Sante Messe in rito antico in Puglia

sabato 31 marzo 2018

Un aforisma di S. Giovanni Crisostomo per il Sabato Santo



Preghiera di S. Bonaventura alla Vergine SS. Addolorata

Dies amara valde! Giorno di infinita tristezza.
La notte del venerdì santo e del sabato seguente tutto è compiuto. Il buio ha avvolto la terra. Il Padre non ha risposto all’invocazione del Crocifisso: «Eloì, Eloì, lemà sabactàni!».
Dinanzi alla tragedia della Croce le nostre labbra appaiono chiuse come da enorme ostacolo, simile alla grossa pietra rotolata all’ingresso sepolcro del Cristo quel pomeriggio del Venerdì, che era già Sabato. Sono chiuse sì. Ma nutrono la speranza, o forse dovremmo dire la certezza, dell'imminente Resurrezione, di una Vita nuova, che è quella vera, allorquando quell'enorme masso sarà rimosso per la potenza di Dio. Allora ci sarà la risposta a quell'invocazione!
In questo giorno, contempliamo l’attesa della Vergine Maria, invocandola come Addolorata e Desolata, con questa bellissima preghiera di S. Bonaventura da Bagnoregio.



PREGHIERA DI SAN BONAVENTURA
ALLA BEATA VERGINE
MARIA SANTISSIMA ADDOLORATA

Per quei singulti e sospiri e indicibili lamenti, indizi dell'afflizione in cui era il vostro interno, o Vergine gloriosissima, quando vedeste tolto dal vostro seno e chiuso nel sepolcro il Vostro Unigenito, delizia del vostro cuore, rivolgente, ve ne preghiamo, quei vostri occhi pietosissimi a noi miseri figli di Eva, che nel nostro esilio, e in questo misera valle di pianto a Voi innalziamo calde suppliche e sospiri. Voi dopo questo lagrimevole esilio fateci vedere Gesù, frutto benedetto delle vostre caste viscere. Voi con gli eccelsi vostri meriti impetrateci di potere in punto di nostra morte esser muniti dei Santi Sacramenti della Chiesa, per terminare i nostri giorni con una morte felice, ed essere finalmente presentati al divin Giudice, sicuri di essere misericordiosamente assoluti. Per grazia dello stesso Signor nostro Gesù Cristo, Vostro Figliuolo, il quale Padre e con lo Spirito Santo vive e regna per tutti i secoli dei secoli. Così sia.

venerdì 30 marzo 2018

L’Uomo della Sindone ricostruito in 3D e in Vangeli che raccontano la verità

In questo Venerdì Santo in Parasceve, nulla può farci riflettere sulla passione subita da Nostro Signore che il telo sindonico, il quale, in base a recenti studi ed alla realizzazione e ricostruzione di un Uomo sindonico in 3D, conferma a pieno il racconto evangelico.
Meditiamo dunque su questo mistero contemplando il volto del Signore, straziato dalla Passione.


L'articolo comparso sul quotidiano La Verità, 26.3.2018




L’Uomo della Sindone ricostruito in 3D e in Vangeli che raccontano la verità

di Lucandrea Massaro


La ricostruzione dei Vangeli sembra collimare con le scoperte del professor Giulio Fanti dell'Università di Padova

«Questa statua è la rappresentazione tridimensionale a grandezza naturale dell’Uomo della Sindone, realizzata sulle misure millimetriche ricavate dal lenzuolo in cui fu avvolto il corpo di Cristo dopo la crocifissione» spiega Giulio Fanti, docente di Misure meccaniche e termiche all’Università di Padova e studioso della reliquia. Il professore sulla base delle sue misurazioni ha fatto realizzare un “calco” in 3D che – a suo dire – gli permette di affermare che queste sono le reali fattezze del Cristo crocifisso.
«Riteniamo perciò di avere finalmente l’immagine precisa di come era Gesù su questa terra. D’ora in poi non si potrà più raffigurarlo senza tenere conto di quest’opera». Il professore ha affidato al settimanale Chi l’esclusiva di questo suo lavoro, a cui ha rivelato: «Secondo i nostri studi Gesù era un uomo di bellezza straordinaria. Longilineo, ma molto robusto, era alto un metro e ottanta centimetri, mentre la statura media dell’epoca era di circa 1 metro e 65. E aveva un’espressione regale e maestosa» (Vatican Insider).


