Sante Messe in rito antico in Puglia

mercoledì 31 gennaio 2018

«Non abbandonarci alla tentazione»: indicazioni e controindicazioni, posologia e modalità d’uso della nuova supposta teologia liturgica

Dopo il contributo di Augustinus sul tema del “non indurci in tentazione” pubblicato nei giorni scorsi su questo blog (v. qui), ecco un godibile breve saggio, oggi, festa di S. Giovanni Bosco, del nostro amico Franco Parresio.




«Non abbandonarci alla tentazione»: indicazioni e controindicazioni, posologia e modalità d’uso della nuova supposta teologia liturgica

di Franco Parresio

È ormai ufficiale: a fine anno cambierà nelle chiese italiane la recita del Padre nostro: da dire «E non ci indurre in tentazione», si dovrà dire: «E non abbandonarci alla tentazione» (vqui).
Si tratta di una reinvenzione – frutto della traduzione pedestre approvata nel 2008 dalla CEI – del tutto erronea e fuorviante, nonché blasfema della preghiera per antonomasia del cristiano.
Se per Jean Carmignac (ormai da tempo defunto) «“Non ci indurre in tentazione” è un’affermazione blasfema» (v. qui), ancor più blasfema suona l’affermazione «Non abbandonarci alla tentazione»! Blasfema perché imputa a Dio la colpa dei nostri fallimenti. Esattamente come Adamo, che si schernisce rinfacciando a Dio: «La donna che tu mi hai posta accanto mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato» (Gn 3,12).
Se Gesù, nostro Signore e Maestro, ci fa dire: «E non ci indurre in tentazione (et ne nos inducas in tentationem)» (Mt 6,13) è perché sa benissimo – Egli che pure «fu condotto dallo Spirito nel deserto per esser tentato dal diavolo (ductus est in desertum a Spiritu, ut tentaretur a diabolo)» (Mt 4,1) – il peso schiacciante della tentazione, onde, per non entrare in essa e cadervi, raccomanda di vegliare e pregare (Cfr. Mt 26,41; Mc 14,38; Lc 22,40; Lc 22,46); confortati dall’apostolo Paolo che rassicura: «Nessuna tentazione vi ha finora sorpresi se non umana; infatti Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione vi darà anche la via d’uscita e la forza per sopportarla» (1Cor 10,13).
Si capisce, allora, bene – e senza strumentalizzazioni semantiche di carattere biblico-teologico, che farebbero rivoltare nella tomba lo stesso card. Martini – l’esortazione dall’apostolo Giacomo quando scrive: «Beato l’uomo che sopporta la tentazione, perché una volta superata la prova riceverà la corona della vita che il Signore ha promesso a quelli che lo amano. Nessuno, quando è tentato, dica: “Sono tentato da Dio”; perché Dio non può essere tentato dal male e non tenta nessuno al male. Ciascuno piuttosto è tentato dalla propria concupiscenza che lo attrae e lo seduce; poi la concupiscenza concepisce e genera il peccato, e il peccato, quand’è consumato, produce la morte» (Gc 1,12-15).
Da notare, poi, che la stessa Bibbia CEI 2008 si è guardata bene dal modificare il passo di Matteo 4,1 traducendo: «Allora Gesù fu abbandonato dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo», giacché vi fu condotto, per essere «provato in ogni cosa, a somiglianza di noi, escluso il peccato» (Eb 4,15). E questo in linea col principio evangelico secondo il quale «il discepolo non è da più del maestro; ma ognuno ben preparato sarà come il suo maestro» (Gv 6,40). E quale preparazione meglio della tentazione? «Figlio, se ti presenti per servire il Signore, prepàrati alla tentazione» (Sir 2,1).
Ma tutto questo evidentemente non interessa ai lodatori della Chiesa in uscita, pronti a somministrarci questa nuova supposta teologia liturgica postconciliare (supposta in tutti i sensi), che finalmente può cantare vittoria facendo propria La rivoluzione di Mogol (1967): «E son bastati pochi anni, soltanto poche ore per fare un mondo migliore; un mondo dove tutti saranno perdonati; chi ha vinto e chi ha perduto vedrai si abbraccerà» (ascolta qui).
Infatti, visto e considerato «con sicurezza e con autorità magisteriale che la riforma liturgica è irreversibile», secondo il diktat bergogliano (si noti che in latino “irreversibile” si traduce “letalis”), si potranno ad arte eludere nelle celebrazioni eucaristiche, e ove previsti, i riti penitenziali. Tanto a che servono?! E così anche si potrà eludere il can. 989 che prescrive: «Ogni fedele, raggiunta l’età della discrezione, è tenuto all’obbligo di confessare fedelmente i propri peccati gravi, almeno una volta nell’anno». Che peccati gravi da confessare se Dio abbandona alla tentazione?
Ma come difendersi da questi inevitabili effetti collaterali e/o indesiderati della nuova supposta e supponente teologia liturgica?
Qualcuno già pensa di disertare la nuova Messa. Sbagliato! Basta leggere attentamente il foglietto illustrativo, cioè i documenti magisteriali ad hoc, per agire di conseguenza. Nella fattispecie consigliamo la Mediator Dei, l’Enciclica di Pio XII sulla Sacra Liturgia, che da poco ha compiuto settant’anni (portati benissimo), la quale, parlando della “partecipazione dei fedeli”, se da una parte vuole «che tutti i fedeli considerino loro principale dovere e somma dignità partecipare al Sacrificio Eucaristico non con un’assistenza passiva, negligente e distratta, ma con tale impegno e fervore da porsi in intimo contatto col Sommo Sacerdote […]: quando, cioè, tutto il popolo, secondo le norme rituali, o risponde disciplinatamente alle parole del sacerdote, o esegue canti corrispondenti alle varie parti del Sacrificio, o fa l’una e l’altra cosa», dall’altra riconosce che «l’ingegno, il carattere e l’indole degli uomini sono così vari e dissimili che non tutti possono ugualmente essere impressionati e guidati da preghiere, da canti o da azioni sacre compiute in comune. I bisogni, inoltre, e le disposizioni delle anime non sono uguali in tutti, né restano sempre gli stessi nei singoli. Chi, dunque, potrà dire, spinto da un tale preconcetto, che tanti cristiani non possono partecipare al Sacrificio Eucaristico e goderne i benefici? Questi possono certamente farlo in altra maniera che ad alcuni riesce più facile; come, per esempio, meditando piamente i misteri di Gesù Cristo, o compiendo esercizi di pietà e facendo altre preghiere che, pur differenti nella forma dai sacri riti, ad essi tuttavia corrispondono per la loro natura».
Faccio notare che per la Mediator Dei questo principio vale non solo per il “Messale Romano” scritto in lingua latina: vale per «il “Messale Romano” anche se è scritto in lingua volgare»!
E questo dovendo stringere gli occhi e bere aceto dinanzi alla distruzione di Messa in forma ordinaria e… volgare, non potendo accedere alla boicottata Messa celebrata in forma straordinaria e davvero “Santa”.

