Nella festa di Cristo Re dell’Universo
e della sua regalità sociale – verità queste sempre riconosciute dalla Cristianità
e negate, tuttavia, a partire da Montini in poi, per il quale si è rinnovato l’antica,
blasfema esclamazione dei giudei dinanzi a Pilato “Nolumus hunc regnare
super nos” (Lc 19, 14), riconoscendosi a Cristo solo una regalità …
escatologica … – ricordiamo di rinnovare le prescrizioni di Sua Santità Pio XI di
v.m. circa la consacrazione del genere umano: in tutte le chiese parrocchiali,
davanti al Santissimo Sacramento esposto alla pubblica adorazione si reciti,
infatti, la formula (riformata nel 1925) di consacrazione del genere umano al Sacro
Cuore di Gesù, alla quale si devono aggiungere le Litanie del Sacro Cuore (S.
R. C. 28 aprile 1926).
In questa festa, pertanto,
rilanciamo questo bel contributo di Cristina Siccardi sulla lotta contro le
eresie intrapresa da san Domenico di Guzmán; lotta volta, appunto, all’affermazione
del regno sociale di Cristo. Si tratta di un contributo quantomeno opportuno
stante la lotta senza quartiere ai giorni d’oggi intrapresa contro la Verità di
Cristo dai suoi nemici, che non cessano, di giorno in giorno, che diffondere e
lodare nuove – ma in verità sempre antiche – eresie.
George Zinoviev, Icona di Cristo re con Sergio di Radonez e Eutimio di Suzdal, 1681, State Vladimir-Suzdal Historical, Architectural and Art Museum-Reserve, Suzdal |
Icona di Cristo sommo sacerdote, XVII sec. |
La lotta contro le eresie di san
Domenico di Guzmán
di Cristina Siccardi
Giovanni Antonio Sogliani, S. Domenico fa servire i suoi frati dagli angeli, 1536, Convento di S. Marco, Firenze |
Ottocento anni fa avvenne un fatto fondamentale per la vita della Chiesa, che andò a sommarsi all’operato dei Frati minori di san Francesco di Assisi: era il 1217 quando san Domenico di Guzmán (Caleruega 1170/1175-Bologna 6 agosto 1221) inviò nelle città europee, dove si trovavano le principali sedi universitarie (Bologna, Parigi, Madrid…), i membri dell’Ordine dei Predicatori da lui fondato al fine di renderli dotti per risanare il tessuto cattolico.
I due ordini
mendicanti, mendichi per volontà di san Francesco e di san Domenico della sola
Provvidenza, risollevarono le sorti di una Chiesa piena di boria, moralmente
corrotta, avente parroci spesso ignoranti e fedeli imbevuti di errori diffusi
da movimenti pauperisti.
La vita di san
Domenico di Guzmán è meno nota rispetto a quella del suo contemporaneo san
Francesco di Assisi (1181/1182-1226), in quanto il fondatore dei Predicatori si
identifica per lo più con la sua opera, a differenza di san Francesco, il cui
percorso terreno fu caratterizzato dalla sua stessa originale personalità.
Proprio per tale ragione la figura di san Domenico ha subito meno
stravolgimenti e profanazioni rispetto a quella del poverello di Assisi, in
quanto l’icona del santo spagnolo è stata associata più che altro alla sua
fondazione.
Ma c’è anche un altro
dato che non può essere sottovalutato: Francesco era l’uomo di Dio che apriva
il suo santo animo alla singola creatura, dunque la devozione che scaturì fu di
carattere personale, un po’ come accadrà per san Pio da Pietrelcina: ognuno,
anche il laico, sente un richiamo magnetico per san Francesco (da qui la più
agevole strumentalizzazione da parte delle diverse ideologie: gnostica,
comunista, relativista…); mentre la devozione per san Domenico non assume
questo carattere di empatia personale, bensì si confonde nella sfera del suo
Istituto, creato ad hoc contro le eresie, utilizzando un
metodo preciso: formare predicatori di elevata qualità per essere in grado di
confutare gli errori.
