Già
Bergoglio, parlando in una trasmissione – che ha fatto flop in tutti i sensi,
venendo seguita letteralmente solo da quattro gatti (v. qui.
Cfr. G. Scalese, Un
motivo ci deve essere, in Antiquo
robore, 11.1.2018) – dedicata alla preghiera del “Padre nostro”,
aveva avuto da ridire sull’espressione «non ci indurre in tentazione»,
affermando che, secondo lui, la traduzione sarebbe errata (v. qui.
Cfr. G.G. Vecchi, Papa
Francesco «corregge» il Padre nostro: «Dio non ci induce in tentazione, la
traduzione è sbagliata», in Corriere
della sera, 6.12.2017; Il Papa "corregge" il Padre
Nostro: «Non ci indurre in tentazione? La traduzione è sbagliata», in Il
messaggero, 6.12.2017), manifestando che le traduzioni liturgiche
fossero …. alterate …. ops … modificate volevamo dire (cfr. Fra Cristoforo, Bergoglio
cambierà il Padre Nostro. Ovviamente con la traduzione sbagliata, in Anonimi
della Croce, 6.12.2017. Per una ricostruzione della vicenda, Finan Di Lindisfarne, Un enigma
per tutti i lettori: la questione del Padre Nostro lanciata dagli Anonimi della
Croce e tre settimane dopo l’affermazione di Papa Bergoglio…un caso?, ivi,
9.12.2017).
Subito, la
serva sciocca della CEI, completamente asservita al padrone mondano di turno,
si è adoperata per questa modifica, adattando il testo liturgico a quello della
traduzione del 2008, dove il «non ci indurre» sarebbe reso «non ci
abbandonare». Lo ha annunciato giorni fa Galantino (J. Scaramuzzi, Galantino: “Anche a
messa la nuova traduzione del Padre Nostro”, in Vatican
Insider, 25.1.2018). Anzi, molti la danno per sicura per la fine di
quest’anno 2018, giacché al tema sarà dedicata un’apposita assemblea
straordinaria dei vescovi nel novembre di quest’anno (cfr. G.G. Vecchi, «E non abbandonarci alla
tentazione» La traduzione del Padre Nostro nelle chiese italiane cambia a fine
anno, in Corriere
della sera, 25.1.2018). Evidentemente, ironizza il giornalista Marco
Tosatti, per giustificare questa modifica, che non è traduzione, ma tradimento
del testo, deve essere stato scoperto – e sino ad oggi tenuto nascosto –
qualche frammento del testo del Pater risalente al I sec.
d.C., perché, diversamente, saremmo di fronte ad una plateale alterazione del
testo biblico e liturgico (v. M. Tosatti, Il
Padre Nostro sarà modificato e zuccherato. Trovato un frammento del I secolo
d.C. con la nuova versione? Purtroppo no, in Stilum
Curiae, 26.1.2018, nonché in Riscossa
cristiana, 26.1.2018).
Da un punto
di vista linguistico quale sarebbe la traduzione più fedele?
Spiega
l’autore noto come Fra Cristoforo: «Prendiamo dunque il versetto in questione
dal testo originale greco: “καὶ μὴ εἰσενέγκῃς ἡμᾶς εἰς πειρασμόν”. La parola di
interesse è “εἰσενέγκῃς” (eisenekes), che per secoli è stata tradotta con “indurre”, ed
invece nella nuova traduzione vediamo “non abbandonarci” (come i cavoli a
merenda). Il verbo greco “eisenekes” è l’aoristo infinito di “eispherein” composto
dalla particella avverbiale eis (‘in,
verso’, indicante cioè un movimento in una certa direzione) e da phérein (‘portare’) chesignifica
esattamente ‘portar verso’, ‘portar dentro’. Per di più, è legato al sostantivo peirasmón (‘prova,
tentazione’) mediante un nuovo eis,
che non è se non il termine già visto, usato però qui come
preposizione.
Tale
preposizione regge naturalmente l’accusativo, caso di per sé caratterizzante il
“complemento” di moto
a luogo. Anzi, a differenza di quanto accade ad esempio in latino e
in tedesco con la preposizione in, eis può
reggere solo l’accusativo.
Come si vede, dunque, il costrutto greco presenta una chiara “ridondanza”,
ossia sottolinea
ripetutamente il movimento che
alla tentazione conduce, per cui è evidentemente fuori luogo ogni traduzione – tipo “non
abbandonarci nella tentazione” – che faccia invece pensare a un
processo essenzialmente statico.