martedì 30 gennaio 2018

Sull'uso delle "chierichette" in un aforisma di Benedetto XIV Lambertini


Cfr. Benedetto XIV, enc. Allatae sunt, 26 luglio 1755

Feria III post Septuagesimam : Orationis D.N.J.C. in horto. Un aforisma dell'abate Ricciotti


Cfr. Martedì di Settuagesima : L'ORAZIONE DI NOSTRO SIGNORE GESÙ CRISTO NELL'ORTO DEGLI ULIVI, in blog Tradidi quod et accepi, 30.1.2018

Contro i rumors della neo-chiesa sulla proposta di abolizione del celibato ecclesiastico un aforisma del papa Benedetto XV


Fonte: Benedetto XV, Ep. Cum in Catholicae, 29 gennaio 1920

Cfr. A. Tornielli, Stella: “Allo studio l’ipotesi di ordinare preti degli anziani sposati”, in Vatican Insider, 22.1.2018; Fra Cristoforo, Spunto di Riflessione: finalmente si scoprono le carte – la commissione di studio per i preti sposati esiste ed è al lavoro. Parola del Cardinale Prefetto del Clero, in Anonimi della Croce, 22.1.2018; M. Hickson, Cardinal Prefect of Congregation for Clergy Promotes Possibility of Married Priesthood, in Onepeterfive, Jan. 24, 2018.

sabato 27 gennaio 2018

Il rito di sepoltura dell'Alleluja all'inizio del periodo di settuagesima

Ai Vespri della domenica di Septuagesima, avveniva in antico un rituale speciale, specialmente nell’Europa continentale, noto come Funerale dell’Alleluia. In pratica, giacché nel Rito Latino dal Mercoledì delle Ceneri in poi fino a Pasqua non si canta più l’Alleluia, né si recita dopo i salmi, veniva commemorata la “morte” dell’Alleluia fino al suo ritorno, connesso alla Pasqua di Cristo. Il rito del Funerale dell’Alleluia è spiegato bene in un manuale liturgico del XV secolo, rinvenuto a Toul, in Francia:
«Il Sabato precedente la Domenica di Septuagesima, tutti i coristi si recano in sagrestia durante la recita dell’Ora Nona, a prepararsi per il Funerale dell’Alleluia. Dopo l’ultimo Benedicamus Domino [Alla fine dei Vespri] essi in processione, recando seco la Croce su asta e l’incensiere fumante, conducono un catafalco sul quale è adagiato uno stendardo con scritto “Alleluia”, e svolgono una processione cantando, finché non raggiungono il chiostro: lì depongono il catafalco nella terra, lo benedicono con l’acqua santa e lo incensano, e dopo se ne ritornano in sagrestia per la medesima maniera».
Alessandro II, pontefice dal 1015, ordinò che questo rito fosse eseguito con ogni onore, e ne è rimasta traccia fino all’epoca di Trento. I coristi cantavano un inno speciale durante il tragitto del “feretro” dell’Alleluia, e per l’occasione ne furono scritti davvero tanti. Il più famoso è un inno di un Anonimo del X secolo (900 d.C. circa): 

Alleluia, inno di letizia, voce di gioia che non può morire,
Alleluia, grido mai silente negli Eccelsi,
Coloro che abitano nella casa di Dio ti cantano senza posa.

Alleluia, tu risuoni, vera e libera Gerusalemme:
Alleluia, madre gioiosa, tutti i tuoi figli cantano con te, 
Ma dalle tristi acque di Babilonia a lutto noi ci troviamo.

Non meritiamo più di cantare: Alleluia,
Alleluia, cancella le nostre trasgressioni,
Perché il santo tempo ci conduce a piangere i nostri peccati.

Per questo con inni ti preghiamo,
o Santissima Trinità e donaci di portare a casa la tua Pasqua dal tuo Cielo,
E là con te canteremo per sempre, Alleluia.

In alcuni luoghi, la deposizione della bara con l’Alleluia veniva fatta in forma di Epitaffio, e la tela veniva portata sotto l’Altare, dalla quale poi veniva mostrata al termine dei Vespri di Pasqua, la sera del Sabato Santo.




Fonte: Cristianità ortodossa, 11.2.2017
Cfr. anche Septuagesima Sunday signals the springtime, in Communio, Jan. 27, 2013; The Burial of the Alleluia, in St John Cantius parishLe samedi avant le dimanche de la Septuagésime : suspension de l’Alléluia, in Le blogue du Maître-Chat Lully, 26.1.2013Burial of the Alleluia, in New Liturgical Movement.



