Nella festa del grande epigrafista
e poeta San Damaso, papa e confessore, di cui fu segretario l’altrettanto
grande S. Girolamo al quale commissionò la traduzione latina – ufficiale –
della Bibbia, rilanciamo questo contributo.
Carlo Maderno, S. Damaso, 1612 circa, portico della Basilica di S. Pietro, Basilica di S. Pietro, Città del Vaticano, Roma |
Altare con urne dei santi Damaso ed Eutichio, Basilica di San Lorenzo in Damaso, Roma |
Francesco Botticini, S. Girolamo tra i SS. Damaso, Eusebio, Paola ed Eustochio, con i donatori (card. Pietro Rucellai e suo figlio), 1490, National gallery, Londra |
Pedro Augusto Gugliemi, Litografia di S. Damaso papa, 1840, Biblioteca Nacional de Portugal, Lisbona |
La questione della lingua nella
liturgia
Ricorre oggi la festa di Papa San
Damaso I (+384), che tra le molte sue opere vien ricordato per aver
commissionato a S. Girolamo una nuova traduzione ufficiale della Bibbia, e aver
disposto che la liturgia romana venisse officiata in latino, e non in greco
come avveniva in precedenza.
Si è recentemente svolto a
Venezia un convegno sulla questione della lingua nella liturgia, analizzata a
partire dalla cosiddetta disputa trilinguista, accaduta nel IX secolo proprio
nella città lagunare, ove alcuni ecclesiastici rimproverarono i Santi Cirillo e
Metodio di aver tradotto i testi liturgici in slavo, quando le uniche lingue
ammesse nelle cose sacre sarebbero state le tre del Titulus Crucis,
ovverosia l’ebraico, il greco e il latino. Tra gl’interventi, molto
interessante è stato quello di un sacerdote greco-ortodosso e professore, da
cui traggo lo spunto per la stesura di questo breve articolo.
Posto che Nostro Signore
Domineiddio comprende tutte le lingue, ci fu un motivo se per le cose sacre
ogni popolo scelse lingue che non erano di uso comune, varianti arcaiche e non
più comprese dal popolo. L’elenco seguente vuole presentare soltanto alcuni
esempi: il greco koinè per la Chiesa costantinopolitana, il
paleoslavo ecclesiastico per quella slava, il ge’ez per quella etiope, l’armeno
classico per quella armena, l’aramaico per la quella siriaca, il latino per la
Chiesa occidentale... persino le confessioni protestanti che mantengono in sé l’idea
di una “high church” (e cioè il luteranesimo classico e l’anglicanesimo
ufficiale, non influenzati dalle istanze riformate e di stampo carlostadiano)
usano una versione poetica e medievale della loro lingua per la liturgia. Ma
addirittura i pagani facevano uso di lingue antiche e incomprese dal popolo:
Quintiliano ci riferisce che nel I secolo d.C. i sacerdoti salii, durante le
processioni in onore di Marte e Quirino, cantavano degli stichi sacri, i
cosiddetti carmina saliaria, in un linguaggio talmente arcaico che nemmeno loro
stessi sapevano cosa stessero dicendo.
Molti Papi del XX secolo si sono
adoperati per difendere la purezza della lingua latina nella liturgia:
memorabile fu l’intervento di Pio XII durante un convegno, avendo ei detto che “sarebbe
tuttavia superfluo il ricordare ancora una volta che la Chiesa ha serie ragioni
per conservare fermamente nel rito latino”. Pio XI invece, nell’epistola apostolica Officiorum
omnium, scriveva che: “infatti la Chiesa, poiché tiene unite nel suo
amplesso tutte le genti e durerà fino alla consumazione dei secoli, richiede
per sua natura un linguaggio universale, immutabile, non volgare”. Persino Giovanni
XXIII con la costituzione Veterum sapientia ribadì vieppiù l’indispensabilità
del latino, la cui conservazione “non è solo una questione di cultura o di
lettere, ma propriamente una questione di Religione”. Uno dei motivi più
additati dai Pontefici, fu l’espressione dell’unione di tutta la Chiesa latina
alla sua origine romana, come testimoniarono S. Pio X e Leone XIII, così come
lo slavo ecclesiastico unisce tutte le chiese slave e quella greca tutte le
chiese che si riferiscono alla tradizione costantinopolitana.