Tramite lo studio e la proiezione tridimensionale della figura, Fanti ha potuto anche fare un computo delle numerosissime ferite sul corpo dell’uomo della Sindone:
«Sulla Sindone – riprende il docente – ho contato 370 ferite da flagello, senza prendere in considerazione quelle laterali, che il lenzuolo non riporta perché avvolgeva solo la parte anteriore e posteriore del corpo. Possiamo perciò ipotizzare un totale di almeno 600 colpi. Inoltre la ricostruzione tridimensionale ha permesso di ricostruire che al momento della morte l’uomo della Sindone si è accasciato verso destra perché la spalla destra era lussata in modo tanto grave da ledere i nervi» (Il Mattino di Padova).


Le domande che avvolgono il mistero della Sindone appaiono ancora intatte, di certo in quell’uomo martoriato vediamo il segno della sofferenza e in essa troviamo un pezzo di ciascuno di noi, ma anche – negli occhi della fede – la speranza che quell’uomo non sia uno qualunque, ma l’Uomo per eccellenza, quel Ecce Homo che si presentò docile di fronte a Pilato e che dopo la tremenda flagellazione fu messo in croce da innocente, anzi caricandosi le colpe di tutti, e sebbene credere nella Sindone non sia obbligatorio neppure per il cristiano, l’eccezionalità di quel lino rimane lì a sfidare la nostra comprensione e le nostre certezze, quasi come fece un certo Gesù di Nazareth che sfidò le nostre certezze amando i suoi persecutori, perdonandoli dalla croce e sconfiggendo la morte ormai due millenni fa…


Fonte: Aleteia, 27.3.2018. Cfr. anche Claire Chretien, Professor creates 3D ‘carbon copy’ of Jesus and His wounds using Shroud of Turin, in Lifesitenews, Mar. 29, 2018

giovedì 29 marzo 2018

Come vivere la Settimana Santa

In questo inizio del Triduo pasquale, rilanciamo questo contributo di Cristina Siccardi.





Ulisse Sartini, Ultima cena, 2015




Come vivere la Settimana Santa

(di Cristina Siccardi)