«Non ci indurre in tentazione»: un problema per la neo-chiesa

Già Bergoglio, parlando in una trasmissione – che ha fatto flop in tutti i sensi, venendo seguita letteralmente solo da quattro gatti (vqui. Cfr. G. ScaleseUn motivo ci deve essere, in Antiquo robore, 11.1.2018)  – dedicata alla preghiera del “Padre nostro”, aveva avuto da ridire sull’espressione «non ci indurre in tentazione», affermando che, secondo lui, la traduzione sarebbe errata (vqui. Cfr. G.G. VecchiPapa Francesco «corregge» il Padre nostro: «Dio non ci induce in tentazione, la traduzione è sbagliata», in Corriere della sera, 6.12.2017Il Papa "corregge" il Padre Nostro: «Non ci indurre in tentazione? La traduzione è sbagliata», in Il messaggero, 6.12.2017), manifestando che le traduzioni liturgiche fossero …. alterate …. ops … modificate volevamo dire (cfr. Fra CristoforoBergoglio cambierà il Padre Nostro. Ovviamente con la traduzione sbagliata, in Anonimi della Croce, 6.12.2017. Per una ricostruzione della vicenda, Finan Di LindisfarneUn enigma per tutti i lettori: la questione del Padre Nostro lanciata dagli Anonimi della Croce e tre settimane dopo l’affermazione di Papa Bergoglio…un caso?ivi, 9.12.2017).
Subito, la serva sciocca della CEI, completamente asservita al padrone mondano di turno, si è adoperata per questa modifica, adattando il testo liturgico a quello della traduzione del 2008, dove il «non ci indurre» sarebbe reso «non ci abbandonare». Lo ha annunciato giorni fa Galantino (J. ScaramuzziGalantino: “Anche a messa la nuova traduzione del Padre Nostro”, in Vatican Insider, 25.1.2018). Anzi, molti la danno per sicura per la fine di quest’anno 2018, giacché al tema sarà dedicata un’apposita assemblea straordinaria dei vescovi nel novembre di quest’anno (cfr. G.G. Vecchi«E non abbandonarci alla tentazione» La traduzione del Padre Nostro nelle chiese italiane cambia a fine anno, in Corriere della sera, 25.1.2018). Evidentemente, ironizza il giornalista Marco Tosatti, per giustificare questa modifica, che non è traduzione, ma tradimento del testo, deve essere stato scoperto – e sino ad oggi tenuto nascosto – qualche frammento del testo del Pater risalente al I sec. d.C., perché, diversamente, saremmo di fronte ad una plateale alterazione del testo biblico e liturgico (v. M. TosattiIl Padre Nostro sarà modificato e zuccherato. Trovato un frammento del I secolo d.C. con la nuova versione? Purtroppo no, in Stilum Curiae, 26.1.2018, nonché in Riscossa cristiana, 26.1.2018).
Da un punto di vista linguistico quale sarebbe la traduzione più fedele?
Spiega l’autore noto come Fra Cristoforo: «Prendiamo dunque il versetto in questione dal testo originale greco: “κα μ εσενέγκς μς ες πειρασμόν”. La parola di interesse è “εἰσενέγκῃς” (eisenekes), che per secoli è stata tradotta con “indurre”, ed invece nella nuova traduzione vediamo “non abbandonarci” (come i cavoli a merenda). Il verbo greco “eisenekes” è l’aoristo infinito di “eispherein” composto dalla particella avverbiale eis (‘in, verso’, indicante cioè un movimento in una certa direzione) e da phérein (‘portare’) chesignifica esattamente ‘portar verso’, ‘portar dentro’. Per di più, è legato al sostantivo peirasmón (‘prova, tentazione’) mediante un nuovo eis, che non è se non il termine già visto, usato però qui come preposizione.
Tale preposizione regge naturalmente l’accusativo, caso di per sé caratterizzante il “complemento” di moto a luogo. Anzi, a differenza di quanto accade ad esempio in latino e in tedesco con la preposizione ineis può reggere solo l’accusativo. Come si vede, dunque, il costrutto greco presenta una chiara “ridondanza”, ossia sottolinea ripetutamente il movimento che alla tentazione conduce, per cui è evidentemente fuori luogo ogni traduzione – tipo “non abbandonarci nella tentazione” – che faccia invece pensare a un processo essenzialmente statico.
Il latino “inducere”, molto opportunamente usato da san Girolamo nella Vulgata (traduzione della Bibbia dall’ebraico e greco al latino fatta da Girolamo nel IV secolo), essendo composto da ‘in’ (‘dentro, verso’) e ‘ducere’ (‘condurre, portare’), corrisponde puntualmente al greco eisphérein; e naturalmente è seguito da un altro in (questa volta preposizione) e dall’accusativo temptationem, con strettissima analogia quindi rispetto al costrutto greco.
Quanto poi all’italiano indurre in, esso riproduce esattamente la costruzione del verbo latino da cui deriva e a cui equivale sotto il profilo semantico.
Dunque la traduzione più giusta, che rimane fedele al testo è quella che è sempre stata: “non ci indurre in tentazione”. Ogni altra traduzione è fuorviante, e oserei dire anche grottesca» (Fra CristoforoIl caso della scandalosa nuova traduzione del Padre Nostro nella Bibbia CEI. Completamente errata. Vi spiego perché – Appunti per chi fa le ore piccole, in Anonimi della Croce, 14.11.2017).
Da un punto di vista semantico, dunque, il “non ci indurre” è la traduzione più fedele. Per la verità, c’è chi ha avanzato che l’espressione, nell’originale semitico/aramaico, pronunciato da Gesù, avrebbe un diverso significato (cfr. G. Pulcinelli“Non ci indurre in tentazione”, il vero significato, in Famiglia cristiana, 13.9.2017; Gelsomino Del Guercio, Quando recitiamo il Padre Nostro cosa vuol dire “non ci indurre in tentazione”?, in Aleteia, 14.9.2017). Altri, in maniera più onesta, riconducono l’idea del “non abbandonarci” più che ad una lettura letterale, quanto piuttosto interpretativa e catechetica, concludendo che sarebbe preferibile, liturgicamente, non far uso di siffatte chiavi ermeneutiche, ma di mantenersi fedeli al testo letterale (cfr. S. TarocchiLa traduzione del «Padre nostro»: qual è quella più corretta?, in Toscana Oggi, 4.6.2014). L’Aquinate, del resto, commentando giusto il Pater, osservava «Dio induce al male nel senso che lo permette, in quanto, cioè, a causa dei suoi molti peccati precedenti, sottrae all’uomo la sua grazia, tolta la quale, egli scivola nel peccato» (cfr. G. ZorodduSan Tommaso ci spiega il “non ci indurre in tentazione”, in Radiospada, 10.12.2017). S. Agostino d’Ippona, inoltre, ricordava che una cosa è essere indotti in tentazione altra è tentare, concludendo che «avvengono dunque le tentazioni ad opera di Satana, non per un suo potere, ma col permesso del Signore per punire gli uomini dei loro peccati o per provarli e addestrarli in riferimento alla bontà di Dio» (Id., “Una cosa è essere indotto in tentazione e un’altra essere tentati” (S. Agostino)ivi). In senso non dissimile si era espresso pure il catechismo tridentino di S. Pio V, allorché spiegava che «essere indotti in tentazione significa soccombere alla tentazione» (Id., Il falso problema della traduzione del Pater, ivi, 8.12.2017).
è significativo notare che né Lutero né la Bibbia di Re Giacomo avevano dubbi sulla traduzione, traducendo correttamente “non ci indurre in tentazione”: «führe uns nicht in Versuchung», «Lead us not into temptation». E persino un modernista, sebbene raffinato e colto, come il card. Martini, commentando quest’invocazione del Pater, rammentava: «è chiaro che il “non ci indurre” non vuol dire che Dio tenta al male, ma che permette la tentazione come parte della nostra esperienza, che in qualche modo ci è necessaria per crescere nella fede, speranza e carità. Naturalmente è una trappola in cui il tentatore satana fa di tutto per farci cadere. E noi chiediamo di essere liberati da questa trappola, che è realissima e pericolosa, anche se ci passiamo a fianco, se cerchiamo di evitarla» (C. M. MartiniNon sprecate parole. Esercizi spirituali con il Padre nostroV Meditazione).
Tuttavia, ai di là del significato filologico e teologico, verrebbe da chiedersi: possibile che in duemila anni nessuno abbia voluto adoperare la traduzione/tradimento auspicata da Bergoglio e oggi dalla CEI anche per uso liturgico? D’accordo che è adoperata già in alcune lingue nazionali, come il francese. Resta il fatto che non si è compreso, a nostro avviso, il vero significato, preferendogli attribuire un senso politicamente corretto … .
Spiega Fra Cristoforo: «molti si sono chiesti: Come può Dio “indurre” in tentazione? Ci sono tantissimi passi biblici che dimostrano come Dio induce alla tentazione e alla prova. Non ci si può scandalizzare, pensando sempre che Dio abbia solo la “mielosa misericordia” (oggi molto di moda nella neochiesa), trascurando la Croce, la prova e la tentazione. Ricordate Genesi 22 quando il Signore chiede ad Abramo il sacrificio del figlio Isacco? E’ vero. Appena vide la sua fedeltà l’angelo fermò la mano di Abramo. Ma provate a pensare lo stato d’animo di questo patriarca, mentre saliva sul monte Moria per uccidere suo figlio in obbedienza a Dio; mi viene in mente anche Esodo 4,24 dove si dice che il Signore, mentre Mosè tornava in Egitto dopo la sua fuga “gli venne contro e cercò di farlo morire”; oppure il capitolo 1 del libro di Giobbe, dove si legge a chiare lettere che Dio da il permesso a satana di tentarlo e provarlo. O ancora nel Nuovo Testamento dove si dice che Gesù “fu condotto dallo Spirito nel deserto per essere tentato dal diavolo” (Mt 4,1), e appare chiaro che è lo Spirito Santo che conduce Gesù nel deserto per subire la prova della “tentazione”. E anche San Paolo in 2 Cor 12,7 dice: “Perché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un inviato di satana incaricato di schiaffeggiarmi, perché io non vada in superbia”. La Scrittura è piena zeppa di citazioni simili. Dio ti mette nella prova, anche quando questa prova è una “tentazione”. Ecco allora il vero senso del versetto “non ci indurre in tentazione”. E’ la preghiera al Padre, di noi figli, che chiediamo di essere risparmiati dalla “tentazione”, di uscirne indenni, come i tre giovani nella fornace (Daniele 3).
Del resto se vogliamo seguire il Signore in modo autentico il Siracide 2 ci dice: “Figlio, se ti presenti per servire il Signore, preparati alla tentazione”» (Fra CristoforoIl caso della scandalosa nuova traduzione del Padre Nostro nella Bibbia CEI, cit.).
Il vero significato, dunque, di quell’invocazione contenuta nel Pater non è quello di Dio che tenta, ma quello di Dio che mette alla prova, anche quando questa prova è la tentazione. Forse la migliore spiegazione di quel versetto la diede Dio stesso all’anacoreta S. Antonio abate, lungamente tentato dal diavolo. S. Atanasio nella Vita Antonii così riferisce le parole del Signore dinanzi ad Antonio che gli chiedeva ragione perché non fosse intervenuto prima, sin dall’inizio, per porre fine alle sue sofferenze e tentazioni: «Antonio, ero là! Ma aspettavo per vederti combattere; poiché hai resistito e non ti sei lasciato vincere, sarò sempre il tuo aiuto e farò sì che il tuo nome venga ricordato ovunque» (Atanasio di AlessandriaVita di Antonio, Paoline, 2007, pp. 96-97. Cfr. R. BarilePadre Nostro, una traduzione, tanti significati, in LNBQ, 7.12.2017, nonché in Il Timone, 7.12.2017).

