Nella festa di S. Rosalia di Palermo rilanciamo volentieri questo contributo suggeritoci dal nostro amico Epifanio.
Piero Novelli detto il Monrealese, S. Rosalia, XVII sec., collezione privata |
Andrea Vaccaro, S. Rosalia di Palermo, XVII sec., museo del Prado, Madrid |
Andrea Sacchi, S. Rosalia di Palermo, XVII sec., museo del Prado, Madrid |
Heinrich Schwemminger, Morte di S. Rosalia di Palermo, 1836, collezione privata |
Gregorio Tedeschi, Trapasso di S. Rosalia, 1630 circa, Santuario di S. Rosalia, Monte Pellegrino, Palermo |
Ignoto napoletano, Statua di S. Rosalia, XVIII-XIX sec., Chiesa madre, Lentiscosa |
Nel post di sabato 2 settembre avevamo riportato la Proposta del P. Nichols,
pubblicata il 18 agosto scorso, circa le possibilità giuridiche di una correzione
formale di un Papa che fosse caduto in eresia e si fosse rivelato pervicace nel
sostenerla. The
Catholic Herald, il più storico e significativo periodico
cattolico britannico, proponeva quello stesso giorno un altro intervento per
mezzo di un articolo ragionato, il cui autore è P. Brian Harrison, O.S.,
teologo australiano, docente emerito di teologia alla Pontifical Catholic University of Puerto
Rico, dal momento che parla fluentemente lo spagnolo.
Epifanio
Padre
Nichols ha ragione quanto alla crisi dottrinale. Ma c’è una risposta migliore
Di P.
Brian Harrison, traduzione di F. S.
La riforma proposta sarebbe difficile da attuare. Ecco un altro
modo per cambiare la norma canonica.
Come molti fedeli
cattolici, P. Aidan Nichols è preoccupato per l’inasprirsi della crisi dottrinale
e pastorale derivante dall’esortazione apostolica di Papa Francesco Amoris Laetitia. Questo documento
magistrale è senza precedenti, in quanto sembra essere in conflitto con diversi
insegnamenti tradizionali della Chiesa: quelli che, per esempio, vietano la
comunione per i cattolici divorziati risposati e quelli che affermano l’esistenza
di atti intrinsecamente cattivi, che non possono mai essere giustificati in
nessuna circostanza. Alcuni di questi insegnamenti certamente soddisfano le
condizioni circa l’infallibilità stabilite dal Concilio Vaticano II nella Lumen Gentium, n. 25.
Tuttavia, ho alcune
riserve attorno alla soluzione proposta da P. Nichols: una nuova procedura canonica
«per richiamare all’ordine un Papa che insegni un errore dottrinale».
Come riconosce P.
Nichols, l’antico canone, che afferma che «la Prima Sede non è giudicata da
nessuno» (c. 1404 nel Codice attuale), non preclude la correzione di un Papa che
sbaglia. È presente nella sezione su «I Processi» e significa semplicemente che
la Chiesa non riconosce alcun tribunale, laico o religioso, che sia competente
a convocare e giudicare il Romano Pontefice. L’autorevole New Commentary on the Code of Canon Law, nello spiegare questo
canone, chiarisce che «non è una dichiarazione circa l’impeccabilità personale
o l’inerranza del Santo Padre. Se il Papa dovesse cadere in eresia, è chiaro che perderebbe il suo
ufficio. Decadere dalla fede di Pietro significa decadere dalla sua sede».
La maggior parte dei grandi canonisti, così come i teologi classici come, per es.,
Suárez, Cajetano, Bellarmino e Giovanni di San Tommaso, hanno sostenuto questa
visione, intendendo qui con ‘eresia’ l’eresia formale, che include l’elemento della pertinacia (ostinazione). Essa
occorre quando ci si rifiuta di accettare la correzione anche dopo che si sia dimostrato
che una certa opinione è in contraddizione con una dottrina che la Chiesa ha
proposto come verità rivelata, cioè da credere «per fede divina e cattolica»
(cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2089).
Una prima soluzione poco
adatta ai tempi – il concilio imperfetto
Ma il su citato Commentary aggiunge immediatamente una
riserva importante: «Tuttavia, la questione di chi o quale ente … debba
determinare se il Papa sia effettivamente caduto in eresia non è storicamente
chiara e, ovviamente, non è stabilita da questo canone» (pag. 1618). La maggior
parte dei canonisti e dei grandi teologi sopra menzionati sosteneva che solo un
Concilio generale imperfetto
(composto dall’intero collegio episcopale eccetto il Papa) avrebbe
giurisdizione su questa questione. Questo ente, però, se necessario, non deporrebbe
il Papa dall’ufficio – qualcosa che va oltre la competenza di una qualsiasi autorità
terrena – ma semplicemente dichiarerebbe, come fatto evidente, che il Papa è caduto
in eresia formale, col che egli decadrebbe ipso
facto dall’ufficio. I Cardinali allora si riunirebbero in conclave per
eleggere un nuovo Papa.