L’azione catechetica
e di evangelizzazione che adottò san Domenico era per l’appunto focalizzata
sulla predicazione con lo scopo precipuo di debellare le eresie, in particolare
puntò la sua attenzione sui càtari, che si consideravano puri, detti anche
albigesi, dal nome della cittadina francese di Albi, altresì dalla locuzione
latina in albis (in [vesti] bianche), come ha ricordato il
professor Dario Pasero, filologo, linguista e glottologo che negli scorsi
giorni ha tenuto una splendida lezione, all’interno di un incontro organizzato
dall’Associazione John Henry Newman di Rivarolo Canavese, sulla figura di san
Domenico tratteggiata da Dante nel XII canto del Paradiso, dove la terzina 72
così lo dipinge: «Domenico fu detto; e io ne parlo/sì come de l’agricola che
Cristo/elesse a l’orto suo per aiutarlo».
I càtari si diffusero
nella Linguadoca, nella Provenza, nella Lombardia, in Bosnia, in Bulgaria,
nell’Impero bizantino. La tolleranza praticata dai signori di Provenza, come il
conte di Tolosa, da alcuni ecclesiastici, come i vescovi di Tolosa e
Carcassonne, e dall’Arcivescovo di Narbonne, nei confronti dei predicatori
eretici, permise che quest’ultimi non solo circolassero indisturbati nei
villaggi e ricevessero lasciti cospicui, ma venissero posti a capo di istituti
religiosi.
I sacerdoti locali si
disinteressavano degli eretici proprio perché, essendo intellettualmente
impreparati, non avevano mezzi per controbatterli. Fu così che i Domenicani,
formati nei migliori atenei, acquisirono gli strumenti adeguati per compiere la
loro missione in funzione della ragione e della Fede contro menzogne ed
inganni.
Domenico apparteneva
alla nobile famiglia dei Guzmán della Castiglia e sostenuto da uno zio
sacerdote aveva studiato in una celebre scuola di Palencia. Si distinse subito
per l’interesse alla Sacra Scrittura e per l’amore verso i poveri, tanto da
vendere i suoi libri manoscritti di grande valore (all’epoca non esisteva
ancora la stampa) per soccorrere, con il ricavato, le vittime di una carestia.
Nel 1196 fu eletto
canonico del capitolo cattedrale di Osma. Il Vescovo del luogo, Diego de
Acevedo, lo chiamò al suo fianco e nel 1203, divenuto sottopriore dello stesso
capitolo, lo accompagnò in una missione diplomatica, per conto del Re di
Castiglia, da espletare nella Germania del Nord. Giunti a destinazione constatarono
le devastazioni morali prodotte in Turingia da una popolazione pagana
dell’Europa centrale, i Cumani. Da questo istante fino al termine della sua
vita Domenico sarà animato dal desiderio di convertire.
Sulla strada per la
Germania, il Vescovo e il suo collaboratore avevano soggiornato nella contea di
Tolosa, prendendo così coscienza del successo che qui aveva riscosso il catarismo.
Tale termine deriva dal latino medievale catharus (a sua volta dal greco καϑαρός «puro»), con il quale
si autodefinirono per primi i seguaci del Vescovo Novaziano elettosi antipapa
dal 251 al 258; per questa ragione il termine katharoi fu
citato per la prima volta in un documento ufficiale della Chiesa nei canoni del
Concilio di Nicea del 325. Con la definizione di càtari sono indicati gli
eretici dualisti medievali (albigesi, manichei, publicani o pauliciani, ariani,
bulgari, bogomili… e in Italia patarini), che ebbero terreno fertile dal IV
fino al XIV secolo.
