domenica 29 gennaio 2017
San Francesco di Sales era un pastore con il coraggio della verità. A differenza di troppi suoi laudatores
In onore di S. Francesco di
Sales, vescovo-principe di Ginevra, confessore e Dottore della Chiesa, che fu
animato, per i fratelli, da amore vero, forte, di uomo di carattere, non tenerezza
sentimentale priva di nerbo e di sostanza, e la cui festa celebriamo oggi, ricordando la sua opera di missione in
terra protestante (cfr. Ermes Dovico,
Francesco di Sales, la sua missione in terra protestante, in LNBQ,
24.1.2017), rilanciamo questo contributo.
Sacro Cuore tra i SS. Giovanni evangelista, Margherita Alacoque (o Teresa d'Avila?) e Francesco di Sales |
SAN FRANCESCO DI SALES ERA UN PASTORE CON IL CORAGGIO
DELLA VERITÀ. A DIFFERENZA DI TROPPI SUOI LAUDATORES
da San Francesco di Sales, Dottore della Chiesa e maestro
di vita cristiana di mons. Luigi Tirelli
«Centro della sua giornata è la
Messa, vissuta intensamente. Allo stesso modo teneva in gran conto il
sacramento della Confessione, per sé e per gli altri.
Nel periodo dello Chablais
(1594-1598) le sue lettere ci danno uno spaccato della sua anima: retto e
inflessibile ma allo stesso tempo prudente e delicato non nasconde i suoi sentimenti
ma ha il coraggio della verità.
L’eresia che affligge la Chiesa
va combattuta e perciò Francesco conquistò la stima di Beza, il continuatore di
Calvino, ma non riuscì a riportarlo in seno alla fede cattolica.
Clemente VIII, Paolo V, Leone XI,
il Baronio, il Bellarmino lo ammirarono e stimarono incondizionatamente.
Francesco è un oratore nato, non nel senso che comunemente si dà a questa
parola ma nella sua migliore accezione poiché il vero comunicatore ha la
capacità di parlare “col cuore, mentre la lingua parla soltanto alle orecchie”
(sono sue felici espressioni).
I suoi modelli sono san Carlo
Borromeo, san Filippo Neri, i Barnabiti, i preti dell’Oratorio. Pronunciò, in
18 anni di ministero, 3 o 4 mila sermoni e scrisse un trattatelo in forma di
lettera al vescovo Bourges, Andrea Frémyot, fratello di Giovanna Francesca di
Chantal.
Si convince col tempo che anche lo scritto ha i suoi vantaggi: “offre più tempo della voce alla riflessione, per pensare più profondamente”.
Si convince col tempo che anche lo scritto ha i suoi vantaggi: “offre più tempo della voce alla riflessione, per pensare più profondamente”.
Durante la sua missione allo
“Chablais” raccolse i suoi sermoni col titolo Meditazioni che chiamò poi
Controversie. È evidente in questo libro il suo zelo per la salvezza delle anime
e per combattere l’eresia, soprattutto quella degli ugonotti.
Fu allora che un tal Viret,
calvinista sfegatato, autore di un velenoso libercolo contro la presenza reale
nell’Eucarestia, lo attacca violentemente ed egli allora scrisse una Breve meditazione
sul Simbolo degli Apostoli, in cui suffraga ogni affermazione con
citazioni della Scrittura e dai Padri: è con questo criterio o metodo che
combatte tutte le opere dei calvinisti.
Quando il Viret osò mettere in dubbio la verginità della Madonna Francesco fece notare l’ignoranza dell’oppositore. Al calvinista Beza propose, per ordine di Clemente VIII, un incontro ma si accorse presto della pervicace ostinazione del suo interlocutore e quando ad Annegasse, a pochi chilometri da Ginevra, ci fu una solenne celebrazione delle Quarantore e i ministri calvinisti ginevrini organizzarono una violenta opposizione, il santo compose un’opera, Difesa dello Stendardo della Croce, che fu pubblicata tre anni dopo, nel 1600, a causa di una seria malattia e di un viaggio a Roma.
Quando il Viret osò mettere in dubbio la verginità della Madonna Francesco fece notare l’ignoranza dell’oppositore. Al calvinista Beza propose, per ordine di Clemente VIII, un incontro ma si accorse presto della pervicace ostinazione del suo interlocutore e quando ad Annegasse, a pochi chilometri da Ginevra, ci fu una solenne celebrazione delle Quarantore e i ministri calvinisti ginevrini organizzarono una violenta opposizione, il santo compose un’opera, Difesa dello Stendardo della Croce, che fu pubblicata tre anni dopo, nel 1600, a causa di una seria malattia e di un viaggio a Roma.
