lunedì 26 dicembre 2016

Un Campari con... Giovanni Gasparro

Nella festa del Santo Protomartire Stefano, rilanciamo quest’intervista al nostro amico artista Giovanni Gasparro.

Ambito umbro-toscano, Lapidazione di S. Stefano, XVII sec., Città di Castello

Francesco Cappella, S. Stefano in atto di ricevere il martirio, 1761-65, Chiesa dei SS. Bartolomeo e Stefano, Bergamo

Ambito emiliano, Martirio di S. Stefano, XIX sec., Bologna

Giovanni Battista Epis, Martirio di S. Stefano, 1852, chiesa di S. Stefano, Villa di Serio

Un Campari con ... Giovanni Gasparro

a cura di Alessandro Rico 

Giovanni Gasparro è nato a Bari, ha studiato al liceo artistico ‘De Nittis’, si è diplomato nel 2007 all’Accademia di belle arti di Roma in pittura. Di lui Vittorio Sgarbi dice “giovane valentissimo con una carica di passione e di vitalità che lo ha portato a dipingere 18 pale, prove di un impegno formidabile. Per San Giuseppe Artigiano la scelta di un autore figurativo è la prova di una visione liturgica ed estetica in ordine agli scritti di Papa Benedetto XVI che indicano in modo molto chiaro quale debba essere la funzione delle opere d’arte in una chiesa: una funzione eminentemente liturgica”. Incuriositi dal fatto che esista un artista sacro contemporaneo, lo abbiamo intervistato.

Esordiamo chiedendoti non, banalmente, cosa è per te l’arte, ma cosa è oggettivamente l’arte. 

L’arte è una delle manifestazioni più nobili che distingue l’uomo dalla bestia. È l’insieme codificato di tutte le capacità creative che esprimono la natura del pensiero in forme visibili, sonore, performative e testimoniano l’essenza del tempo in cui sono state concepite. Non a caso l’immagine di un “fondo oro” rimanda inevitabilmente ad un contesto di Sancta Dei Civitas medioevale italiana, tanto quanto la musica di Offenbach è prepotentemente identitaria e diviene paradigma perfetto della società francese della fine XIX secolo. L’evoluzione del pensiero critico che ha declinato il senso di tèchne, ovvero il complesso di regole e codici atti a rappresentare un dato naturale e realistico, in una creazione che sia l’espressione originale dell’artista, è alla base della concezione attuale delle arti e dell’evoluzione del concetto del “bello”, nelle sue differenti teorizzazioni ed espressioni estetiche, così difformi a seconda dei contesti spazio-temporali.

Perché nell’era contemporanea l’arte è così decaduta?

Il decadimento estetico contemporaneo è connaturato con il decadimento morale ed il rinnegamento di Dio, perpetrato in forme embrionali sin dal XVI secolo, ed evolvendo nel pensiero di Lutero e Calvino, Diderot e Voltaire, Kant ed Hegel, sino alle forme più abominevoli e triviali della nostra età.
Il “bello” per come lo concepiscono ancora gli spiriti nobili, è l’espressione dello splendore del vero e del bene. San Tommaso d’Aquino, nel solco del pensiero aristotelico, intuisce che ciò che è presente nell’intelletto è necessariamente percepito sensorialmente, in prima istanza. A differenza degli animali, l’uomo è in grado di saggiare le delizie della bellezza, riconducendole ad un senso più alto, ovvero a Dio. Nella Summa Theologiae identifica il bello come la sintesi di vero e di bene. Verum, bonum, pulchrum, verità, bene e bellezza. Questi sono i caratteri costitutivi del Dio dei cattolici, inteso come Divina perfezione, e per l’appunto la somma di ogni bellezza, verità e bontà. Una società che rifiuta Dio, inevitabilmente, rifiuta la Bellezza più autentica, ed essendo l’arte l’espressione dell’epoca che la produce, oggi non si può che assistere a questo decadimento. Il sistema ideologico postmoderno, tanto quanto quello truffaldino di complicità fra critica e mercato dell’arte, hanno inaugurato la stagione del De Immundo, per dirla come Jean Clair.

Nella maggior parte delle tue opere hai scelto di trattare il tema del sacro. È possibile, nell’era del secolarismo, produrre arte sacra, cioè dipinti e decorazioni che non abbiano solo un valore strumentale, ma assoluto?