Se i Santi sono i testimoni del Vangelo vissuto, ognuno con la propria inconfondibile impronta, i Santi Padri della Chiesa sono coloro che hanno anche donato insegnamenti la cui profondità dottrinale e spirituale è inesauribile. I Padri della Chiesa, a differenza di tanti teologi del Novecento e del Duemila, non volevano essere originali e/o alternativi, loro obiettivo era esclusivamente di porsi al servizio di Cristo, della Chiesa e, dunque, della Verità rivelata, ed è per questo che il loro dire rimane autorevole e non conosce vecchiaia.
È per tale ragione che desideriamo riprendere alcuni loro pensieri e proporli per la Settimana Santa, la Settimana del Crocifisso, dove al centro sta appunto Cristo prima (Passione), durante (Crocifissione), dopo (Deposizione e Santo Sepolcro) la Santa Croce, della quale nessun credente può vergognarsene, perché segno di amore indefettibile, di vittoria contro il peccato e la morte, e segno della più grande libertà. «Nessuno, dunque, si vergogni dei segni sacri e venerabili della nostra salvezza, della croce che è la somma e il vertice dei nostri beni, per la quale noi viviamo e siamo ciò che siamo. Portiamo ovunque la croce di Cristo, come una corona. Tutto ciò che ci riguarda si compie e si consuma attraverso di essa. Quando noi dobbiamo essere rigenerati dal battesimo, la croce è presente; se ci alimentiamo di quel mistico cibo che è il corpo di Cristo, se ci vengono imposte le mani per essere consacrati ministri del Signore, e qualsiasi altra cosa facciamo, sempre e ovunque ci sta accanto e ci assiste questo simbolo di vittoria. Di qui il fervore con cui noi lo conserviamo nelle nostre case, lo dipingiamo sulle nostre pareti, lo incidiamo sulle porte, lo imprimiamo sulla nostra fronte e nella nostra mente, lo portiamo sempre nel cuore. La croce è infatti il segno della nostra salvezza e della comune libertà del genere umano, è il segno della misericordia del Signore che per amor nostro si è lasciato condurre come pecora al macello (Is. 53,7; cf. Atti, 8, 32)» (San Giovanni Crisostomo, Commento al Vangelo di san Matteo, 54, 4-5).
Il Crocifisso è degno di adorazione. Gesù stesso, istruì in tal modo i suoi discepoli: «Apparirà allora nel cielo il segno del Figlio dell’uomo» (Mt 24, 30), ovvero la Croce; anche l’angelo che annunciò alle donne la risurrezione di Cristo disse: «Voi cercate Gesù di Nazaret, il crocifisso» (Mc 16, 6) e San Paolo da parte sua afferma: «Noi predichiamo il Cristo crocifisso» (1 Cor 1, 23). Ogni atto compiuto da Cristo è una gloria di Santa Romana Chiesa, ma la gloria delle glorie è proprio la Croce.
Infatti, ancora san Paolo dichiara: «A me non avvenga mai di menar vanto, se non nella croce di Cristo» (Gal 6,14). San Leone Magno esorta: «Non ci si deve mostrare sciocchi tra le vanità, né timorosi tra le avversità. Ivi ci allettano le lusinghe, qui ci aggravano le fatiche Ma poiché la terra è piena della misericordia del Signore (Sal. 32, 5), ovunque ci sostiene la vittoria di Cristo, affinché si adempia la sua parola: Non temete, perché io ho vinto il mondo (Gv. 16, 33). Quando dunque combattiamo, sia contro l’ambizione del mondo, sia contro le brame della carne, sia contro gli strali degli eretici, siamo armati sempre della croce del Signore. E mai ci allontaneremo da questa festa pasquale, se – nella verità sincera – ci asterremo dal fermento dell’antica malizia. Tra tutti i trambusti di questa vita, oppressa da molte passioni, dobbiamo ricordare sempre l’esortazione dell’Apostolo che ci istruisce dicendoci: Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù» (Sermoni, 74,4-5).
Mentre sant’Atanasio, colui che pagò di persona e salvò, con pochi altri, la Chiesa dall’eresia ariana che attanagliò il mondo cattolico per lungo e doloroso tempo, esalta così la Croce di Cristo: «I pagani ci calunniano e ci scherniscono, ridendo sguaiatamente di noi, senza aver nient’altro da rimproverarci che la croce del Cristo. Ed è soprattutto questa loro incoscienza che suscita pietà: essi calunniano la croce, senza rendersi conto che la sua potenza ha riempito la terra intera e che, grazie ad essa, si son resi manifesti a chiunque i frutti della conoscenza di Dio» (Contro i pagani, 1).
Il Salvatore si è lasciato crocifiggere, allo stesso modo siamo chiamati noi a crocifiggere i nostri peccati, causa delle prigioni che costruiamo con le nostre mani. Meno vizi e più virtù per vergognarsi delle proprie mancanze e per gloriarsi della Crux cordis. Provare a vivere la Settimana Santa sentendo addosso lo sguardo del Crocifisso dovrebbe liberarci un po’ dalle zavorre terrene, migliorare qualcosa nel nostro essere… altrimenti avremmo vissuto invano una nuova Santa Pasqua.

domenica 25 marzo 2018

Il rituale della “Missa sicca” della Domenica delle Palme

Nella Domenica delle Palme, che ci introduce alla Settimana Santa, rilanciamo questo contributo liturgico.

Le immagini sono tratte dal profilo di un nostro amico.