Nel frattempo Francesco ricevette
nella Città Eterna la nomina di vescovo titolare di Nicopoli (marzo 1599).
Compose in quel tempo l’orazione funebre per il Principe di Mercœur, al cui
casato era debitore per i benefici ricevuti».
Fonte: Il
Timone, 24.1.2017
Con i Sacramenti non si scherza. Intervista a don Nicola Bux
Nella festa di S. Francesco di Sales, rilanciamo volentieri
quest’intervista a don Nicola Bux, apparsa sul periodico Liturgia ‘culmen et fons’, dicembre 2016, n. 3, anno 9, pp. 13-17.
S. Francesco di Sales offre il carisma alle Visitandine, Vetrata monastero della Visitazione, Denfert-Rocherau, Parigi |
Carlo Bononi, Madonna del Rosario con i SS. Domenico e Francesco di Sales, 1650 circa, Bologna |
Scuola romana, Predica di S. Francesco di Sales, 1690-99, Pisa |
Giovanni Marracci, S. Francesco di Sales, 1690-1710, Lucca |
Scuola ligure, S. Francesco di Sales in meditazione dinanzi al Crocifisso, XVIII sec., Genova |
Mattieo Bonechi (attrib.), Estasi di S. Francesco di Sales, 1720 circa, Fiesole |
Gerolamo Brusaferro, L'apostolo Giacomo tra i santi Lorenzo, Maria Maddalena e Francesco di Sales, 1729, chiesa di San Salvador, Venezia |
Giovanni Pietro Salvaterra, SS. Francesco di Sales e Andrea Avellino con angeli, 1743 circa, Verona |
Giambettino Cignaroli, Pietro in cattedra con i SS. Paolo, Luigi Gonzaga, Ignazio di Loyola e Francesco di Sales, 1746 |
Giuseppe Antonio Petrini, S. Francesco di Paola appare a S. Francesco di Sales, 1740-59, Pavia |
Giovanni Battista Lampi, S. Francesco di Sales, 1775, chiesa di Santa Maria del Suffragio, Trento |
Michelangelo Pittatore, Madonna col Bambino e S. Francesco di Sales, 1855, Asti |
Michelangelo Pittatore, S. Francesco di Sales, 1855, Parrocchiale di N. S. di Loreto, Costigliole d'Asti |
Giovanni Battista Chiocchetti, S. Pietro liberato dal carcere con i SS. Francesco di Sales e Antonio da Padova, 1875-80 circa, Trento |
Ponziano Loverini, S. Giuseppe in trono col Bambino tra i SS. Francesco di Sales e Caterina d'Alessandria, 1894, Basilica di Sant'Alessandro in Colonna, Bergamo |
INTERVISTA A MONS. NICOLA BUX
«Con i sacramenti non si scherza»
In relazione al tema di questo nostro numero della rivista: La
celebrazione dei Sacramenti, segnaliamo ai lettori un recente libro di
Monsignor Nicola Bux dal titolo: Con i sacramenti non si scherza,
ed. Cantagalli, 2016.
Il libro è avvalorato dalla prestigiosa prefazione di Vittorio Messori, che
fra l’altro afferma: «Alla base di tutto quanto succede nella Catholica ormai
da decenni, c’è […] quella “svolta antropocentrica che ha portato nella Chiesa
molta presenza dell’uomo, ma poca presenza di Dio”. La sociologia invece della
teologia, il Mondo che oscura il cielo, l’orizzontale senza il verticale, la
profanità che scaccia la sacralità».
A mons. Bux abbiamo rivolto alcune domande per cogliere in ognuno dei sette
sacramenti almeno un aspetto su cui riflettere e lavorare per una maggiore
qualificazione celebrativa.
A Lui un cordiale ringraziamento, sia per il dono del suo libro, sia per
questa intervista concessa alla nostra Rivista, che qui proponiamo ai nostri
lettori.
DOMANDE
1. Con i
sacramenti i fedeli sono messi «faccia a faccia» con Cristo. Cosa vuol dire?
In occasione del 50° della Costituzione liturgica del concilio ecumenico
Vaticano II, mons. Luca Brandolini ha sostenuto che è cambiato il volto della
Chiesa (Vita pastorale, 2/2014, p. 54-57), perché questa avrebbe
riscoperto una visione teologico-biblica che la liturgia precedente non aveva.