Fu proprio per
contenere l’estendersi dei càtari che, dopo infruttuosi tentativi da parte di
alcuni legati papali, Padre Domenico concepì un nuovo metodo di predicazione:
per combatterli bisognava usare i loro stessi mezzi, vale a dire operare in
povertà, umiltà e carità. Credendo nella deviazione dalla vera fede della Chiesa
di Roma, i càtari crearono una propria istituzione ecclesiastica, parallela a
quella ufficiale presente sul territorio.
Per loro Cristo aveva
avuto solo in apparenza un corpo mortale (docetismo) e la dottrina si fondava
essenzialmente sul rapporto oppositivo fra materia e spirito di derivazione gnostica
e manichea. Le opposizioni erano irriducibili (Spirito-Materia, Luce-Tenebre,
Bene-Male), all’interno delle quali tutto il creato era una sorta di grande
tranello di Satana (Anti-Dio), il quale irretiva lo spirito umano contro le sue
rette inclinazioni.
Lo stesso Dio
dell’Antico Testamento corrispondeva ad un dio malefico. Basandosi su questi
principi divennero vegani ante litteram, rifiutando il consumo di
carne, latte, uova e dei loro derivati (ad eccezione del pesce, di cui in epoca
medievale non era ancora conosciuta la riproduzione sessuale). Consideravano
peccaminoso persino il matrimonio, poiché serviva ad accrescere il numero degli
schiavi di Satana. La convinzione che tutto il mondo materiale fosse opera del
male comportava il rifiuto dei sacramenti. La perfezione per il càtaro si
raggiungeva quando non si possedevano beni materiali e, attraverso un percorso
“ascetico”, ci si lasciava morire di fame e di sete (pratica dell’endura).
Nel terzo Concilio
Lateranense, convocato da papa Alessandro III a Roma nel marzo 1179, il
catarismo venne condannato. Dopo l’elezione al soglio pontificio di Innocenzo
III, nel 1198, la Chiesa reagì con decisione all’eresia con l’indizione nel
1208 della Crociata albigese (1209-1229), mentre papa Gregorio IX istituirà il
Tribunale dell’Inquisizione, che impiegherà settant’anni per estirpare la
malapianta dal Sud della Francia.
In questa drammatica
situazione per la Chiesa, La Divina Provvidenza chiama Domenico di Guzmán, con
la povertà, lo studio approfondito, la predicazione, e san Francesco di Assisi,
con la povertà, l’immolazione, l’esempio di vita per ristabilire la verità e
l’ordine.
Il primo successore
nella guida dei Domenicani, il beato Giordano di Sassonia (1190-1237), autore
del Libellus de principiis Ordinis Praedicatorum, un testo che
propone la prima biografia di san Domenico (canonizzato nel 1234) e la storia
degli anni iniziali dell’Ordine, scrive: «Durante il giorno, nessuno più di
lui si mostrava socievole… Viceversa di notte, nessuno era più di lui assiduo
nel vegliare in preghiera. Il giorno lo dedicava al prossimo, ma la notte la
dava a Dio» (in P. Lippini OP, San Domenico visto dai suoi
contemporanei. I più antichi documenti relativi al Santo e alle origini
dell’Ordine Domenicano, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1982, p. 133).
I testimoni affermano che «egli parlava sempre con Dio o di Dio». Non ha
lasciato scritti sulla preghiera, ma la tradizione domenicana continua a
tramandare un’opera dal titolo Le nove maniere di pregare di San
Domenico, che venne redatta fra il 1260 e il 1288 da un frate domenicano.
Ogni preghiera viene
sempre svolta da Padre Domenico di fronte a Gesù Crocifisso. I primi sette modi
seguono una linea ascendente, come i passi di un cammino, verso la comunione
con la Trinità: Domenico prega in piedi inchinato per esprimere l’umiltà; steso
a terra per chiedere perdono dei peccati; in ginocchio facendo penitenza per
partecipare alle sofferenze di Cristo; con le braccia aperte fissando il Crocifisso
per contemplare il Sommo Amore; con lo sguardo verso il cielo sentendosi
attirato verso il Regno di Dio.