Domenica delle Palme, nel 1941, al Santo Sepolcro a Gerusalemme

Il Cardinale Arciprete, Eugenio Pacelli, futuro Pio XII presiede in S. Pietro la liturgia della Domenica delle Palme

Il rituale della “Missa sicca” della Domenica delle Palme

A testimonianza della veneranda antichità dei riti della Settimana Santa, rimontanti ai primi secoli della storia della Chiesa, la Domenica delle Palme continua a officiarsi una cerimonia assai diffusa nel Medioevo e scomparsa dopo il Concilio Tridentino, detta Missa sicca, ossia una celebrazione che ricalca il modello della Messa, ma è priva della parte sacrificale. Essa veniva officiata in occasione di benedizioni, o per i matrimoni in alcune particolari circostanze; rimane oggi unicamente per il rito di benedizione dei rami d’ulivo con cui i Cristiani inneggeranno a Cristo entrante in Gerusalemme, siccome inneggiarono i fanciulli giudei a quel suo solenne ingresso duemila anni fa.
Dopo Terza, avuta luogo more solito l’aspersione domenicale, il Sacerdote rivestito di stola e piviale violacei accede all’altare, lo venera col bacio, e va al lato dell’epistola, mentre il coro canta la solenne antifona Hosanna filio David. ‘Hosanna’, come ben spiega il Card. Schuster, indica un uso rituale tipicamente ebraico, svolto in occasione delle grandi feste come la dedicazione del tempio, ovverosia il portare rami d’alberi qua e là in occasione d’onori. Il fatto che a Nostro Signore sia stato tribuito un siffatto ingresso nella Città Santa, infatti, prefigura direttamente la sua divina regalità, poiché tale onore spettava generalmente alle feste in onore di Dio, e non a uomini, per quanto importanti.
Il Sacerdote intanto prosegue le cerimonie come alla Messa: canta l’orazione, con cui apre il cammino della Settimana Santa, richiedendo a Dio di moltiplicare le grazie pel suo popolo e di farlo giungere al fine alla gloriosa Risurrezione.
Dipoi, il suddiacono canta la Lezione, che è tratta dai capitoli XV e XVI dell’Esodo: in tale brano, infatti, oltre a mentovarsi settanta palme all’inizio del brano, viene preannunciata la missione salvifica del Cristo, poiché Iddio, sotto figura di manna, promise di dare il suo Divin Figliuolo. Soggiungesi poi un responsorio, a mo’ di graduale, che può scegliersi tra un brano di San Giovanni e uno di San Matteo, ambedue riferentesi alla condanna a morte del Redentore, dacché è attraverso di essa che a noi è elargito dal cielo ogni beneficio.
Intanto, viene benedetto l’incenso e il diacono domanda al Sacerdote la benedizione, apprestandosi a cantare il Vangelo, con le consuete cerimonie della Messa solenne. La pericope evangelica è proprio l’Ingresso in Gerusalemme, secondo San Matteo (capitolo XXI).
Tra i rituali della Messa secca s’inseriscono ora le preci di benedizione dei rami. La Chiesa benedice e distribuisce i rami perché già vede perfetto il trionfo di Cristo. Inoltre, essendo Egli il trionfatore e dovendo per Lui trionfare gli eletti in Cielo, convenientemente la benedizione e distribuzione vien fatta dal Sacerdote, che rappresenta Cristo.
Dopo aver cantato una orazione, il Sacerdote intona un prefazio in cui si esalta la regalità suprema di Nostro Signore, al termine del quale viene cantato il Sanctus, dimodoché insieme procedano la lode delle schiere celesti e quella delle turbe terrene. Si noti ancora una volta la perfetta identità di questo rituale con le cerimonie della Messa; soltanto, ora, anziché procedere alla Consacrazione, seguirà piuttosto la già preannunziata benedizione dei rami.