Ma, basta leggere i n. 5-7 della Sacrosanctum Concilium, per accorgersi
che si rifanno all’ Enciclica Mediator Dei, di Pio XII, la quale
rilancia proprio quella visione, attraverso la ‘forma’ oggettiva della
liturgia, ossia le cerimonie o riti che dir si voglia; questi termini, indicano
l’ordine esigito dal rapporto dell’uomo con Dio, supremo ordinatore, rapporto
che si esprime massimamente nel culto; l’ordine, l’ordo o rito, non
sta in piedi senza l’apparato giuridico-rubricale. È curioso che si parli di
rito anche per il processo civile e penale: la non osservanza delle procedure,
lo rende invalido. Sant’Ambrogio è certo che nei sacramenti, di cui consiste essenzialmente
la liturgia, noi stiamo ‘faccia a faccia con Cristo’, perché attraverso i riti
e le preghiere lo ascoltiamo, lo vediamo, lo tocchiamo, lo percepiamo e lo
gustiamo mediante i nostri sensi, tramite i quali il nostro spirito è
alimentato e vive. Chi sa di dover stare ‘faccia a faccia’ col Signore del
Cielo e della terra, come oserebbe disprezzare il diritto divino e il diritto
liturgico che costituiscono le sponde per non cadere nell’idolatria?
Se i liturgisti, a cinquant’anni dal Vaticano II, ritengono che “il
problema numero uno per una recezione fruttuosa della riforma era e rimane
tuttora quello della formazione a tutti i livelli”, vuol dire che questa non ha
ri-formato, cioè ridato forma alla forma di cui sopra, ma
addirittura l’ha de-formata qui e là, o per stare all’immagine proposta da Joseph
Ratzinger, essa è stata un restauro aggressivo, per cui abbiamo rischiato di
perdere l’ “affresco” della liturgia romana. La prima formazione
del cristiano viene dalla stessa liturgia: se questa è deformata, essa non
avviene. E si comprende pure la fatica dei preti, ai quali è stata demolita la
sponda delle vituperate rubriche – il ritus servandus – che
garantivano la forma oggettiva e si è preteso che i contenuti teologici,
catechetici e pastorali della liturgia potessero ugualmente fluire ed essere
ritenuti ‘normativi’. La causa è nell’idea che il nuovo rito doveva apparire
completamente diverso dal precedente. La prova della necessità della ‘norma’ è
data dal fenomeno che, anche i nuovi libri liturgici, come lamenta Brandolini,
hanno incuriosito, come gli antichi, per le novità rituali; così il serpente si
è morso la coda.
Lo stare faccia a faccia con Cristo nei sacramenti, in specie
l’eucaristia,costituisce la vera ‘partecipazione attiva’, che è data
innanzitutto dalla coscienza d’essere parte del suo corpo,prima che di svolgere
una parte. Quando Brandolini si duole degli abusi e l’attribuisce alla mancata
formazione, dovrebbe riflettere su questo.
2. Il battesimo
è la «tessera» per il paradiso. Qual è oggi la sua maggiore criticità sul piano
celebrativo?
Talvolta – da un po’ di tempo sempre meno – si mette in risalto l’invasione
del secolarismo nella teologia e nella pastorale, quindi nella liturgia
riformata dopo il concilio Vaticano II. I liturgisti postconciliari si sono
illusi di aver ‘riconciliato’ la liturgia con le istanze della modernità, ed
averla introdotta nella postmodernità; perciò ritengono che le tendenze a
ritornare al ‘passato’ – che riconducono a una prassi liturgica formalistica,
scivolante nell’esteriorità e nello spettacolare – si identifichino con
l’antica liturgia. Non si sono accorti che la nuova, dove la fanno da padroni
l’intrattenimento, l’animazione, il protagonismo di preti e laici, è ben più
esteriore e spettacolare! Proprio questo ha finito per mettere al centro l’uomo
ed estromettere Dio, in nome dei mutamenti antropologici. Così, proprio il
battesimo è diventato il rito d’entrata nella comunità, che è in parte vero, ma
non nella Chiesa cattolica, in terra e in cielo: se il battesimo non servisse a
salvarsi, ad arrivare al Cielo, a che servirebbe? Ecco, a mio avviso, il punto
critico.
3. La cresima è
«l’allenamento alla lotta nel mondo». Che cosa non va?
Lo Spirito Santo – è stato scritto – è il grande assente dalla teologia
cattolica, anzi dalla liturgia, dove sarebbe entrato di soppiatto e per caso a
conclusione dell’art 6 di Sacrosanctum Concilium. Questo slogan di
teologi e pastori nasconde, a mio avviso, la dimenticanza dell’Incarnazione del
Verbo, il non volere fare i conti con Gesù Cristo, l’unto di Spirito Santo.