Il
latino “inducere”,
molto opportunamente usato da san Girolamo nella Vulgata (traduzione della
Bibbia dall’ebraico e greco al latino fatta da Girolamo nel IV secolo), essendo
composto da ‘in’ (‘dentro,
verso’) e ‘ducere’ (‘condurre,
portare’), corrisponde puntualmente al greco eisphérein;
e naturalmente è seguito da un altro in (questa
volta preposizione) e dall’accusativo temptationem,
con strettissima analogia quindi rispetto al costrutto greco.
Quanto poi
all’italiano indurre
in, esso riproduce esattamente la costruzione del verbo latino da
cui deriva e a cui equivale sotto il profilo semantico.
Dunque la
traduzione più giusta, che rimane fedele al testo è quella che è sempre stata: “non
ci indurre in tentazione”. Ogni altra traduzione è fuorviante, e oserei dire
anche grottesca» (Fra Cristoforo, Il
caso della scandalosa nuova traduzione del Padre Nostro nella Bibbia CEI.
Completamente errata. Vi spiego perché – Appunti per chi fa le ore piccole,
in Anonimi
della Croce, 14.11.2017).
Da un punto
di vista semantico, dunque, il “non ci indurre” è la traduzione più fedele. Per
la verità, c’è chi ha avanzato che l’espressione, nell’originale
semitico/aramaico, pronunciato da Gesù, avrebbe un diverso significato (cfr. G. Pulcinelli, “Non ci indurre in
tentazione”, il vero significato, in Famiglia
cristiana, 13.9.2017; Gelsomino Del Guercio, Quando
recitiamo il Padre Nostro cosa vuol dire “non ci indurre in tentazione”?,
in Aleteia,
14.9.2017). Altri, in maniera più onesta, riconducono l’idea del “non
abbandonarci” più che ad una lettura letterale, quanto piuttosto interpretativa
e catechetica, concludendo che sarebbe preferibile, liturgicamente, non far uso
di siffatte chiavi ermeneutiche, ma di mantenersi fedeli al testo letterale
(cfr. S. Tarocchi, La
traduzione del «Padre nostro»: qual è quella più corretta?, in Toscana
Oggi, 4.6.2014). L’Aquinate, del resto, commentando giusto il Pater,
osservava «Dio induce al male nel senso che lo permette, in quanto, cioè, a
causa dei suoi molti peccati precedenti, sottrae all’uomo la sua grazia, tolta
la quale, egli scivola nel peccato» (cfr. G. Zoroddu, San Tommaso ci spiega il “non ci indurre in
tentazione”, in Radiospada,
10.12.2017). S. Agostino d’Ippona, inoltre, ricordava che una cosa è essere
indotti in tentazione altra è tentare, concludendo che «avvengono dunque le
tentazioni ad opera di Satana, non per un suo potere, ma col permesso del
Signore per punire gli uomini dei loro peccati o per provarli e addestrarli in
riferimento alla bontà di Dio» (Id., “Una
cosa è essere indotto in tentazione e un’altra essere tentati” (S. Agostino), ivi).
In senso non dissimile si era espresso pure il catechismo tridentino di S. Pio
V, allorché spiegava che «essere indotti in tentazione significa soccombere
alla tentazione» (Id., Il
falso problema della traduzione del Pater, ivi, 8.12.2017).
è
significativo notare che né Lutero né la Bibbia di Re Giacomo avevano dubbi
sulla traduzione, traducendo correttamente “non ci indurre in tentazione”: «führe
uns nicht in Versuchung», «Lead us not into temptation». E persino
un modernista, sebbene raffinato e colto, come il card. Martini, commentando
quest’invocazione del Pater, rammentava: «è chiaro che il “non ci
indurre” non vuol dire che Dio tenta al male, ma che permette la tentazione
come parte della nostra esperienza, che in qualche modo ci è necessaria per
crescere nella fede, speranza e carità. Naturalmente è una trappola in cui il
tentatore satana fa di tutto per farci cadere. E noi chiediamo di essere
liberati da questa trappola, che è realissima e pericolosa, anche se ci
passiamo a fianco, se cerchiamo di evitarla» (C. M. Martini, Non sprecate parole.
Esercizi spirituali con il Padre nostro, V
Meditazione).
Tuttavia, ai
di là del significato filologico e teologico, verrebbe da chiedersi: possibile
che in duemila anni nessuno abbia voluto adoperare la traduzione/tradimento
auspicata da Bergoglio e oggi dalla CEI anche per uso liturgico? D’accordo che
è adoperata già in alcune lingue nazionali, come il francese. Resta il fatto
che non si è compreso, a nostro avviso, il vero significato, preferendogli
attribuire un senso politicamente corretto … .