E dunque ciò avviene con cinque solenni orazioni, le quali mostrano quale sia il mistero ed il significato dei rami di olivo e di palma, e come gli uomini, in virtù della ricezione di tali sacramentali, vengano da essi aiutati per mezzo della divina grazia. La benedizione viene conclusa dall’aspersione e dall’incensazione dei rami.
Cantata un’ulteriore orazione in cui si chiede a Iddio di accoglierci, mondati dal peccato, nel numero di quanti lo esaltano festanti coi rami di palma, il Sacerdote distribuisce gli stessi al clero e poi al popolo, mentre il coro canta il responsorio Púeri Hebræórum. Lavatosi le mani ai piedi dell’altare e cantata un’altra orazione dal lato dell’epistola, ha inizio la solenne processione, coll’invito del diacono: Procedamus in pace, cui il coro risponde: In nomine Christi. Amen.
Avanti a tutti va il turibolo fumigante, segue la croce processionale, velata e con un ramo di palma legato ad essa da un nastro violaceo, portata dal suddiacono e accompagnata dagli accoliti coi ceri accesi, indi il clero, e per ultimo il Sacerdote accompagnato dal diacono e dal cerimoniere, tutti reggenti in mano i rami d’ulivo. Durante il tragitto, il coro canta numerose antifone, ora tratte da brani evangelici, ora di composizione ecclesiastica, che richiamano l’esultanza dei fanciulli ebrei in onore di Gesù Cristo.
Quando la processione ha termine, tutti si fermano anzi alla porta della chiesa: quattro cantori entrano nel tempio e chiudono le porte, indi iniziano il canto del poema di Teodolfo d’Orleans, rimontante al IX secolo, che inizia Gloria, laus et honor tibi sit. Esso viene cantato da quelli dentro la chiesa, ai quali rispondono tutti coloro che stanno fuori con il ritornello. Il fatto che alcuni stiano dentro la chiesa cantando ed altri fuori rispondendo, significa che gli Angeli, prima della Risurrezione e il trionfo di Cristo, stavano nel Cielo chiuso agli uomini e, lodando Dio, lo pregavano di restaurare il genere umano. A questi, i buoni mortali affidati alla speranza divina, rispondevano cantando e pregando per esser a quelli congiunti.
Quindi, il suddiacono percuote tre volte la porta con la Croce astile, sinché questa non viene aperta, e la processione rientra solennemente in chiesa cantandosi il responsorio Ingrediente Domino. Ora quelli di fuori si uniscono con quelli di dentro fino a formare un corpo solo, per significare che l’ingresso fatto oggi da Cristo in Gerusalemme prefigurava la sua entrata nella città del Paradiso dove i giusti dovevano unirsi con gli Angeli ed avere, trionfanti, i segni e le palme della vittoria gloriosa. E, siccome tale ingresso avvenne mediante la morte espiatoria di Cristo, e la sua Croce aprì dunque ai giusti le porte del Paradiso, così è la Croce che simbolicamente apre le porte della chiesa per farvi entrare i fedeli.
Con questa commovente cerimonia ricca di significato, si chiude l’ufficiatura della “Missa sicca” e della relativa processione, e il Sacerdote, svestito il piviale e indossati pianeta e manipolo di colore violaceo, inizia la vera e propria Messa con le preghiere ai piedi dell’altare.