L’arte dovrebbe avere sempre, in senso costitutivo, questo anelito all’assoluto. Dirò di più, oggi si evita persino la creazione di manufatti artistici che possano durare nel tempo perché concepiti con materiali effimeri. Si è scelto in modo programmatico di impedire ad essi di avere una durata temporale più estesa di qualche stagione. Non lasceremo molto ai posteri. In questo panorama desolato, partorito dopo lo spartiacque del ready-made di Marcel Duchamp, è ancora possibile produrre arte sacra. È un dovere morale. Posso certamente testimoniare le difficoltà di inserirsi in un sistema espositivo, mecenatizio, storico-critico, commerciale, ma in termini estetici ed intellettuali, con ricadute inevitabilmente spirituali, è doveroso sfidare il secolarismo imperante con una nuova stagione d’arte sacra. La avverto come una sorta di missione per scardinare il sistema. È la mia personale controrivoluzione. Va detto che per arte sacra si intende l’arte concepita per un contesto liturgico, quindi per le chiese, sicché va distinta dall’arte di ispirazione religiosa in senso lato. Ne consegue che le problematiche restano correlate alle richieste della committenza tanto quanto alla sensibilità delle maestranze artistiche.

Nei tuoi quadri raffiguri i soggetti rappresentando diverse posture delle loro mani, quasi come in una fotografia scattata in movimento. Che cosa vuoi comunicare? Che ruolo hanno per te le mani nell’espressione artistica?

Le mani sono idealmente portatrici di un linguaggio non verbale, strumentale nella resa pittorica che si esprime per figure.
Nei miei dipinti sono ripetute in modo multiforme, rimandando idealmente ad antiche iconografie sacre del XV secolo, dalla Pietà di Lorenzo Monaco del 1404 e quella del Maestro della Madonna Strauss, entrambe nelle collezioni delle Gallerie dell’Accademia di Firenze, Il Cristo in Pietà nel pannello centrale del trittico di Domenico di Michelino al Musée des Beaux-Arts di Chambéry o il Cristo deriso fra san Domenico e la santa Vergine in meditazione della cella numero sette nel convento di San Marco a Firenze, opera ad affresco del Beato Angelico. 
Molti storici dell’arte hanno evidenziato il legame estetico con il Futurismo. Se per Balla e Boccioni la moltiplicazione delle figure era puro esercizio ed analisi meccanica del movimento dei corpi, per la mia pittura, la frammentarietà e la moltiplicazione connotano una percezione spirituale diversificata più che una analisi fisica del movimento. I futuristi avevano il culto del progresso e della macchina. La mia latria è riservata a Dio.

Della decadenza dell’arte contemporanea fa parte, purtroppo, anche l’arte sacra, spesso e volentieri con il consenso della Chiesa stessa, che autorizza la realizzazione di edifici orrendi, o impiega arredi e oggetti sgraziati e dozzinali. Quali sono le cause di questa involuzione? Il Concilio Vaticano II ha una responsabilità?