Augustinus Hipponensis

giovedì 25 gennaio 2018

Alla Madonna di Pompei per la conversione degli Eretici, degli Scismatici, degli Ebrei e degli Infedeli

A conclusione dell’Ottavario di preghiera per il ritorno dei dissidenti alla Catholica, pubblichiamo questa preghiera alla Vergine Regina di Pompei, riportando in fondo alcuni link sul tema del vero senso di questo Ottavario, ben diverso da quello sedicente attuale e modernista di “preghiera per l’unità dei cristiani”. Incidentalmente va infatti notato che i veri cristiani sono già “uniti”: lo si afferma nel Credo allorché si qualifica la Chiesa come “Una (cioè unita!), santa, cattolica”. Del resto, la preghiera del Signore Ut unum sint non poteva non avere immediato effetto. La preghiera del Signore Gesù produce immediatamente l’effetto; non è un mero auspicio, come vorrebbero i modernisti!


Alla Madonna di Pompei per la conversione degli Eretici, degli Scismatici, degli Ebrei e degli Infedeli


La storia della devozione alla Vergine di Pompei è storia di conversione: la conversione di Bartolo Longo da satanista ad Apostolo del Rosario , la conversione della valle di Pompei da luogo di morte fisica e morale a cittadella di rifugio e di salvezza per l’anima e per il corpo. Dal magnifico tempio eretto per le offerte di tutto il mondo cattolico per custodire la Miracolosa Effigie della Regina del Rosario, sarebbe partita la riconquista del mondo tutto infeudato dalle sette segrete e avvelenato dagli errori dei protestanti e degli increduli. Maria, distruggitrice di tutte le eresie sempre presiede a questa santa crociata per il trionfo della Fede Cattolica. 

