lunedì 11 dicembre 2017

La questione della lingua nella liturgia

Nella festa del grande epigrafista e poeta San Damaso, papa e confessore, di cui fu segretario l’altrettanto grande S. Girolamo al quale commissionò la traduzione latina – ufficiale – della Bibbia, rilanciamo questo contributo.


Carlo Maderno, S. Damaso, 1612 circa, portico della Basilica di S. Pietro, Basilica di S. Pietro, Città del Vaticano, Roma

Altare con urne dei santi Damaso ed Eutichio, Basilica di San Lorenzo in Damaso, Roma

Francesco Botticini, S. Girolamo tra i SS. Damaso, Eusebio, Paola ed Eustochio, con i donatori (card. Pietro Rucellai e suo figlio), 1490, National gallery, Londra

Pedro Augusto Gugliemi, Litografia di S. Damaso papa, 1840, Biblioteca Nacional de Portugal, Lisbona

La questione della lingua nella liturgia

Ricorre oggi la festa di Papa San Damaso I (+384), che tra le molte sue opere vien ricordato per aver commissionato a S. Girolamo una nuova traduzione ufficiale della Bibbia, e aver disposto che la liturgia romana venisse officiata in latino, e non in greco come avveniva in precedenza.



Si è recentemente svolto a Venezia un convegno sulla questione della lingua nella liturgia, analizzata a partire dalla cosiddetta disputa trilinguista, accaduta nel IX secolo proprio nella città lagunare, ove alcuni ecclesiastici rimproverarono i Santi Cirillo e Metodio di aver tradotto i testi liturgici in slavo, quando le uniche lingue ammesse nelle cose sacre sarebbero state le tre del Titulus Crucis, ovverosia l’ebraico, il greco e il latino. Tra gl’interventi, molto interessante è stato quello di un sacerdote greco-ortodosso e professore, da cui traggo lo spunto per la stesura di questo breve articolo.
Posto che Nostro Signore Domineiddio comprende tutte le lingue, ci fu un motivo se per le cose sacre ogni popolo scelse lingue che non erano di uso comune, varianti arcaiche e non più comprese dal popolo. L’elenco seguente vuole presentare soltanto alcuni esempi: il greco koinè per la Chiesa costantinopolitana, il paleoslavo ecclesiastico per quella slava, il ge’ez per quella etiope, l’armeno classico per quella armena, l’aramaico per la quella siriaca, il latino per la Chiesa occidentale... persino le confessioni protestanti che mantengono in sé l’idea di una “high church” (e cioè il luteranesimo classico e l’anglicanesimo ufficiale, non influenzati dalle istanze riformate e di stampo carlostadiano) usano una versione poetica e medievale della loro lingua per la liturgia. Ma addirittura i pagani facevano uso di lingue antiche e incomprese dal popolo: Quintiliano ci riferisce che nel I secolo d.C. i sacerdoti salii, durante le processioni in onore di Marte e Quirino, cantavano degli stichi sacri, i cosiddetti carmina saliaria, in un linguaggio talmente arcaico che nemmeno loro stessi sapevano cosa stessero dicendo.
Molti Papi del XX secolo si sono adoperati per difendere la purezza della lingua latina nella liturgia: memorabile fu l’intervento di Pio XII durante un convegno, avendo ei detto che “sarebbe tuttavia superfluo il ricordare ancora una volta che la Chiesa ha serie ragioni per conservare fermamente nel rito latino”. Pio XI invece, nell’epistola apostolica Officiorum omnium, scriveva che: “infatti la Chiesa, poiché tiene unite nel suo amplesso tutte le genti e durerà fino alla consumazione dei secoli, richiede per sua natura un linguaggio universale, immutabile, non volgare”. Persino Giovanni XXIII con la costituzione Veterum sapientia ribadì vieppiù l’indispensabilità del latino, la cui conservazione “non è solo una questione di cultura o di lettere, ma propriamente una questione di Religione”. Uno dei motivi più additati dai Pontefici, fu l’espressione dell’unione di tutta la Chiesa latina alla sua origine romana, come testimoniarono S. Pio X e Leone XIII, così come lo slavo ecclesiastico unisce tutte le chiese slave e quella greca tutte le chiese che si riferiscono alla tradizione costantinopolitana.
