioni rigide. Il più delle volte
disattende al proprio compito di guida, ahimè, per malafede. Ringraziando il Signore,
non mancano sacerdoti e vescovi ancora virtuosi per Fede e cultura.
Qual è la funzione della bellezza nella liturgia? C’è la speranza che il
rito torni a essere bello e non sciatto, disordinato, popolato di schitarrate e
cori stonati?
San
Giovanni Maria Vianney, patrono e modello dei sacerdoti, come San Carlo
Borromeo e San Pio da Pietrelcina, sceglievano i vasi sacri ed i paramenti più
belli e preziosi da usare nella liturgia, pur vivendo, in privato, volutamente,
ai limiti dell’indigenza, perché erano coscienti che questo fosse giusto come
atto di lode a Dio, nel momento più sacro, del Sacrificio eucaristico. Allo
stesso modo, questa scelta appariva loro come uno strumento di
elevazione spirituale per i fedeli, perché enfatizzava l’importanza e la
sacralità dell’atto compiuto sull’altare, aiutandoli a comprendere questioni
dogmatiche più complesse da intuire.
La
sciatteria ed il pressapochismo che accompagnano le liturgie postconciliari,
sono al limite della blasfemia perché
sottendono un diniego sostanziale del Sacramento che si celebra.
Questo
fenomeno estraneo alla Tradizione bimillenaria della Chiesa è conosciuto come
Pauperismo, l’antica eresia condannata sin dai tempi dalla Chiesa dei Santi
Apostoli e persino da quel San Francesco d’Assisi che imponeva, nella Regola ad
uso dei frati, di usare “calici e pissidi preziose” per custodire le Sacre
Specie. Cosa direbbe oggi il santo umbro dei tabernacoli costruiti nelle forme
più improbabili o delle pissidi in terracotta e legno? Cosa potrebbe pensare
dei paramenti dozzinali e dei bicchieri di plastica usati come pissidi nelle
Messe, alla presenza di Papa Francesco, celebrate per la Giornata Mondiale
della Gioventù a Rio de Janeiro, lui che faceva ricamare i paramenti in filo d’oro
dalle clarisse?
Ad ogni modo, sbaglierebbero quanti volessero individuare nel periodo
dell’attuale pontificato, l’unica nota dolente in termini dottrinali piuttosto
che liturgici.
La deriva attuale è il naturale punto d’approdo di un percorso di secolarizzazione
della Chiesa, che ha avuto come imput epocale proprio il Concilio Vaticano
II (serpeggiando clandestinamente anche prima del Concilio, nelle frange
moderniste) e si è sviluppato a fasi alterne, con note più o meno dolenti,
durante tutti i pontificati post-conciliari.
Lex
orandi, lex credendi. Se è vero che il modo
in cui preghiamo tradisce ed estrinseca quello in cui crediamo, la nostra Fede
dev’essere diventata alquanto carnascialesca.
Personalmente, ho
riscoperto una devozione più autentica proprio da quando ho cercato una
liturgia che fosse un ausilio all’orazione. Nel panorama attuale,
fortemente diversificato, in cui ogni sacerdote inventa azioni liturgiche
arbitrarie, ho scoperto nel santo rigore del Messale di San Pio V, una
fonte inesauribile per appagare questo mio afflato trascendente. Il Vetus
Ordo Missae, in latino, mai abrogato dalla Chiesa Cattolica, purtroppo
pesantemente osteggiato e vilipeso con l’avvento della Messa di Paolo VI, ha
ridestato la Fede di moltissimi cattolici, perlopiù giovani, dal 2007, anno del
Motu Proprio Summorum Pontificum, con cui Benedetto XVI ribadì la
legittimità all’antico rito.
Evito
digressioni in ambito musicale perché non mi competono, ma ovviamente, la questione
è sostanzialmente analoga a quella del decadimento delle arti figurative. Se
per Aristotele, ne La politica, “Talune forme di musica rendono ignobili”, a
maggior ragione durante la Santa Messa, da quando si è abbandonato il repertorio
sublime del gregoriano e della polifonia, come l’uso dell’organo, così intrinsecamente
aderenti al Messale di San Pio V, lo scadimento nella trivialità delle
canzonette di derivazione pop non poteva che giungere al suo livello più infimo.