In questa analisi bisogna stare
molto attenti, per non sfociare in un assurdo e antistorico romanocentrismo
tipico di una certa parte tradizionalista, a non considerare tutto in prospettiva
romana. La prima lingua usata nella liturgia fu il greco, anche a Roma. Dunque
è inutile invocare una predilezione divina per la lingua latina o cose del
genere che non farebbero che rendere antistorica e risibile una tesi del
genere, senza contare l’annoso problema d’incoerenza con il fatto che la Chiesa
Cattolica sempre ammise che le Chiese Orientali in comunione con essa (e
financo le compagini balcaniche di rito latino) utilizzassero la loro propria
lingua liturgica. L’analisi è invece molto semplice e definitiva: in qualsiasi
religione (meno che nell’irreligione, quella a cui cerca di avvicinarsi il
modernismo) esistono uno spazio sacro inviolabile, degli oggetti sacri
intoccabili. Così, esiste giocoforza una lingua sacra immutabile, che dovrà
conservarsi sempre tale, poiché espressione dell’immutabilità della Chiesa e
della liturgia; proprio come l’oggetto liturgico, che in sé non ha nessuna
elezione ab origine, ma viene costruito con una forma dignitosa e
immutabile per uno scopo alto e immutabile qual’è la Sacra Liturgia. I
caratteri di una lingua sacra vengono dunque ad essere: l’immutabilità (perché
sia espressione della continuità perenne della Chiesa e del rito), l’arcaicità
(perché sia distaccata dall’uso quotidiano), l’elevatezza (perché si adatti all’azione
più sacra di tutte, la liturgia).
Avendo già parlato dell’immutabilità,
vengo all’arcaicità. Ciò che rende gravemente errata l’analisi del Gueranger è
sostenere che le Chiese Orientali avessero preferito introdurre la lingua del
popolo, la quale poi si fossilizzò nella forma dell’epoca, “venendo a contatto
coi misteri dell’altare”. La cosa è necessariamente antistorica: anzitutto, la
prima lingua liturgica fu proprio orientale, ossia il greco; non già il greco
del I secolo d.C., però, ma una sua forma più pura, risalente al IV secolo
a.C., ricca peraltro di composti tipici della poesia epica, di certo non
parlata dalla gente comune a quel tempo. Il latino fu un’introduzione
successiva, ma comunque fu introdotto in una forma “classica” di quattro secoli
anteriore rispetto a quella in uso al tempo, una forma lontanissima dall’uso parlato
persino degli abitanti dell’Urbe. Stesso discorso può farsi per le altre lingue
liturgiche succitate, compreso lo slavo ecclesiastico, che ad oggi i linguisti
studiano accuratamente, dacché è formato un corpus di fonemi, lessemi e
strutture che si rifanno a una lingua “panslava” ben anteriore al IX secolo,
quasi sicuramente non più in uso tra il popolo in quegli anni.
Ma perché si rende necessario l’uso
di una lingua arcaica, incompresa? Lo si è già accennato, per mantenere il necessario
distacco tra il quotidiano e l’eterno, tra il contingente e il trascendente,
tra il profano e il sacro; la stessa separazione fisica che la balaustra e l’iconostasi
trasmettono, la trasmette l’uso della lingua antica. L’istanza che il popolo
capisca la liturgia, infatti, può essere eretica in due modi:
- gnostica, poiché ammette che l’esperienza
religiosa avviene solo attraverso la comprensione totale di essa, e dunque l’uomo,
insuperbito nelle sue potenzialità, diventa il vero attore della Religione
- protestante, poiché ammette che
lo scopo principale della liturgia sia la catechesi del popolo, quando sappiamo
che nella religione cattolica la Divina Liturgia è essenzialmente il Sacrificio
di Nostro Signore sul Calvario, e solo secondariamente si esercita il munus
docendi, la predicazione, che deve certo avvenire in lingua volgare, ma è
in sé nettamente separata e inferiore rispetto all’officio dei Sacri Misteri.
Ciò non significa che chiunque
voglia comprendere qualcosa della liturgia rischi di sfociare in una delle summenzionate
eresie: come noi possiamo sapere cosa fa il sacerdote dietro l’iconostasi, così
noi possiamo leggere dai messalini la traduzione della liturgia. Ma, pur
sapendo cosa stia facendo, noi non vediamo il sacerdote dietro l’iconostasi,
così come, pur sapendo cosa stia dicendo, non capiamo le sue parole. In ciò si
verifica mirabilmente e sensibilmente la distinzione invalicabile tra sacro e
profano.