Tuttavia, nella
procedura di cui sopra, si evidenzierebbe immediatamente una debolezza fatale
qualora cercassimo di attuarla nel XXI secolo. E temo che questa debolezza si
determinerebbe probabilmente anche al tipo più semplice di procedimento
canonico suggerito da P. Nichols – che cercherà non di sostituire il Pontefice
regnante, ma solo di correggerlo formalmente. Quei grandi studiosi dei secoli
scorsi davano per scontata una cultura ecclesiale in cui il Collegio Episcopale
manteneva una profonda e sana avversione verso l’eresia. Essi hanno quindi
presupposto che, se un Papa dovesse cadere in eresia (non voglia il Cielo!),
egli si sarebbe ritrovato dinnanzi a un solido muro di resistenza da parte dei
rimanenti Vescovi e dal Collegio dei Cardinali, fino al punto che, chiunque
venisse eletto come nuovo Papa, avrebbe apprezzato l’unanime consenso morale in
materia di fede. Problema risolto.
Ma oggi, ogni tentativo
di dichiarare un Papa come eretico, comporterebbe semplicemente uno scisma, con
un episcopato diviso ed amareggiato e alla guida di due fazioni di fedeli sotto
due Papi rivali.
La soluzione proposta da
Nichols e le sue criticità
Anche la proposta di P.
Nichols, anche se meno drastica, non riuscirà affatto a raggiungere l’effetto
desiderato. Il problema fondamentale è che nella Chiesa del dopo-Vaticano II, secolarizzata,
ecumenica, dialogica e mediatica, la salvaguardia rigorosa della verità
rivelata da Cristo non è più una priorità viscerale per la maggior parte dei
cattolici. E questo vale per molti Vescovi e Cardinali (come i due recenti Sinodi
Romani hanno dolorosamente reso chiaro). La gerarchia non fa più uno sforzo risoluto
per eliminare l’eresia. Infatti, il quadro della situazione è stato ribaltato –
e ancor più sotto Papa Francesco – in modo che siano proprio quelli che
detestano e si oppongono all’eterodossia che si trovano cacciati, emarginati e
rimproverati per il loro «fariseismo», «rigidità», «intolleranza», «legalismo» e
«mancanza di misericordia».
All’interno di questa
cultura, anche supponendo che il Papa potesse venir persuaso ad approvare una emendamento
alla legge canonica con cui egli stesso potesse essere corretto formalmente per
un errore di insegnamento, come verrebbe formulato tale emendamento? E come
funzionerebbe? Chi avrebbe autorità canonica per decidere se il Santo Padre abbia
bisogno di una tale correzione, e poi di portarla avanti? Un vasto consenso di
Cardinali e/o di Vescovi? Spiacenti, ma non ci sarà alcun consenso del genere.
Una maggioranza semplice o di due terzi? Ancora molto improbabile che sia
raggiunto e in ogni caso i Papi possono ignorare le maggioranze. Il Prefetto
della Congregazione per la Dottrina della Fede? Il Papa lo potrebbe allontanare
e sostituire con la forza
di un dito – come abbiamo visto recentemente per quanto è accaduto con
il degno e coraggioso Cardinale Müller.
Forse…
Tuttavia, seguendo la
traccia di P. Nichols, ho un suggerimento per un emendamento canonico. Il canone
212, §3 già riconosce per tutti i fedeli «in modo proporzionato alla scienza, alla
competenza e al prestigio di cui godono … il diritto, e anzi talvolta anche il
dovere, di manifestare ai sacri Pastori», anche pubblicamente, la loro opinione
su questioni che interessano il bene della Chiesa. Devono però farlo, «salva
restando l’integrità della fede e dei costumi e il rispetto verso i Pastori,
tenendo inoltre presente l’utilità comune e la dignità delle persone».
Suggerisco di aggiungere la seguente frase conclusiva al c. 212 §3: «Questo
diritto e dovere può estendersi anche a rimostranze pubbliche rivolte al Romano
Pontefice, se, in interventi che non si avvalgano della sua prerogativa dell’infallibilità,
parrebbe insegnare una dottrina incompatibile con quella dei suoi predecessori alla
Cattedra di Pietro».
Si tratterebbe di una
modifica modesta, ovviamente non vincolante e con poche o nessuna conseguenza
giuridica. Ma darebbe un bello slancio alla triste realtà della fallibilità papale
e, come si suol dire, tutto giova.
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