L’ottava pratica
consiste nella meditazione personale, quella che conduce alla dimensione
intima, fervorosa, rasserenante. Al termine della Liturgia delle Ore e dopo la
celebrazione della Santa Messa, egli prolunga il colloquio con Dio, senza porsi
limiti di tempo: tranquillamente seduto, si raccoglie in sé e in ascolto,
leggendo un libro o fissando il Crocifisso. I testimoni raccontano che, a
volte, entrava in estasi con il volto trasfigurato, e dopo riprendeva le sue
attività come niente fosse, corroborato dalla forza acquisita dalla preghiera.
Infine c’è l’orazione
che svolge durante i viaggi da un convento all’altro: recita le Lodi, l’Ora
Media, il Vespro con i confratelli e, percorrendo valli e colline, contempla la
bellezza della creazione, mentre dal cuore gli sgorga sovente un canto di lode
e di ringraziamento a Dio per tutti i doni, soprattutto per il più grande: la
Redenzione operata da Cristo.
Nel 1212, durante la
sua permanenza a Tolosa, narra il beato Alano della Rupe, ebbe una visione
della Vergine Maria, che gli consegnò il Rosario, come richiesta a una sua
preghiera per combattere l’eresia albigese. Secondo il racconto del beato, nel
1213-1214 san Domenico, mentre predicava in Spagna con il confratello Fra’
Bernardo, venne rapito dai pirati.
La notte
dell’Annunciazione di Maria (25 marzo) una tempesta stava facendo naufragare la
nave su cui si trovavano, quando la Madonna disse a Domenico che l’unica
salvezza dalla morte per l’equipaggio era dire sì alla sua Confraternita del
Rosario: furono dunque i pirati con i Domenicani a bordo ad esserne i primi
membri. Da allora il Rosario divenne la preghiera più diffusa per combattere le
eresie e, con il passare dei decenni, una delle più tradizionali preghiere
cattoliche.
In occasione di un
viaggio a Roma, nell’ottobre 1215, per accompagnare il Vescovo Folchetto, che
doveva partecipare al Concilio Laterano IV, Domenico avanzò la proposta a Innocenzo
III di un nuovo ordine monastico e mendicante dedicato alla predicazione. Il
Papa l’approvò verbalmente, così come aveva fatto con san Francesco nel 1209.
Ma seguendo i canoni
conciliari, da lui stesso promulgati (Conc. Laterano IV can. 13), propose di
non fare una nuova regola, bensì prenderne una già approvata poiché i tempi
erano troppo travagliati per la Chiesa. Seguendo il consiglio, san Domenico con
i suoi sedici seguaci, scelse la Regola di Sant’Agostino, corredata da
Costituzioni idonee alla loro missione. «San Domenico fu un uomo di
preghiera. Innamorato di Dio, non ebbe altra aspirazione che la salvezza delle
anime, in particolare di quelle cadute nelle reti delle eresie del suo tempo;
imitatore di Cristo […] sotto la guida dello Spirito Santo, progredì sulla via
della perfezione cristiana. In ogni momento, la preghiera fu la forza che rinnovò
e rese più feconde le sue opere apostoliche», così affermò Benedetto XVI
nell’Udienza generale di cinque anni fa, tenuta a Castel Gandolfo (8 agosto
2012).
Chi, oggi, si
preoccupa con umiltà, serenità, santità delle anime «cadute nelle reti delle
eresie» del nostro tempo? Anche noi, vittime di una funesta carestia di
vita interiore e oranti con il Santo Rosario – insistentemente raccomandato
cento anni fa da Nostra Signora di Fatima – siamo mendichi, sull’esempio di san
Domenico e di san Francesco, della Divina Provvidenza.
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