sabato 30 dicembre 2017

“Io al Credo non ci credo”. E pure io!

Rilanciamo un contributo del nostro affezionato amico Francesco Parresio.
E poniamo una domanda: ma il sig. Fredo Olivero, che avrebbe dichiarato, in qualità di prete, durante la messa di Natale, di non credere alle verità del Credo e, perciò, di aver fatto pubblica professione di apostasia (e di rinnegamento, dunque, della declaratio da lui rilasciata allorché ricevette i Sacri Ordini), non sarebbe coerente che si dimettesse dallo stato clericale???? Che senso avrebbe vestire un abito se non si crede??? Non foss’altro perché – visto che con simili soggetti non sarebbe possibile richiamare argomenti di fede – egli percepirebbe (essendo parroco) un emolumento (con l’8x1000) anche per questo. Se fosse coerente – e lo sfidiamo in questo – dovrebbe dimettersi. Che senso ha fregiarsi dell’appellativo di ministro di Dio, se non crede a quel Dio? Se immaginasse che il ministero sacerdotale fosse una sorta un lavoro a metà strada tra l’operatore del sacro e l’operatore sociale, bene, possiamo tranquillizzarlo: potrebbe svolgere la sua attività “sociale” in qualche onlus, ma non certo continuando a vestire l’abito sacerdotale; abito nel quale non crederebbe più, poiché non crederebbe – l’ha detto lui stesso – alle principali verità della fede contenute nel Credo.
Il suddetto, del resto, non è nuovo a simili uscite: ricordiamo che tempo fa aveva dichiarato, in sostanza, di non credere al dogma della transustanziazione, tanto da spingersi a domandare che questa verità di fede fosse “riletta” in chiave spirituale (cfr. Don Fredo vuole rileggere il dogma della Transustanziazione, in Il bene vincerà, 20.6.2017).
Un atto di coerenza ed onestà intellettuale chiediamo.
Né più né meno.
Se poi egli non avesse questo coraggio – perché, sì, ci vuole coraggio ed onestà ad essere coerenti con le proprie convinzioni – per compiere questo passo, trovando accomodante, e forse conveniente, continuare a beneficiare di un abito nel quale non crede, beh … chiediamo al suo vescovo di intervenire.
Il suo vescovo – il quale, vogliamo sperare, abbia conservato almeno la fede nel Credo – non potrebbe far finta di nulla dinanzi ad una pubblica, quanto scandalosa, professione di apostasia, ma dovrebbe doverosamente prenderne atto ed assumere i provvedimenti del caso, avviando le debite procedure previste dalla legge canonica. Se non altro perché non si dica che, non intervenendo, anche lui, de facto, “non creda al Credo”.
Vedremo se l’onestà intellettuale e la coerenza sono ancora virtù (laiche) o se non lo sono più.

“Io al Credo non ci credo”. E pure io!

di Franco Parresio

“Io al Credo non ci credo” è la nuova professione di fede resa pubblicamente la notte di Natale da un prete torinese ai suoi fedeli, ai quali ha fatto cantare Dolce sentire al posto del Credo (cfr. Andrea Zambrano, Al Credo non ci credo: il prete ora è libero di non avere fede, in LNBQ, 30.12.2017).
Come dargli torto? Anch’io, come quel prete, “dopo tanti anni ho capito che [il Credo] era una cosa che non capivo e che non potevo accettare”… ma con argomentazioni ben diverse e diametralmente opposte alle sue. E non solo il Credo, ma anche tutti gli altri testi liturgici consegnatici in traduzione volgare (sotto tutti i punti di vista) dagli artefici della tanto decantata quanto deprecata “riforma liturgica”; artefici che hanno avuto finalmente ragione alle loro discutibilissime ragioni, grazie all’avallo ricevuto dall’attuale Vescovo di Roma, il quale, con definizione quasi ex cathedra, ha solennemente dichiarato: «Possiamo affermare con sicurezza e con autorità magisteriale che la riforma liturgica è irreversibile» (Discorso ai partecipanti alla LXVIII Settimana Liturgica Nazionale, 24.8.2017. Su questo discorso, v. il mio Magnum principium vs Summorum Pontificum?, qui). Sì… come il coma.
I testi liturgici a cui mi riferisco sono svariati; in modo particolare sono quelli che nella traduzione ufficiale in lingua italiana hanno subìto una sorta di rivoluzione copernicana al contrario: da essere teocentrici o cristocentrici (come nell’originale latino) sono divenuti antropocentrici; dove l’io e il noi acquistano un’importanza rilevante al punto da sminuire se non addirittura condizionare quella di Dio. E così si spiega anche il perché non ci si inginocchi più e non ci si batta più il petto durante la Messa (tanto non ce n’è più bisogno!), ma ci si affanni durante lo scambio della pace a salutare gli amici vicini e lontani sparsi nella chiesa.
A questo punto faccio io una proposta, valida non solo per la Messa del 31 dicembre ma anche per tutte le celebrazioni che lo richiedono: aboliamo il Te Deum, così insulso nella sua traduzione in italiano. Non si può affatto sentire quel “Noi ti lodiamo Dio, ti proclamiamo Signore”… come se la signoria di Dio dipendesse da noi. Poveri illusi!
E se quel prete ha fatto intonare il melenso e antidiluviano Dolce sentire al posto del Credo, io al posto del Te Deum farei eseguire, con chitarra e battito di mani, l’altrettanto melenso e antidiluviano Cristo non ha mani (qui): canzonette così care alla sua decadente generazione postsessantottina.
Buon anno.

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