Contraria a questo principio è
anche la lettura in lingua volgare di Epistola e Vangelo durante la Messa tradizionale
(anche dopo che siano stati cantati in latino), così come purtroppo sulla
scorta del Movimento Liturgico molti “tradizionalisti” oggi fanno. La Chiesa
Cattolica ha sempre riprovato e condannato come eretiche le proposizioni per
cui fosse doveroso da parte dei Cattolici il leggere le Sacre Scritture, l’averle
accessibili in lingua volgare, etc. Ciò non significa assoluta impossibilità di
leggere le Scritture, né di averle tradotte in lingua volgare, ma ne esclude
assolutamente l’uso durante la Sacra Liturgia, poiché sarebbe un accordo alle
tesi gianseniste, per le stesse questioni succitate. E a volte, in ciò, il popolo,
nato nella religione, risulta spontaneamente più fedele rispetto all’irreligione
modernista della gerarchia (che vorrebbe invece attribuire le sue riforme a
delle non meglio precisate istanze popolari): mi raccontarono che in una chiesa
ortodossa, dopo che il Vangelo fu letto in greco classico, il celebrante prese
a rileggerlo in greco moderno. Il popolo si sedette e i concelebranti
indossarono il copricapo, poiché spontaneamente essi non lo avvertivano come Vangelo,
dal momento che non veniva cantato nella lingua sacra.
Nonostante le molte cose che
dovrebbero essere dette a riguardo del punto superiore, non voglio allungare
eccessivamente quella che si propone di essere un’analisi sintetica, e passo
immediatamente a concludere col secondo punto: l’elevatezza. Si è detto che a
scopo altissimo deve corrispondere un linguaggio elevatissimo; e qui si viene a
un comportamento antitradizionale tipico di alcuni esponenti cattolici degli
anni ‘50, quello della “ritraduzione” in un latino più “classico e polito”
(come la Nova Vulgata di Bea). Essi non comprendevano la grande differenza tra
l’elevatezza dello stile tipica degli autori profani e pagani, ricercata
attraverso strutture sintattiche complesse e raffinate figure retoriche, e
quella tipica della Sacra Scrittura e dei testi liturgici, che invece è data
dall’incommensurabilità medesima dei misteri che da essi vengono trasmessi.
Non voglio nemmeno riflettere su
quale enorme tesoro è stato perduto dalla Chiesa Cattolica quando essa, nella
sua parte ufficiale, abbandonò de facto la lingua latina (pur
conservandola de jure), né su cosa sta rischiando l’Ortodossia greca
scadendo negli stessi errori modernisti e filogiansenisti. Voglio chiudere
citando due testi liturgici, in latino e greco, e lasciando che, assaporandone
l’elevatezza inarrivabile trasmessa dai mirabili misteri della fede che vengono
trattati, possiamo godere di quell’inestimabile patrimonio sacro trasmessoci
dai Padri e conservato purtroppo ormai solo da poche persone rimaste fedeli
alla Tradizione.
Deus, qui humánæ substántiæ
dignitátem mirabíliter condidísti, et mirabílius reformásti: da nobis per hujus
aquae et vini mystérium, eius divinitátis esse consórtes, qui humanitátis
nostrae fieri dignátus est párticeps, Jesus Christus Fílius tuus Dóminus
noster: Qui tecum vivit et regnat in unitáte Spíritus Sancti, Deus, per ómnia
saécula saeculórum. Amen.
(rito romano, formula di
benedizione dell’acqua da infondere nel vino)
Οἱ τὰ Χερουβεὶμ μυστικῶς εἰκονίζοντες, καὶ τῇ ζωοποιῷ Τριάδι τὸν τρισάγιον ὕμνον προσᾴδοντες, πᾶσαν τὴν βιωτικὴν ἀποθώμεθα μέριμναν, ὡς τὸν Βασιλέα τῶν ὅλων ὑποδεξόμενοι, ταῖς ἀγγελικαῖς ἀοράτως δορυφορούμενον τάξεσιν. Ἀλληλούϊα.
(rito greco, inno cherubico)
Nessun commento:
Posta un commento