Diceva Balthasar che lo Spirito non vuol quasi essere adorato, ma adorare in
noi il Padre, per, con e in Gesù Cristo.
Si sa che all’origine della testimonianza da rendere a Cristo 2nel mondo, a
cui la Confermazione abilita, c’è lo Spirito, nella cui unità sussiste la
Chiesa cattolica. Ora, qualche storico della liturgia, ritiene che la pluralità
dei riti, e delle forme all’interno di uno stesso rito, non attenti all’unità
della Chiesa. Questo è vero, se il rito e le sue forme esprimono la lex
credendi della Chiesa cattolica, altrimenti contribuiscono alla
divisione. A questo son stati sempre molto attenti i Padri. Una cosa è l’unità
del rito come quello romano, altra cosa sono le consuetudini che possono essere
diverse all’interno di questa unità di fede che il rito deve manifestare.
Questo, afferma la Costituzione liturgica, è possibile quando non è in
questione la fede (cfr. Sacrosanctum Concilium 37-38): a
cinquant’anni di distanza, non è essa ad essere in questione? Il passaggio di
una ‘unità liturgica’, per es. il Canone Romano, dall’Egitto a Roma, nel senso
che è stata tradotta la paleoanafora alessandrina; oppure, la ricezione a Roma
e Milano del memento dei morti, della liturgia cappadoce, attribuita
a san Basilio, sono esempi di arricchimento, solo perché illustrano l’unica
fede. Proprio il timore che l’eresia – che porta poi allo scisma – arrivasse
attraverso il rito, ha indotto la Sede Apostolica, a istituzionalizzare la
liturgia, nel senso di regolarla giuridicamente, in modo da renderla normativa
e ridurre il rischio di interpretazioni ‘creative’ che potessero snaturarla.
Non è scontato che i sacerdoti abbiano la capacità mistica per comporre testi
‘cattolici’, cioè che esprimano quella fede che “sempre, dovunque e da tutti” deve
essere professata. La ragione sta nel fatto che il culto si chiama anche
‘liturgia’ perché è azione del popolo, cioè un atto pubblico, non privato come
una pratica di pietà; per questo lo chiamiamo culto della Chiesa. Non è
‘fissismo giuridico’.
4. L’
eucaristia ci mette «alla Sua presenza». Va tutto bene? Dove intervenire per
migliorare?
Si accusa l’antica liturgia di essere barocca, ma quella attuale non è
diventata rococò? La processione offertoriale, con di tutto e di più in essa, e
la colluvie di interventi e monizioni di preti e laici nella Messa e nei
sacramenti, esprimono la ‘nobile semplicità’ (Sacrosanctum Concilium 34)?
È più teatrale la Messa in cui sacerdoti, ministri e fedeli sono tutti
orientati in modo composto verso la Croce o l’Oriente, oppure quella in cui il
prete col microfono scende nell’assemblea come un conduttore televisivo? Se la
liturgia del passato era opus cleri, quella odierna lo è di
meno? Se quella avveniva nel silenzio ‘arcano e sacrale’, l’attuale non è
soggetta alla dittatura del rumore, con la voce alta – che non è lo stesso che
‘chiara’ – gli applausi e l’ilarità? Altro che stupore, accoglienza, adorazione
e azione di grazie! Si è pensato di annullare la distanza tra Dio e l’uomo,
demolendo la balaustra tra presbiterio e navata, ma si può annullare la
distanza tra il cielo e la terra? Sì, se si riceve Gesù Cristo Dio e Uomo,
l’unico che rende attuale la liturgia; no, se si ritorna al deismo,
in nome dell’indifferenza tra le religioni. Così non va bene.
Poi, c’è chi sostiene che il ‘cerimoniale’ sviluppatosi nel medioevo, abbia
allontanato i fedeli dalla comprensione della liturgia, favorendo
l’interpretazione allegorica dei riti che farebbe appello alla fantasia dei
fedeli presenti (cfr. E. Mazza, Vita pastorale, cit. , p. 59) al
fine di riconoscere nella maestosità rituale e del tempio, la maestà divina.