In questa analisi bisogna stare molto attenti, per non sfociare in un assurdo e antistorico romanocentrismo tipico di una certa parte tradizionalista, a non considerare tutto in prospettiva romana. La prima lingua usata nella liturgia fu il greco, anche a Roma. Dunque è inutile invocare una predilezione divina per la lingua latina o cose del genere che non farebbero che rendere antistorica e risibile una tesi del genere, senza contare l’annoso problema d’incoerenza con il fatto che la Chiesa Cattolica sempre ammise che le Chiese Orientali in comunione con essa (e financo le compagini balcaniche di rito latino) utilizzassero la loro propria lingua liturgica. L’analisi è invece molto semplice e definitiva: in qualsiasi religione (meno che nell’irreligione, quella a cui cerca di avvicinarsi il modernismo) esistono uno spazio sacro inviolabile, degli oggetti sacri intoccabili. Così, esiste giocoforza una lingua sacra immutabile, che dovrà conservarsi sempre tale, poiché espressione dell’immutabilità della Chiesa e della liturgia; proprio come l’oggetto liturgico, che in sé non ha nessuna elezione ab origine, ma viene costruito con una forma dignitosa e immutabile per uno scopo alto e immutabile qual’è la Sacra Liturgia. I caratteri di una lingua sacra vengono dunque ad essere: l’immutabilità (perché sia espressione della continuità perenne della Chiesa e del rito), l’arcaicità (perché sia distaccata dall’uso quotidiano), l’elevatezza (perché si adatti all’azione più sacra di tutte, la liturgia).
Avendo già parlato dell’immutabilità, vengo all’arcaicità. Ciò che rende gravemente errata l’analisi del Gueranger è sostenere che le Chiese Orientali avessero preferito introdurre la lingua del popolo, la quale poi si fossilizzò nella forma dell’epoca, “venendo a contatto coi misteri dell’altare”. La cosa è necessariamente antistorica: anzitutto, la prima lingua liturgica fu proprio orientale, ossia il greco; non già il greco del I secolo d.C., però, ma una sua forma più pura, risalente al IV secolo a.C., ricca peraltro di composti tipici della poesia epica, di certo non parlata dalla gente comune a quel tempo. Il latino fu un’introduzione successiva, ma comunque fu introdotto in una forma “classica” di quattro secoli anteriore rispetto a quella in uso al tempo, una forma lontanissima dall’uso parlato persino degli abitanti dell’Urbe. Stesso discorso può farsi per le altre lingue liturgiche succitate, compreso lo slavo ecclesiastico, che ad oggi i linguisti studiano accuratamente, dacché è formato un corpus di fonemi, lessemi e strutture che si rifanno a una lingua “panslava” ben anteriore al IX secolo, quasi sicuramente non più in uso tra il popolo in quegli anni.
Ma perché si rende necessario l’uso di una lingua arcaica, incompresa? Lo si è già accennato, per mantenere il necessario distacco tra il quotidiano e l’eterno, tra il contingente e il trascendente, tra il profano e il sacro; la stessa separazione fisica che la balaustra e l’iconostasi trasmettono, la trasmette l’uso della lingua antica. L’istanza che il popolo capisca la liturgia, infatti, può essere eretica in due modi:
- gnostica, poiché ammette che l’esperienza religiosa avviene solo attraverso la comprensione totale di essa, e dunque l’uomo, insuperbito nelle sue potenzialità, diventa il vero attore della Religione
- protestante, poiché ammette che lo scopo principale della liturgia sia la catechesi del popolo, quando sappiamo che nella religione cattolica la Divina Liturgia è essenzialmente il Sacrificio di Nostro Signore sul Calvario, e solo secondariamente si esercita il munus docendi, la predicazione, che deve certo avvenire in lingua volgare, ma è in sé nettamente separata e inferiore rispetto all’officio dei Sacri Misteri.