Spiega Fra
Cristoforo: «molti si sono chiesti: Come può Dio “indurre” in tentazione? Ci
sono tantissimi passi biblici che dimostrano come Dio induce alla tentazione e
alla prova. Non ci si può scandalizzare, pensando sempre che Dio abbia solo la
“mielosa misericordia” (oggi molto di moda nella neochiesa), trascurando la Croce,
la prova e la tentazione. Ricordate Genesi 22 quando il Signore chiede ad
Abramo il sacrificio del figlio Isacco? E’ vero. Appena vide la sua fedeltà
l’angelo fermò la mano di Abramo. Ma provate a pensare lo stato d’animo di
questo patriarca, mentre saliva sul monte Moria per uccidere suo figlio in
obbedienza a Dio; mi viene in mente anche Esodo 4,24 dove si
dice che il Signore, mentre Mosè tornava in Egitto dopo la sua fuga “gli
venne contro e cercò di farlo morire”; oppure il capitolo
1 del libro di Giobbe, dove si legge a chiare lettere che Dio da il permesso a
satana di tentarlo e provarlo. O ancora nel Nuovo Testamento
dove si dice che Gesù “fu
condotto dallo Spirito nel deserto per essere tentato dal diavolo”
(Mt 4,1), e appare chiaro che è lo Spirito Santo che conduce Gesù nel
deserto per subire la prova della “tentazione”. E anche San Paolo in 2 Cor 12,7
dice: “Perché
non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa
una spina nella carne, un inviato di satana incaricato di schiaffeggiarmi,
perché io non vada in superbia”. La Scrittura è piena
zeppa di citazioni simili. Dio ti mette nella prova, anche quando questa prova
è una “tentazione”. Ecco allora il vero senso del versetto “non ci indurre in
tentazione”. E’ la preghiera al Padre, di noi figli, che chiediamo di essere
risparmiati dalla “tentazione”, di uscirne indenni, come i tre giovani nella
fornace (Daniele 3).
Del resto se
vogliamo seguire il Signore in modo autentico il Siracide 2 ci dice: “Figlio,
se ti presenti per servire il Signore, preparati alla tentazione”»
(Fra Cristoforo, Il caso
della scandalosa nuova traduzione del Padre Nostro nella Bibbia CEI, cit.).
Il vero
significato, dunque, di quell’invocazione contenuta nel Pater non
è quello di Dio che tenta, ma quello di Dio che mette alla prova, anche quando
questa prova è la tentazione. Forse la migliore spiegazione di quel versetto la
diede Dio stesso all’anacoreta S. Antonio abate, lungamente tentato dal
diavolo. S. Atanasio nella Vita Antonii così riferisce le
parole del Signore dinanzi ad Antonio che gli chiedeva ragione perché non fosse
intervenuto prima, sin dall’inizio, per porre fine alle sue sofferenze e
tentazioni: «Antonio, ero là! Ma aspettavo per vederti combattere; poiché hai
resistito e non ti sei lasciato vincere, sarò sempre il tuo aiuto e farò sì che
il tuo nome venga ricordato ovunque» (Atanasio
di Alessandria, Vita
di Antonio, Paoline, 2007, pp. 96-97. Cfr. R. Barile, Padre Nostro, una
traduzione, tanti significati, in LNBQ,
7.12.2017, nonché in Il
Timone, 7.12.2017).
Augustinus Hipponensis
Voi fidatevi di un sito di anonimi, che non sa nemmeno quello che scrive. Quel sedicente Fra Cristoforo afferma che il verbo "εἰσενέγκῃς” si legge "eisenekes" e non è vero, si pronuncia "eisenènkes", c'è una n in più, perché in questo caso gamma si pronuncia come "n", lui invece la ignora.
RispondiEliminaPoi afferma che tale verbo è l'infinito dell'aoristo e nemmeno questo è vero, è la seconda persona singolare del congiuntivo aoristo.
Più avanti cita il verbo nella forma dell'infinito e lo scrive come si pronuncia in italiano, "phérein", peccato che in greco, a differenza del latino, i verbi si indicano con la prima persona del presente, qui "phero", e non con l'infinito.
Infine afferma che il verbo "phérein significa esattamente ‘portar verso’, ‘portar dentro’", il che è assolutamente falso, quel verbo ha lo stesso significato del verbo "fero" latino, significa "portare" e basta.
Come ha scritto qualcuno, chi difende la versione giusta con motivazioni erronee rafforza la posizione di chi invece vuole modificarla. Quegli Anonimi hanno ampiamente dimostrato di essere solo dei provocatori e sono ingenui quelli che ci cascano: lasciateli perdere.