Ma, non è la liturgia cristiana erede di quella giudaica, quindi anche dei riti
e del tempio di Gerusalemme, che si svolgevano davanti alla Shekinah,
alla Presenza divina? Forse la liturgia odierna, con la ‘nobile semplicità’
disdegna appunto la nobiltà che viene dal cerimoniale e dai luoghi di culto
artistici? E poi, per esprimere meglio l’obbedienza a Dio, aver adottato nella
liturgia romana la genuflessione e le mani giunte, gesti dell’omaggio feudale e
della sottomissione al sovrano, non è un esempio di ‘inculturazione’ già nel
medioevo? Si ritiene, inoltre, che la devotio moderna sia
peggiore della devotio antica, in quanto avrebbe sancito il
divorzio tra la preghiera personale e la liturgia pubblica, non solo, ma anche
favorito l’allegorismo a partire dagli elementi visivi dei riti e appellandosi
alla fantasia. Ma, se il rito comunitario non favorisse la preghiera personale,
a cosa servirebbe? E poi, chi conosce le liturgie orientali, in specie
bizantina, sa che nel V secolo, Teodoro di Mopsuestia proponeva
l’interpretazione allegorica ispirata alla visione della Gerusalemme celeste
nell’Apocalisse. Perché ritenere che la pastorale della devotio moderna,
imperniata “nel soddisfare l’obbligo di accostarsi ai vari sacramenti”, non
attingesse alla liturgia: non ha detto il Signore che chi non sarà battezzato
non sarà salvo? Non è un comando: “Fate questo in memoria di me”? L’intimismo
religioso o il devozionismo, che la riforma liturgica postconciliare avrebbe
superato, è rimpiazzato oggi dalla “creatività selvaggia” e “dal
culto dell’emozione”. Dunque, la domanda da porsi è questa: partecipare alla
liturgia è introdurre nel mistero? Se è così, la preghiera personale è il segno
dell’avvenuta entrata in esso della persona.
5. La
riconciliazione: «confessarsi per convertirsi». Ma quante insidie a questo
sacramento!
C’è chi ha scritto che l’unica novità osservabile nella celebrazione del
nuovo rito del sacramento della penitenza, sembra la sua vistosa diminuzione.
Tanto si è insistito sulla partecipazione attiva, che alla fine si è perduto il
principale atto di partecipazione alla sequela di Cristo, che è la conversione.
La partecipazione attiva, passando per ritus et preces, non è
innanzitutto né soprattutto esterna, ma interiore perché mistagogia della fede.
San Paolo non poteva esprimerlo meglio che esortando a offrire noi stessi in
sacrificio spirituale, non conformandoci alla mentalità mondana (cfr. Rm 12,1),
come postula la Mediator Dei e il movimento liturgico che l’ha
preceduta. Invece, è proprio del modo odierno di impostare la liturgia, la
preoccupazione di far fare qualcosa ai fedeli. I riti e le preghiere sono la
via e il mezzo della partecipazione, ma ciò a cui si partecipa è il ‘mistero
della fede’: la morte e la risurrezione del Signore; alla morte e sepoltura col
battesimo e il sacramento della penitenza, e alla risurrezione con
l’eucaristia. Se i biasimati medievali e i vituperati devoti moderni, non
avessero avuto tale senso teologico della liturgia, non avremmo avuto
Francesco, Caterina, Ignazio, Teresa, Alfonso, Newman, ecc. Sì, a tale
partecipazione si arriva con la conversione e l’imitazione di Cristo: è questo
il difficile. Dunque, non si tratta di contrapporre esteriore ed interiore,
perché “è l’azione rituale nella sua concretezza e corporeità, il luogo della
partecipazione integrale al mistero”(M. Augé, Vita pastorale, cit.
, p. 63).
Senza la confessione dei peccati, che è la riforma permanente della nostra
vita, diventa impossibile “mettere in atto la riforma del Vaticano II”; e non
“perché la nostra cultura liturgica è troppo distante da quella della Chiesa
delle origini. Troppo diversa,” altrimenti saremmo di nuovo all’archeologismo.
6. L’unzione
degli infermi è «la benefica unzione» della Grazia. Sacramento dei malati o
benedizione per tutti?
Se la riforma liturgica, dopo il Concilio, sia stata effettivamente applicata,
è una questione permanente tra i liturgisti: sono insoddisfatti
dell’applicazione della stessa, perché, dicono, “il popolo non partecipa”. Sono
arrivati anche a denunciare la mancata riflessione sulla dimensione antropologica
della liturgia, che avrebbe portato da una parte alla negazione del rito e,
dall’altra, al suo esasperato e feticistico fissismo. Che dire? Proprio il
sacramento dell’unzione esalta questa dimensione – nonostante non la si chiami
“estrema”, è ugualmente raro vedere al capezzale del moribondo il prete – nel
momento della debolezza corporea: è il sacramento per i deboli (in latino: infirmus):
gli infermi. L’”Olio di consolazione” può essere preceduto dalla confessione
dei peccati e seguito dal Viatico; tale itinerario di guarigione, dimostra,
senza ricorrere allo slogan “la liturgia è per l’uomo e non l’uomo per la
liturgia”, che questa deve aiutare l’uomo ad arrivare a Dio, per ottenere la
salvezza.