O clementissima Regina del Rosario di Pompei, Tu, Sede di Sapienza, hai posto un Trono di misericordie nuove sulla terra che fu del paganesimo per trarre tutti i popoli a salvamento con la Corona delle tue mistiche rose: deh! ricordati che il tuo divin Figliuolo ci lasciò detto: Io ho altre pecorelle, le quali non sono di questo ovile; ed anche quelle è uopo che io raduni, ed esse udiranno la voce mia, e vi sarà un ovile solo ed un solo pastore. Ma ricordati pure che sul Calvario divenisti la Corredentrice, cooperando, per la crocifissione del tuo cuore, alla salvezza del mondo insieme col tuo Figliuolo crocifisso; e da quel giorno divenisti la Riparatrice del genere umano, il Rifugio dei peccatori e la Madre di tutti gli uomini. Guarda, o Madre, quante anime ogni ora vanno eternamente perdute! Guarda quanti milioni d'Indiani, di Cinesi e genti di barbare regioni non conoscono ancora Gesù Cristo! Vedi quanti altri che son pure cristiani, e sono nondimeno lontani dal seno della Madre Chiesa che è la Cattolica, Apostolica, Romana. O Mediatrice potentissima Maria, Avvocata del genere umano, amantissima di noi mortali e Vita del nostro cuore, Vergine benedetta del Rosario di Pompei, esaudisci le nostre preghiere: non vada perduto per tanto numero di anime il Sangue prezioso e il frutto della Redenzione. Dal tuo eletto trono di Pompei, ove non fai altro che dispensar grazie all'afflitta gente, deh! fa spiccare un raggio di quella luce celeste che stenebri tanti ciechi intelletti, e riscaldi tanti gelidi cuori. Intercedi presso il tuo divin Figliuolo, ed ottieni che quanti sono in questo mondo sono Pagani, Ebrei, Eretici e Scismatici ricevano la luce superna, e lieti entrino nel seno della vera Chiesa. Esaudisci la preghiera che a Te rivolge fidente il Sommo Pontefice, acciocché tutti i popoli congiunti nell'unito della fede, conoscano ed amino Gesù Cristo, il benedetto frutto del seno tuo, che vive e regna nei secoli col Padre e con lo Spirito Santo. Ed allora tutti gli uomini ameranno anche Te, salute del mondo, arbitra dispensatrice dei tesori di Dio e Regina di misericordie nella Valle di Pompei. E glorificando Te, Regina delle Vittorie, che col Rosario disperdi ogni eresia, riconosceranno che a tutte le genti Tu dai la Vita, perché è d'uopo che si adempia la profezia del Vangelo: Tutte le genti mi chiameranno beata.

Salve Regina


Cfr. Per la conversione dei non cattolici e dei non cristiani, ivi, 25.1.2018; Per l’unione dei Cristiani d’Oriente alla Chiesa Romana, ivi, 24.1.2018; 18-25 gennaio: Preci per il ritorno dei dissidenti alla Chiesa Romana, ivi, 15.1.2018; Ottavario di preghiera per la conversione dei non cattolici, in Radiospada, 18.1.2017.

Benvenuto Tisi detto il Garofolo, Allegoria dell'Antico e Nuovo Testamento con il trionfo della Chiesa sulla Sinagoga, 1523, Palazzo dei Diamanti, Ferrara

Benvenuto Tisi detto il Garofolo, Allegoria dell'Antico e Nuovo Testamento con il trionfo della Chiesa sulla Sinagoga, Hermitage, San Pietroburgo

Per non dimenticare i misfatti degli eretici ..... Un'immagine per meditare

Contributo alla sedicente "settimana dell'unità dei cristiani". I 19 Santi Martiri di Gorcum uccisi dagli eretici.


Come ci ricorda un nostro amico. San Pietro Martire - così come san Pietro de Arbues (1441-1485), san Fedele da Sigmaringen (1577-1622), san Giosafat Kuncewyc (1580-1623), sant’Andrea Bobola (1591-657) che pure furono immolati dagli eretici e dagli scismatici - ci rammenta che nel rapporto e nel dialogo tra i veri Cristiani (i Cattolici Romani) e gli eretici (Foziani, Protestanti, e compagnia brutta) le cosiddette “cose che ci dividono” contano e contano ancor di più se si tratta di “cose” quali i Sacramenti, la Messa, l’Immacolata Madre di Dio, l’ecclesiologia, l’escatologia. Poiché tutto nel depositum fidei è analogicamente collegato, negando un sol dogma si negano tutti, si impugna la Verità contro lo Spirito Santo e ci si danna l’anima. I Santi questo lo sapevano benissimo e, spinti dalla Carità, andavano a predicare ai dissidenti la necessità di rigettare le idee diaboliche dei novatori e di ritornare alla Fede dei loro padri. La vicenda dell’Inquisitore Martire S. Pietro da Verona, ci ricorda che solo la Verità Cattolica ha diritti e che l’errore deve essere estirpato.

sabato 20 gennaio 2018

Aforisma di Alphonse Ratisbonne sulla Vergine Maria


La chiesa dei tre papi

Nella festa dei SS. Martiri Sebastiano e Fabiano papa, rilanciamo questo contributo storico del card. Brandmüller, risalente a circa tre mesi fa, che, probabilmente, ci apre prospettive sulla Chiesa d’oggi.

Ambito marchigiano, S. Fabiano papa, XVI-XVII sec., Macerata

Paolo Farinati, SS. Sebastiano, Giacomo Maggiore e Fabiano papa, 1582, Verona

Luigi Morgari, S. Fabiano papa, 1896-97, Piacenza

Abramo Spinelli, SS. Sebastiano, Agnese, Fabiano papa, Fermo e Rustico, martiri, 1896, Bergamo

Juan Carreño de Miranda, S. Sebastiano, 1650-60, York Art Gallery, York

Antonio De' Pieri (attrib.), Martirio di S. Sebastiano, 1750 circa, Vicenza



Filippo del Giudice,  Simulacro Argenteo di San Sebastiano Martire, Patrono della Città di Gallipoli, 1770, Basilica Concattedrale di Sant’Agata,  Gallipoli. Si legge alla base ISTEQUE MORBO LIBERAT URBEM!