La Chiesa cattolica, negli ultimi cinquant’anni, si è mondanizzata in modo preoccupante. Come appena detto, se l’arte è l’espressione e la proposizione figurata della cultura della società che l’ha generata, l’arte sacra è la traslazione in figura della Chiesa che l’ha commissionata. Quello che sperimentiamo in modo tangibile, in questi ultimi decenni, è un progressivo processo di protestantizzazione in campo dottrinale, liturgico, pastorale. La deriva ecumenico-sincretista, l’incredulità malcelata riguardo la Presenza reale del Corpo e Sangue di Cristo nelle Sacre Specie, davanti alle quali non ci si inginocchia più, si traduce chiaramente nelle nuove forme artistiche e negli “adeguamenti liturgici” scellerati seguiti alla riforma liturgica di Paolo VI e Bugnini, rei di aver snaturato centinaia di presbitèri e altari antichi, sacrificato balaustre ed inginocchiatoi. 
Le architetture tradiscono una chiara volontà di protestantizzare il culto e la liturgia cattolica. In numerose chiese dove si è proceduto con adeguamenti liturgici o in quelle costruite negli ultimi anni, soprattutto in area belga, tedesca ed austriaca, ma ormai anche in Francia, Italia (chiesa di San Fedele a Milano, chiesa del “monastero” di Bose) e Spagna, gli altari sono posti al centro, sottendendo un concetto luterano di “sacerdozio universale”. L’altare assume la foggia di tavolo perché non è più concepito come ara sacrificale per il sacrificio incruento di Cristo che si rinnova nella Santa Messa. Diviene una mensa per la cena, nell’accezione analoga a quella del porcus saxoniaeNelle arti figurative, la Chiesa ha sposato l’aniconismo più estremo, spogliando le cappelle delle immagini che in passato avevano anche una funzione chiaramente didattica e catechetica, traducendo in figura le Verità rivelate dei Testi sacri. La biblia pauperum ha lasciato il posto a Croci senza il Santo Corpo di Nostro Signore. Eppure la Chiesa cattolica, sin dal secondo Concilio di Nicea, nel 787 d.C., ha inteso ribadire che le immagini sacre sono elementi irrinunciabili della devozione, non certamente come oggetto del culto (latria), ma come strumento di ausilio ad essa. Lo hanno ribadito numerosi santi e romani Pontefici. La stessa incarnazione di Nostro Signore legittima la riproposizione visibile, in forme d’arte, della Sua immagine. Il Cattolicesimo è l’unica religione monoteista che ha un marcato senso iconico, a contrario dell’Ebraismo e dell’Islam e delle varie sette ereticali protestanti. Per questo siamo debitori verso il Cattolicesimo, altrimenti non avremmo avuto né Ghiberti, né Michelangelo né Francesco Solimena.
Le arti sacre sono sempre state un valido strumento di proselitismo, per la salvezza delle anime, ispirando un autentico sensu fidei. Capirà che da quando lo stesso concetto di proselitismo è stato derubricato, tacciandolo addirittura di essere “il veleno più forte verso l’ecumenismo”, dalle più alte gerarchie cattoliche, che senso mai potrà avere l’arte sacra se non quello di diventare arredo alla stregua del design? L’arte cattolica, come le Verità rivelate, dovranno essere sacrificate al nuovo culto sincretista, lodato dai poteri forti.
Il Concilio Vaticano II, pur essendo un concilio pastorale e non dogmatico, ha assunto, nella mentalità del clero attuale, i connotati di un superdogma che azzera tutto il Magistero e la Tradizione. Chiaramente, non ha suggerito esplicitamente di rinnegare le forme artistiche del passato per convertirle nelle attuali soluzioni controverse. Ad ogni modo ha numerose responsabilità intrinseche, sia come evento storico che nei contenuti dei documenti prodotti. Nei testi conciliari, i cenni alle questioni artistiche ed iconografiche sono esigui, ma come la gran parte delle costituzioni e degli altri documenti partoriti nell’assise, il linguaggio è ambiguo, demandando a terzi le responsabilità delle scelte da operare. I pronunciamenti immediatamente precedenti di San Pio X, Pio XI e Pio XII, riguardo le arti e la musica sacra, mostrano chiaramente che il problema del Vaticano II è riferibile al linguaggio non definitorio, più che ad un’annosa questione ermeneutica. Se un pronunciamento non intende definire, lascia inevitabilmente spazio all’arbitrio, generando l’anarchia. I risultati in termini estetici sono sotto gli occhi di tutti. Persino le frange moderniste, all’interno della Chiesa, si mostrano perplesse dinanzi allo scempio di certe architetture o cicli decorativi. Dai frutti valutiamo gli intenti primigeni conciliari.
Nella contemporaneità, molte forme d’arte sacra hanno assunto valenze gnostiche, al pari di certe teologie osannate da stampa, università, editoria, omelietica e catechesi parrocchiali sedicenti cattoliche. Ovviamente l’arte sacra può evolvere in senso iconografico e stilistico. I secoli passati hanno sedimentato opere d’arte sacra notevolmente diverse. Il Cattolicesimo non ha imposto la fissità iconografica dell’oriente ortodosso che produce ancora oggi icone aderenti ai caratteri formali dei primi secoli. Nella storia dell’arte sacra cattolica c’è evoluzione stilistica ma senza rinunciare alle prerogative formali iconiche che facilitino l’azione cultuale, le esigenze catechetiche e l’adesione alle sacre scritture. Oggi gli artisti sono abbandonati ad un culto autoreferenziale della propria arte, a cui le esigenze del sacro debbano soggiacere. La committenza ecclesiastica, ridestatasi iconoclasta o al massimo filo-bizantina (le icone moderne appaiono ormai in ogni chiesa), appare lassista, talvolta per ignoranza o senso di inferiorità verso gli artisti (in seminario non si studiano più queste discipline), in altri casi per non apparire arroccata su posizioni rigide. Il più delle volte disattende al proprio compito di guida, ahimè, per malafede. Ringraziando il Signore, non mancano sacerdoti e vescovi ancora virtuosi per Fede e cultura. 