7. L’ordine
sacro «per consacrare il mondo». Un dono dall’alto o un incarico sociologico?
Una visione e un esercizio del ministero – si è auspicato da taluno – meno
sbilanciati sulla cristologia e quindi sull’istituzione. Che vuol dire?
Benedetto XVI scrive: “Il sacerdote è più che mai servo e deve impegnarsi
continuamente ad essere segno che, come strumento docile nelle mani di Cristo,
rimanda a lui. Ciò si esprime particolarmente con l’umiltà con la quale il
sacerdote guida l’azione liturgica, in obbedienza al rito, corrispondendovi con
il cuore e con la mente, evitando tutto ciò che possa dare la sensazione di un
proprio inopportuno protagonismo” (Sacramentum Caritatis, 23). Il rito va
interpretato nel senso di adoperare le possibilità diverse offerte dal libro
liturgico. Ma l’idea di adattarlo alle circostanze e ai partecipanti, ha
favorito gli abusi e la cosiddetta creatività, e riduce il libro a un
‘copione’, contraddicendo l’oggettività della liturgia pubblica e avvicinandola
alla devozione privata di singoli e gruppi. Mi domando: non sono costoro a
doversi ‘adattare’ alla liturgia divina? L’adattamento è una idea tutta
occidentale, estranea alle liturgie orientali: è l’uomo che si deve elevare a
Dio, il quale già si è abbassato con l’incarnazione, la katabasi che
la liturgia ripropone. La liturgia è la forma dell’incarnazione e redenzione
del Signore, non una ‘performance’, o esibizione improvvisata. Proprio questa
idea fa eludere le norme, e disprezzare i diritti di Dio nel culto a lui
dovuto, giungendo agli “abusi, anche di massima gravità contro la natura della
liturgia e dei sacramenti”(Istruzione Redemptionis Sacramentum, 4).
Siamo alla situazione odierna.
Checché ne pensi qualche liturgista modernista, il ritus per
essere celebrandus deve essere servandus. Dice
Gesù: “Chi è più grande: chi è a tavola o colui che serve?” Egli si è fatto
servo e anche noi lo siamo e serviamo la liturgia, come indicano i termini
usati: ministro, accolito, diacono. Invece, ha molto nociuto al servizio della
liturgia, che questa debba essere “animata”; se la liturgia esprime
l’obbedienza della fede, ha già l’anima che è data dalla Presenza del Signore,
e va servita; questo ci rende figli del Padre, come il Figlio.
Qualcuno pensa che nella liturgia precedente il Concilio, ci si rivolgesse
a persone già evangelizzate, sicché non ci fosse bisogno di gesti ‘chiari’; in
verità la liturgia è stata sempre un annuncio, ma nessun annuncio nella
Scrittura è ‘chiaro’, secondo le categorie razionali, e così la liturgia non
può non essere “misteriosa”. Anche la liturgia attuale, sebbene la si ritenga
in genere accessibile e comprensibile, non è capita da molti. Certo, il popolo
è una presenza accessoria rispetto al Protagonista, al quale è rivolta in
definitiva la liturgia. Dunque, nessuna “cortina fumogena” è stata interposta
tra la liturgia e il popolo. Vero è, invece, che “la liturgia è come un albero,
che è appunto cresciuto nel clima mutevole della storia mondiale, che ha
conosciuto momenti di tempesta e periodi di fioritura, il cui sviluppo avviene
dal di dentro, dalle forze vitali dalle quali è germinato”(J. A. Jungmann, Eredità
liturgica e attualità pastorale, Milano 1962, p 556-557). Il sacerdote, che
porta nel suo etimo il prefisso sacer, che sta a ricordare il dono
ricevuto dall’alto, deve appunto consacrare il mondo e non conformarsi ad esso.
8. Il
matrimonio «elevato a sacramento». È ancora un rito dove Dio è presente e
operante?
È paradossale che, nel nostro tempo che vede il formidabile attacco
all’istituto matrimoniale, con l’impressionante diminuzione di matrimoni in
chiesa, l’attenzione dei riformatori della liturgia, si sia concentrata sulle
epiclesi nelle quattro formule della benedizione nuziale, che inizialmente non
lo prevedevano. Penso sia imputabile, anche in questo caso, alla teoria dello
Spirito Santo ‘grande assente’. È proprio vero, che ridottasi la base
imponibile dei fedeli che frequentano la chiesa, si sono moltiplicate a
dismisura le ‘istruzioni per l’uso’.