Nicola Malinconico, Martirio di S. Sebastiano, XVIII sec., Altare di S. Sebastiano, Basilica Concattedrale di Sant’Agata,  Gallipoli

Anton (Toni) Kirchmayr, Martirio di S. Sebastiano, 1890-99, Alba

La chiesa dei tre papi

Seicento anni fa l’elezione “miracolosa” di Martino V pose fine allo scisma d’occidente. Tra divisioni e lotte, una soluzione sembrava impossibile. Lezioni utili per l’oggi



Il conclave dal quale l’11 novembre 1417 il cardinale Odo Colonna uscì come Papa Martino V, rappresenta un evento straordinario nella storia della Chiesa. Sia la situazione di partenza e le circostanze dell’elezione, sia il collegio degli elettori e la procedura stessa non avevano precedenti nella storia dei Papi. Diamo anzitutto uno sguardo alla situazione in cui si trovava la Chiesa quando gli elettori entrarono in conclave a Costanza. La Chiesa, a quel tempo, stava vivendo ormai da quarant’anni in una situazione di scisma. O meglio: dopo l’elezione dell’antipapa Clemente VII, avvenuta a Fondi il 20 settembre 1378, c’erano prima due e poi, dopo il fallito tentativo di composizione a Pisa nel 1409, addirittura tre “Papi”, ognuno dei quali rivendicava la propria legittimità come successore dell’apostolo Pietro.
Per porre fine a quella infelice divisione della Chiesa, nel 1414 il Rex Romanorum Sigismondo, insieme con uno dei tre concorrenti, Baldassarre Cossa, ovvero Giovanni XXIII, convocò un concilio a Costanza, che di fatto fu il sinodo più grande e splendido della Chiesa nel medioevo. In seguito alla rinuncia alle proprie rivendicazioni, fatta lì da due dei tre “Papi” – vale a dire Gregorio XII e Giovanni XXIII (quest’ultimo in seguito alle forti pressioni del concilio) –, rimaneva solo Benedetto XIII, ovvero Pedro de Luna, residente nel regno di Aragona, che venne destituito dal concilio nel 1417.
La strada per un Pastore supremo della Chiesa riconosciuto da tutti era dunque stata spianata. Pertanto, non fu la morte di un Papa legittimo a portare alla sede vacante e al conclave – come di norma accade – bensì la rinuncia, ovvero la destituzione di presunti Papi la cui legittimità era discutibile. È dunque questa la prima peculiarità.
La seconda è rappresentata dalle circostanze di questa insolita elezione. La sua straordinarietà non consiste nel fatto che è avvenuta fuori Roma, bensì che si è svolta durante un concilio appositamente convocato, senza che il concilio stesso partecipasse all’elezione. E questo ci porta al terzo punto: il collegio degli elettori.
Dopo il decreto sull’elezione del Pontefice di Papa Niccolò II del 1059, questo normalmente era costituito solo da cardinali.
Ora, però, a Costanza si pose la domanda se in realtà esistevano ancora cardinali legittimi, poiché quelli che si trovavano lì erano stati tutti creati da uno dei tre antipapi. Ma potevano dei cardinali illegittimi eleggere un Papa legittimo? Con un’urgenza senza precedenti sorse dunque la domanda su chi, in quelle straordinarie circostanze, avesse il diritto di eleggere il Papa. Occorreva senz’altro trovare una soluzione che non potesse essere contestata da nessuna delle parti se non si voleva mettere a repentaglio la riuscita dell’elezione già in partenza. Si trattava di eleggere un unicus et indubitatus pontifex.
Come raggiungere tale obiettivo se la legittimità dei cardinali – anche se riuniti in un unico collegio – comunque non era al di sopra di ogni sospetto? Comunque, se c’erano dubbi circa la legittimità dei cardinali, non c’erano però sui partecipanti al concilio. Furono queste considerazioni ad animare le lunghe consultazioni, in seguito alle quali venne elaborato un sistema elettorale assai complicato. Ma che aspetto aveva? È fuori questione che il peso decisivo dovesse spettare al concilio. Essendo costituito da cinque nazioni – italiana, francese, inglese, tedesca e spagnola – fu deciso che ognuna di loro dovesse scegliere tra i propri membri sei elettori, che si sarebbero uniti al collegio cardinalizio. Riguardo alla votazione stessa, per l’elezione erano necessari almeno due terzi da ciascuno di questi sei gruppi.
Il rischio che tale procedura comportava è evidente: bastavano tre voti di una sola nazione per bloccare l’elezione! Sarebbe mai stato possibile mettersi d’accordo? Che tipo di conclave si profilava? Quali conflitti incombevano? E per quanto tempo si sarebbe stati costretti a sopportare il freddo invernale nelle stanze non riscaldate?
Nondimeno – disse il cardinale francese Fillastre, uno tra i principali artefici del concilio – fu scelto questo sistema di elezione. I cardinali, inoltre, si erano dichiarati disposti ad associarsi a un voto unanime delle nazioni e a rimettere l’intera questione dell’elezione al cielo. Quando il 28 ottobre 1417 fu comunicata questa conclusione, a Costanza suonarono tutte le campane. La regolamentazione fu sancita nella sessio solemnis del concilio del 30 ottobre.
Fu altresì deciso di procedere alla votazione anche in assenza dei cardinali rimasti con Benedetto XIII, a meno che non fossero arrivati a Costanza prima della conclusione del conclave e si fossero uniti al concilio. Al tempo stesso venne istituita una commissione composta da due cardinali e due deputati di ciascuna nazione, che doveva riunirsi subito per occuparsi dei preparativi tecnici e giuridici del conclave.
Bisognava poi scegliere i conclavisti, vale a dire i due segretari o servitori che potevano accompagnare ogni elettore. Tra questi ci furono senz’altro personaggi di rango e di spicco, al cui consiglio non si voleva rinunciare e che a loro volta consideravano questo compito un onore. Inoltre, avrebbe potuto dare loro la possibilità di esercitare una certa influenza. Infine furono nominati anche i guardiani del conclave.