Qual è la funzione della bellezza nella liturgia? C’è la speranza che il rito torni a essere bello e non sciatto, disordinato, popolato di schitarrate e cori stonati? 

San Giovanni Maria Vianney, patrono e modello dei sacerdoti, come San Carlo Borromeo e San Pio da Pietrelcina, sceglievano i vasi sacri ed i paramenti più belli e preziosi da usare nella liturgia, pur vivendo, in privato, volutamente, ai limiti dell’indigenza, perché erano coscienti che questo fosse giusto come atto di lode a Dio, nel momento più sacro, del Sacrificio eucaristico. Allo stesso modo, questa scelta appariva loro come uno strumento di elevazione spirituale per i fedeli, perché enfatizzava l’importanza e la sacralità dell’atto compiuto sull’altare, aiutandoli a comprendere questioni dogmatiche più complesse da intuire
La sciatteria ed il pressapochismo che accompagnano le liturgie postconciliari, sono al limite della blasfemia perché sottendono un diniego sostanziale del Sacramento che si celebra.
Questo fenomeno estraneo alla Tradizione bimillenaria della Chiesa è conosciuto come Pauperismo, l’antica eresia condannata sin dai tempi dalla Chiesa dei Santi Apostoli e persino da quel San Francesco d’Assisi che imponeva, nella Regola ad uso dei frati, di usare “calici e pissidi preziose” per custodire le Sacre Specie. Cosa direbbe oggi il santo umbro dei tabernacoli costruiti nelle forme più improbabili o delle pissidi in terracotta e legno? Cosa potrebbe pensare dei paramenti dozzinali e dei bicchieri di plastica usati come pissidi nelle Messe, alla presenza di Papa Francesco, celebrate per la Giornata Mondiale della Gioventù a Rio de Janeiro, lui che faceva ricamare i paramenti in filo d’oro dalle clarisse?
Ad ogni modo, sbaglierebbero quanti volessero individuare nel periodo dell’attuale pontificato, l’unica nota dolente in termini dottrinali piuttosto che liturgici.
La deriva attuale è il naturale punto d’approdo di un percorso di secolarizzazione della Chiesa, che ha avuto come imput epocale proprio il Concilio Vaticano II (serpeggiando clandestinamente anche prima del Concilio, nelle frange moderniste) e si è sviluppato a fasi alterne, con note più o meno dolenti, durante tutti i pontificati post-conciliari. 
Lex orandi, lex credendiSe è vero che il modo in cui preghiamo tradisce ed estrinseca quello in cui crediamo, la nostra Fede dev’essere diventata alquanto carnascialesca
Personalmente, ho riscoperto una devozione più autentica proprio da quando ho cercato una liturgia che fosse un ausilio all’orazione. Nel panorama attuale, fortemente diversificato, in cui ogni sacerdote inventa azioni liturgiche arbitrarie, ho scoperto nel santo rigore del Messale di San Pio V, una fonte inesauribile per appagare questo mio afflato trascendente. Il Vetus Ordo Missae, in latino, mai abrogato dalla Chiesa Cattolica, purtroppo pesantemente osteggiato e vilipeso con l’avvento della Messa di Paolo VI, ha ridestato la Fede di moltissimi cattolici, perlopiù giovani, dal 2007, anno del Motu Proprio Summorum Pontificum, con cui Benedetto XVI ribadì la legittimità all’antico rito.
Evito digressioni in ambito musicale perché non mi competono, ma ovviamente, la questione è sostanzialmente analoga a quella del decadimento delle arti figurative. Se per Aristotele, ne La politica, “Talune forme di musica rendono ignobili”, a maggior ragione durante la Santa Messa, da quando si è abbandonato il repertorio sublime del gregoriano e della polifonia, come l’uso dell’organo, così intrinsecamente aderenti al Messale di San Pio V, lo scadimento nella trivialità delle canzonette di derivazione pop non poteva che giungere al suo livello più infimo. 

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