Mentre incombe il relativismo sulla verità della creazione dell’uomo e
della donna, quindi sulla concezione della coppia cristiana, mi sembra si debba
invece esaltare proprio l’elevazione a sacramento voluta da nostro Signore,
secondo il passo paolino di Ef. 5, che lo assimila al mistero del rapporto di
Cristo con la Chiesa. Senza nulla togliere allo Spirito Santo, che insieme al
Padre opera la santificazione in ogni sacramento, qui è innanzitutto Cristo ad
essere presente, come alle nozze di Cana, per mostrare la novità dell’amore
coniugale: bere il suo sangue, il “vino nuovo” che ha portato all’umanità. Così,
nel matrimonio cristiano, la verità della creazione si unisce alla verità della
redenzione, come insegna Giovanni Paolo II.
9. I
sacramentali: «l’estensione del senso sacramentale». Perché le benedizioni in
una società secolarizzata?
Si dice che l’esperienza del sacro è ambigua, perché l’uomo per un verso ne
è attratto, per un altro atterrito, vuoi avvicinarti e toccarlo, hai timore e
desideri allontanarti: è il mistero che cogli quando chiudi gli
occhi (etimologia del termine greco myo) e non quando li apri; ma
quando li apri, devono posarsi su una forma (rito e parola) che riconducano al mistero.
Il senso religioso dell’uomo di tutti i tempi e di tutte le religioni,
desiderava Dio e cercava un suo oracolo. Il sacro era ambiguo al tempo dei pagani,
è ambiguo in tutte le religioni, ma non nel cristianesimo: da quando il Verbo
si è incarnato, il sacro si è fatto incontrare ed è presente – è il mistero –
il Santo, ben separato dal mondo, nella sua grandezza si è fatto il Dio vicino.
Per questo, il Motu proprio Summorum Pontificum invita a
celebrare il Novus Ordo “con grande riverenza in conformità
alle prescrizioni”; infatti, il venire meno di tale riverenza e la necessità di
riconquistarla, ha indotto a ricorrere al Vetus Ordo. La sacralità
dipende dalla riverenza, come insegna Tommaso: “totus exterior cultus Dei ad
hoc praecipue ordinatur ut homines Deum in reverentia habeant” (S. Th. ,
I-II, q. 10, 2, a. 4, co. ): la celebrazione del culto divino è ordinata
soprattutto a inculcare negli uomini la riverenza verso Dio. È questa l’ars
celebrandi, che “deve favorire il senso del sacro e l’utilizzo di quelle
forme esteriori che educano a tale senso, come, ad esempio, l’armonia del rito,
delle vesti liturgiche, dell’arredamento e del luogo sacro” (Sacramentum
Caritatis, 40). La coscienza del mistero che viene celebrato fa percepire
il sacro, cioè la Presenza divina. Così abbiamo la vera liturgia, che nasce
dall’atto di fede e ad un tempo la nutre. Perciò, la Chiesa ha voluto estendere
il senso sacramentale a molteplici aspetti della vita, per aiutare l’uomo a cogliere
la vicinanza di Dio: le benedizioni, gli esorcismi, le esequie, le processioni.
. . Il profano si sottrae al sacro, ma si confronta sempre con esso e se non è
conquistato, tende a crearsi un suo cerimoniale, come si può constatare
nell’inimmaginabile scristianizzazione che caratterizza l’Occidente. Purtroppo
la secolarizzazione ha trovato sponda proprio nel neomodernismo che ha
conquistato ampi settori della Chiesa. Nonostante tutto, però, il fenomeno
della pietà popolare attesta la ricerca del senso cristiano della vita, che è
alimentato e sorretto solo dai sacramenti e dai sacramentali.
sabato 28 gennaio 2017
L’«unità dei cristiani» e la lezione dimenticata di Bonhoeffer
Nella festa del beato Carlo Magno, della natività di S. Agnese, vergine e martire (II memoria di S. Agnese) e di S. Pietro Nolasco, pubblichiamo questo contributo di Franco Parresio.