Durante la sessio solemnis dell’8 novembre tutte queste persone prestarono giuramento dinanzi al cardinal decano de Brogny, dopo la lettura delle disposizioni per il conclave di Clemente II, che attenuavano un poco le rigide disposizioni di Ubi periculum di Gregorio X. Pertanto, gli elettori poterono farsi accompagnare da due conclavisti e fu abolita la limitazione a pane e acqua. Si pranzò presto, cavalcando poi verso la piazza antistante il palazzo vescovile, dove re Sigismondo salutò ognuno dei 53 elettori con una stretta di mano. Riuniti intorno a lui, tutti si inginocchiarono, dopodiché il vice-camerlengo di Santa Romana Chiesa Manroux, Patriarca titolare di Antiochia, uscì dalla cattedrale con il servizio liturgico, pronunciò alcune preghiere e impartì la benedizione a quanti erano lì presenti. Poi tutti montarono di nuovo a cavallo e si recarono – Sigismondo in testa – al “magazzino” sulle rive del lago, dove era stato allestito il conclave.
Davanti al portone, il Rex Romanorum accolse di nuovo ogni singolo elettore, chiedendo a ciascuno di mettere da parte qualsiasi passione e considerazione umana e dare alla Chiesa, in pace e amicizia, un Pastore gradito a Dio.
Il Gran Maestro dell’Ordine cavalleresco di Rodi – oggi di Malta – chiuse il portone e da quel momento rimase lì giorno e notte. Era accompagnato da due principi, che avevano appeso al collo le chiavi del conclave, mentre sei uomini armati facevano la guardia sulle scale. L’osservatore, al quale dobbiamo questo racconto, notò che nessuno osò dire anche una sola parola.
Davanti alle scale che portavano al magazzino, gli scrutatores ciborum avevano un grande tavolo, sul quale dovevano esaminare tutto il cibo e le bevande che venivano portati, per verificare che non ci fossero, per esempio, messaggi nascosti. Il mattino seguente sarebbero poi iniziate anche le processioni rogatorie quotidiane, per impetrare la benedizione di Dio sull’elezione.
Gli elettori erano quindi entrati in conclave. La vista che si offrì loro probabilmente li rallegrò, poiché da agosto erano stati compiuti grandi sforzi per rendere il magazzino un teatro degno dell’evento storico. Nei due piani superiori erano state create, separandole con dei tendaggi, cinquantasei celle doppie, tutte arredate, di cui tre erano riservate ai cardinali che eventualmente sarebbero giunti da Peñíscola. Naturalmente era stata allestita anche una cappella. Probabilmente non fu accolto con altrettanto piacere il fatto che le finestre del primo piano fossero state murate e che quelle del piano superiore fossero state sprangate con delle assi, costringendo gli elettori a vivere giorno e notte alla luce delle candele.
È sempre il cronista Richental, con il suo amore per i dettagli e le sue conoscenze, a darci informazioni precisissime sull’allestimento del conclave, raccontandoci perfino che c’erano due “camere segrete”, una per piano. L’arredamento delle singole celle consisteva in un letto e un tavolo. Davanti alla cella c’era una cameretta per il conclavista. La distribuzione era organizzata in modo che nessuno avesse un vicino della propria nazione. Ora potevano sistemarsi – nessuno sapeva per quanto – nelle loro camerule.
Era già notte e ancora non era stato chiamato l’extra omnes. Sigismondo, sapendo che il vice-camerlengo Louis Aleman – persona a lui non grata – doveva trovarsi lì d’ufficio, agitato si recò dagli elettori riuniti nella cappella del conclave lamentandosi amaramente della nomina di Aleman: o se ne va lui – concluse – o me ne vado io! Per evitare uno scandalo, gli elettori spinsero il vice-camerlengo a nominare per quella volta un suo sostituto. La sua scelta cadde sull’abate di Tournus e Sigismondo lasciò il conclave, che dunque venne chiuso.
Il racconto più dettagliato e cronologicamente preciso degli eventi nel conclave è quello indirizzato dall’ambasciatore aragonese Felip de Malla al suo re. Secondo tale racconto, l’elezione vera e propria iniziò la mattina del 9 novembre, dopo che Fillastre ebbe celebrato la messa e Brogny ebbe rivolto un discorso agli elettori, ricordando l’immensa responsabilità a loro affidata. Per prima cosa le persone riunite chiarirono la maniera in cui si sarebbe proceduto, in particolare la questione del modo della votazione, decidendo che si doveva votare per iscritto, ma non in segreto. Durante questi chiarimenti, nel conclave si udirono le preghiere e i canti della grande processione rogatoria quotidiana del concilio, che era appena passata per la prima volta davanti al magazzino. Il testimone racconta che in seguito anche nel conclave si era diffuso un clima di contemplazione e di devozione. Non pochi avevano versato lacrime di pia commozione e de Malla vedeva in ciò un segno della serietà e della purezza d’intenzione che animavano gli elettori. Dopo essersi accordati sulla procedura dell’elezione, la maggior parte di loro si ritirò nella propria cella per meditare e, come osserva in particolare lo stesso de Malla, malgrado gli spazi ristretti, nei piani superiori del magazzino regnarono silenzio e raccoglimento. La mattina del 10 novembre ci si alzò molto presto per assistere a tre messe celebrate dal vescovo de Dominicis e dai cardinali de Chalant e Fillastre. Seguì poi il primo scrutinium. Naturalmente nelle settimane precedenti erano già stati fatti nomi di papabili, e generalmente si pensava a un italiano. L’aragonese Macià des Puig riferì al suo re che si parlava di Colonna e Foix, ma anche di Bertrands, il vescovo di Ginevra, e di Conzié. Si attendeva dunque con grande interesse il risultato della prima tornata.
Dopo che l’ultimo votante ebbe depositato la sua scheda nell’urna, il cardinale diacono più anziano – si trattava di Saluzzo – si avvicinò, estrasse ogni singolo foglio, lesse a voce alta i nomi che vi erano scritti, chiedendo poi se l’elettore riconosceva la scheda come propria. Emerse così che spesso su una scheda erano stati scritti più nomi, fino a dodici, secondo Fillastre. Successivamente uno dei notai lesse quanto da lui scritto, per confrontarlo con quanto annotato da altri, dopodiché ci fu il conteggio. Per un caso fortuito, nell’Archivio di stato di Torino ho trovato le annotazioni di un anonimo partecipante al conclave, che ha preso appunti durante la lettura del risultato della votazione. Fillastre nella sua relazione si limita a osservare che non è stata raggiunta la maggioranza dei due terzi.