Ciò non significa che chiunque voglia comprendere qualcosa della liturgia rischi di sfociare in una delle summenzionate eresie: come noi possiamo sapere cosa fa il sacerdote dietro l’iconostasi, così noi possiamo leggere dai messalini la traduzione della liturgia. Ma, pur sapendo cosa stia facendo, noi non vediamo il sacerdote dietro l’iconostasi, così come, pur sapendo cosa stia dicendo, non capiamo le sue parole. In ciò si verifica mirabilmente e sensibilmente la distinzione invalicabile tra sacro e profano.
Contraria a questo principio è anche la lettura in lingua volgare di Epistola e Vangelo durante la Messa tradizionale (anche dopo che siano stati cantati in latino), così come purtroppo sulla scorta del Movimento Liturgico molti “tradizionalisti” oggi fanno. La Chiesa Cattolica ha sempre riprovato e condannato come eretiche le proposizioni per cui fosse doveroso da parte dei Cattolici il leggere le Sacre Scritture, l’averle accessibili in lingua volgare, etc. Ciò non significa assoluta impossibilità di leggere le Scritture, né di averle tradotte in lingua volgare, ma ne esclude assolutamente l’uso durante la Sacra Liturgia, poiché sarebbe un accordo alle tesi gianseniste, per le stesse questioni succitate. E a volte, in ciò, il popolo, nato nella religione, risulta spontaneamente più fedele rispetto all’irreligione modernista della gerarchia (che vorrebbe invece attribuire le sue riforme a delle non meglio precisate istanze popolari): mi raccontarono che in una chiesa ortodossa, dopo che il Vangelo fu letto in greco classico, il celebrante prese a rileggerlo in greco moderno. Il popolo si sedette e i concelebranti indossarono il copricapo, poiché spontaneamente essi non lo avvertivano come Vangelo, dal momento che non veniva cantato nella lingua sacra.
Nonostante le molte cose che dovrebbero essere dette a riguardo del punto superiore, non voglio allungare eccessivamente quella che si propone di essere un’analisi sintetica, e passo immediatamente a concludere col secondo punto: l’elevatezza. Si è detto che a scopo altissimo deve corrispondere un linguaggio elevatissimo; e qui si viene a un comportamento antitradizionale tipico di alcuni esponenti cattolici degli anni ‘50, quello della “ritraduzione” in un latino più “classico e polito” (come la Nova Vulgata di Bea). Essi non comprendevano la grande differenza tra l’elevatezza dello stile tipica degli autori profani e pagani, ricercata attraverso strutture sintattiche complesse e raffinate figure retoriche, e quella tipica della Sacra Scrittura e dei testi liturgici, che invece è data dall’incommensurabilità medesima dei misteri che da essi vengono trasmessi.
Non voglio nemmeno riflettere su quale enorme tesoro è stato perduto dalla Chiesa Cattolica quando essa, nella sua parte ufficiale, abbandonò de facto la lingua latina (pur conservandola de jure), né su cosa sta rischiando l’Ortodossia greca scadendo negli stessi errori modernisti e filogiansenisti. Voglio chiudere citando due testi liturgici, in latino e greco, e lasciando che, assaporandone l’elevatezza inarrivabile trasmessa dai mirabili misteri della fede che vengono trattati, possiamo godere di quell’inestimabile patrimonio sacro trasmessoci dai Padri e conservato purtroppo ormai solo da poche persone rimaste fedeli alla Tradizione.

Deus, qui humánæ substántiæ dignitátem mirabíliter condidísti, et mirabílius reformásti: da nobis per hujus aquae et vini mystérium, eius divinitátis esse consórtes, qui humanitátis nostrae fieri dignátus est párticeps, Jesus Christus Fílius tuus Dóminus noster: Qui tecum vivit et regnat in unitáte Spíritus Sancti, Deus, per ómnia saécula saeculórum. Amen.
(rito romano, formula di benedizione dell’acqua da infondere nel vino)

Οἱ τὰ Χερουβεὶμ μυστικῶς εἰκονίζοντες, καὶ τῇ ζωοποιῷ Τριάδι τὸν τρισάγιον ὕμνον προσᾴδοντες, πᾶσαν τὴν βιωτικὴν ἀποθώμεθα μέριμναν, ὡς τὸν Βασιλέα τῶν ὅλων ὑποδεξόμενοι, ταῖς ἀγγελικαῖς ἀοράτως δορυφορούμενον τάξεσιν. Ἀλληλούϊα.
(rito greco, inno cherubico)

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