Jean-Victor Schnetz, Il beato Carlo riceve il beato Alcuino di York ed i suoi monaci, che presentano alcuni manoscritti, 1830, musée du Louvre, Parigi |
Karl Baumeister, Beato Carlo Magno e S. Ildegarda, 1895, chiesa di S. Giovanni Battista, Bussen |
La Vergine della Marcede e S. Pietro Nolasco |
Juan Luis Zambrano (allievo di Francisco de Zurbarán), Morte di S. Pietro Nolasco, 1634 circa, museo Thyssen-Nornemisza, Madrid |
Gaspar de Crayer, S. Pietro Nolasco, 1655 circa, Mudeo del Prado, Madrid |
Alonso del Arco, La Vergine della Mercede appare a S. Pietro Nolasco, 1682, Mudeo del Prado, Madrid |
Juan de Toledo, S. Pietro Nolasco, 1660 circa, Mudeo del Prado, Madrid |
Scuola spagnola, S. Pietro Nolasco, XVIII-XIX sec., collezione privata |
L’«unità dei cristiani» e la lezione dimenticata di Bonhoeffer
di
Franco Parresio
Nel
ricordo della deposizione delle reliquie del santo dottore Tommaso D’Acquino,
il sommo teologo, avvenuta nel 1369 a Tolosa nella chiesa a lui dedicata e la
cui festa celebreremo il prossimo 7 marzo, nonché al termine dell’Ottavario di
preghiera per il ritorno dei dissidenti in seno alla Santa Madre Chiesa
Cattolica Apostolica Romana, voglio ricordare la lezione dimenticata del
teologo luterano Dietrich Bonhoeffer, ucciso dalla ferocia
nazista. E la lezione consiste proprio nel suo forte avvicinamento alla
teologia cattolica, professando quanto nel Simbolo
Apostolico è detto circa la “Sanctorum
communio”. Ecco cosa egli scrisse in una lettera ad amici, che avevano
subito un lutto in famiglia:
«Non c’è nulla che possa
sostituire l’assenza di una persona cara; non c’è nessun tentativo da fare. Bisogna
semplicemente tener duro e sopportare. Ciò può sembrare a prima vista molto
difficile, ma è al tempo stesso una grande consolazione, perché, finché il
vuoto resta aperto, si rimane legati l’un l’altro per suo mezzo. È falso dire
che Dio riempie il vuoto, Egli non lo riempie affatto; anzi lo tiene espressamente
aperto, aiutandoci, in tal modo, a conservare la nostra antica reciproca
comunione, sia pure nel dolore. Ma la gratitudine trasforma il tormento del
ricordo in una gioia silenziosa».
Stiamo
più che certi che Dietrich Bonhoeffer, se sopravvissuto, avrebbe
aderito alla Chiesa di Roma, visto che era profondamente attratto non solo
dalla sua teologia (stanco delle cinciscaglie protestanti), ma anche dai suoi
riti, tant'è che passava lunghi periodi di ritiro e studio in un monastero benedettino e, recandosi a Roma, frequentava esclusivamente le liturgie capitolari in Santa Maria Maggiore, come apprendiamo dalla biografia che ne ha scritto Eraldo Affinati (Un teologo contro Hitler. Sulle tracce di Dietrich Bonhoeffer, Milano, 2002).
Perciò,
non mi trovo assolutamente d’accordo con chi strumentalizza il nome di Bonhoeffer per avvicinare i cattolici alla
teologia protestante, perché è vero esattamente il contrario!
Ricordiamoci:
«a definire e descrivere questa verace Chiesa di Cristo (che e la Chiesa Santa,
Cattolica, Apostolica Romana), nulla si trova di più nobile, di più grande, di
più divino che quella espressione con la quale essa vien chiamata "il
Corpo mistico di Gesù Cristo" [ad definiendam describendamque hanc
veracem Christi Ecclesiam — quae sanctā, catholica, apostolica, Romana Ecclesia
est —nihil nobilius, nihil praestantius, nihil denique divinius invenitur sententia
illa, qua eadem nuncupatur «mysticum Jesu Christi Corpus»]» (Pio XII, enc. Mystici
Corporis Christi, 29.6.1943).
Concilio Vaticano II e discontinuità in un aforisma del prof. De Mattei
Cfr. Intervista al prof. Roberto de Mattei sul Concilio Vaticano II ed altro, in Cooperatores Veritatis, 28.1.2017
venerdì 27 gennaio 2017
L'inno cherubico (Cherubikon) nella festa di S. Giovanni Crisostomo
Nella festa di S. Giovanni Crisostomo proponiamo il Cherubikon (χερουβικόν), cioè l'inno cherubico (χερουβικὸς ὕμνος), che fa parte dell'Anafora della Divina Liturgia (della Tradizione orientale), fatta risalire a San Basilio ed alla redazione di San Giovanni Crisostomo del testo liturgico basiliano.
Qui lo riproduciamo nella versione musicata da Pëtr Il'ič Čajkovskij.
martedì 24 gennaio 2017
Mostra 26 gennaio - 31 maggio 2017 - Il "Tesoro" di San Benedetto - Conversano
Cfr. Conversano (Ba) ‘Il Tesoro di San Benedetto e il Monstrum Apuliae', in Affari italiani, 30.12.2016