Tuttavia, i dettagli del risultato non sono privi d’interesse, poiché rappresentano più la selezione di possibili candidati che una vera e propria elezione. In effetti, compaiono alcuni nomi di personaggi notoriamente considerati papabili. Basta analizzare il voto dei cardinali in tal senso. Essi erano concentrati su Brogny (8), Lando (12), Saluzzo (13), Colonna e Fillastre (5 ciascuno). Dalle nazioni degli inglesi e dei tedeschi i cardinali ottennero solo qualche singolo voto.
Di nuovo, il pomeriggio del 10 novembre non ci fu alcun atto ufficiale del conclave, ma ci furono colloqui privati, dai quali emersero diverse preoccupazioni e timori. L’accumulo di nomi su una singola scheda era considerato inopportuno da alcuni, che invitavano a una votazione chiara, palese. Altri invece vedevano questo accumulo piuttosto come una facilitazione dell’accesso, che alla fine era ciò che importava. Non pochi espressero la loro preoccupazione che potessero scoppiare momenti di discordia, e che dunque si potesse profilare un conclave molto lungo. Ma tutti ci tenevano in modo evidente a mantenere la concordia e la pace.
Passò così un altro giorno. Quello seguente, festa di san Martino, iniziò con una messa, celebrata questa volta dal cardinale Panciera, e con preghiere per una buona votazione. Seguì dunque il secondo scrutinium. Mentre venivano contati i voti e la tensione cresceva, la processione rogatoria quotidiana si avvicinò di nuovo al magazzino. Il canto degli inni – c’erano 150 voci bianche – penetrò anche le mura del conclave, e il nostro testimone catalano afferma di non avere mai sentito un canto tanto commovente, addirittura celestiale, come quello. Molti di quanti erano lì riuniti si erano commossi fino alle lacrime e avevano seguito spontaneamente l’invito a inginocchiarsi e pregare. Con voce smorzata venne cantato il Veni creator, de Brogny pronunciò l’orazione Deus, qui corda fidelium, poi tutti tornarono al proprio posto e fu completato il conteggio dei voti. Il risultato non fece presagire ancora nessun cambiamento di tendenza. Il numero dei voti dei cardinali per i favoriti cambiò in modo poco rilevante. Colonna guadagnò tre voti, arrivando a otto. Anche questa volta non era stata presa alcuna decisione. La ragione per cui non ci fu una terza tornata non viene spiegata da nessuno dei nostri testimoni, i quali raccontano solo che a quel punto avvenne l’accesso.
Gli eventi iniziarono a precipitare. Gli spagnoli si accordarono sul vescovo di Ginevra e i cardinali Brogny e Saluzzo, gli italiani e gli inglesi su Colonna; a loro si unirono – improvvisamente – anche Correr e Condulmer, e poi l’intera Natio Germanica. Da quella Hispanica, a Colonna mancavano solo i voti dei vescovi di Cuenca, Badajoz e Dax. E anche tre da quella Gallicana. Nemmeno il tempo di due Padre nostro, e l’elezione fu fatta. Mai come in quel momento – così Felip de Malla – aveva sentito tanto la forza della preghiera. Nel giro di mezz’ora – il “protocollo” di Torino parla addirittura di soli venti minuti – era avvenuta l’accesso e c’era stata una votazione unanime in plena et perfecta concordia.
Alla domanda se accettasse l’elezione, Colonna rispose: “Dio Onnipotente, tu rendi giusto il peccatore, tu hai fatto questo, a te onore e gloria”.
Poi, in ordine di rango e dignità, i singoli elettori e conclavisti si fecero avanti per baciare piede, mano e labbra al Papa. Così venne accettato da tutti come Pontefice massimo e romano – dice Fillastre – e gli venne suggerito di prendere il nome del santo del giorno, Martino, cosa che egli fece. Il Papa si recò poi nella sua cella e indossò le vesti pontificali, dopodiché fu sollevato sull’altare della cappella del conclave e venne intonato il Te deum, questa volte ad alta voce. Il vice-camerlengo Louis Aleman fu fatto entrare nel conclave attraverso la finestra, dopodiché venne aperto il portone e annunciato: Habemus Papam. Sigismondo, raggiante di gioia, fu il primo a entrare, seguito dagli altri guardiani del conclave, per rendere l’obbedienza al Papa.
Subito, e senza pranzare, fu poi organizzata la processione solenne, che a causa dell’incredibile folla accalcata nelle strade, raggiunse la cattedrale solo a fatica. Lì il Papa impartì la benedizione, e poi tutti a tavola. “Gloria e lode all’Altissimo, che ha fatto accadere questo in pace e ha fatto unire la Chiesa sotto un solo capo”, così Fillastre.
L’elezione unanime di un verus, unicus et indubitatus pontifex fu il vero e storico atto del concilio. Con essa, il concilio, che solo poche settimane prima era diviso in partiti, aveva superato se stesso. Questo, perlomeno, ritenevano i partecipanti al concilio de Malla e il senese Mignanelli. Se avevano nutrito grandi timori proprio in considerazione della procedura elettorale complicata e per questo suscettibile di creare contrattempi, nelle loro relazioni sul conclave diedero ampia espressione alla loro meraviglia e allo stupore per l’effettivo svolgimento dell’elezione. Furono unanimi anche nell’esprimere, con parole convinte, perfino commosse, la loro gratitudine per la pace, la concordia e l’amore, come anche l’alto senso di responsabilità e di pietà che secondo avevano regnato nel conclave. Essi sono ancor più convincenti in quanto le loro relazioni – se si prescinde forse da quella di Fillastre – non erano destinate al pubblico, bensì alla cancelleria reale di Aragona e al Concistoro di Siena, quindi a uso interno.
Questo conclave di Costanza appare dunque come un evento di straordinaria spiritualità, che veniva percepito tanto più come un dono del cielo, in quanto gli antefatti erano di tutt’altro genere. Non solo i testimoni diretti, ma anche l’intera cristianità furono colmati di grande gioia e gratitudine per questa elezione e per la fine dello scisma che essa portò. Una testimonianza eloquente di ciò sono per esempio le cronache cittadine tedesche del tardo medioevo, nessuna delle quali menziona il concilio senza ricordare la felice elezione di Martino V: Item an sant Martins tag ward der babst Martinus erwölt, ain ainiger babst, gott sei gelopt. (Proprio il giorno di san Martino è stato eletto Papa Martino, un unico Papa, sia lode a Dio).

L’autore è presidente emerito del Pontificio comitato di Scienze storiche. Arcivescovo, il 20 novembre 2010 è stato creato cardinale da Benedetto XVI.