Omnípotens sempitérne Deus, qui Dóminum nostrum Iesum Christum super pullum ásinæ sedére fecísti, et turbas populórum vestiménta vel ramos arbórum in via stérnere et Hosánna decantáre in laudem ipsíus docuísti: da, quæsumus; ut illórum innocéntiam imitári possímus, et eórum méritum cónsequi mereámur. Per eúndem Christum, Dóminum nostrum.

Onnipotente sempiterno Iddio, che faceste sedere nostro Signore Gesù Cristo su di un asinello, e ordinaste alle turbe dei popoli di stendere per la via le vesti e i rami degli alberi, e a cantare “Osanna” in di Lui onore: concedete, ve ne preghiamo, che noi possiamo imitare l’innocenza di quei fanciulli, e meritiamo di conseguire al fine il loro merito. Per lo stesso Cristo Signor nostro.

sabato 24 marzo 2018

Anniversario della morte dell'infame e sanguinaria Elisabetta I Tudor, illegittima figlia dell'empio Enrico VIII

Come ci ricorda un nostro amico, il 24 marzo 1603, vigilia della festa dell'Annunciazione e dell'Incarnazione del Verbo (che quest'anno a causa della settimana santa è tuttavia spostata al 9 aprile), di Colei cioè che da sola sconfisse tutte le eresie, moriva Elisabetta I Tudor, figlia illegittima dell'empio Enrico VIII e di Anna Bolena, eretica, fautrice di eretici, nemica di Dio e della sua Chiesa, sanguinaria massacratrice di Cattolici, scomunicata e deposta da papa S. Pio V.
Così a lei si rivolgeva sant’Edmund Campion, gesuita martirizzato il 1º dicembre 1581:




Fonte: Luca Fumagalli, Edmund Campion: gesuita e martire, in Radiospada, 29.6.2016

Anni dopo, questa profezia di questo martire troverà la sua piena realizzazione.
Ella, dopo aver regnato 40 e passa anni, avendo per questo fatto anche un patto col Diavolo (è ciò è plausibilissimo stante le sue frequentazioni con l'esoterista John Dee, che stregone, teurgo, astrologo e negromante alla corte di Elisabetta, noto per evocare spiriti maligni con l'ausilio della cabala ebraica ai quali chiedeva consiglio in materia politica e bellica per conto della regina stessa), giace ora - secondo l'autorevole voce di S. Alfonso Maria de' Liguori - all'Inferno, rimpiangendo quello scellerato patto ed aver buttato la sua vita per l'eternità in cambio della vanità del regno: 

"Il terzo rimorso del dannato sarà il vedere il gran bene, che ha perduto. Dice S. Giovanni Grisostomo che i presciti saranno più tormentati dalla perdita fatta del paradiso, che dalle stesse pene dell'inferno: «Plus coelo torquentur, quam gehenna». Disse l'infelice principessa Elisabetta regina d'Inghilterra: Diami Dio quarant'anni di regno, ed io gli rinunzio il paradiso. Ebbe la misera questi quarant'anni di regno, ma ora che l'anima sua ha lasciato questo mondo, che dice? certamente che non la sente così; oh come ora se ne troverà afflitta e disperata, pensando che per quarant'anni di regno terreno, posseduto fra timori ed angustie, ha perduto eternamente il regno del cielo." (Apparecchio alla morte, Cons. XXVIII, Punto III).


Autore sconosciuto, Ritratto di Elisabetta con serpente, 1580-90, National Gallery, Londra. V. QUI


Paul Delaroche, Morte di Elisabetta I, regina d'Inghilterra, 1828, Museé du Louvre, Parigi

venerdì 23 marzo 2018

Cristianesimo e Islam, la storia di uno scontro secolare in un saggio di Massimo Viglione

Il Venerdì di Passione, che precede la Settimana Santa, commemora i Sette Dolori della B. V. Maria. La Chiesa Romana commemora due volte questi Dolori. Nella festa del 15 settembre essi sono onorati quale fonte di gloria e trionfo, mentre nell’odierna commemorazione, all'antivigilia dell'inizio della Settimana Santa, come fonte di asprissimo dolore. In entrambi i casi la Chiesa propone alla venerazione Maria in quanto Corredentrice del genere umano, in subordine al Cristo Redentore: Ella cooperò alla nostra redenzione col suo martirio e con l'offerta a Dio Padre della vittima del sacrificio perfetto, il Figlio Gesù.
Fasciculus myrrhæ *
dilectus meus mihi inter ubera mea commorabitur
(Ant. Canticum Trium Puerorum, Laudes).
In questa Commemorazione, rilanciamo questa recensione dell’ultimo saggio del prof. Viglione.





Francesco Coghetti, Addolorata, 1868, Bergamo

F. Del Re, Addolorata, 1883, Manfredonia

Scuola lombarda, Madonna addolorata, XIX sec., Bergamo

Ambito bergamasco, Madonna addolorata, XIX sec., Bergamo

Giovanni Pezzotta, Addolorata, 1890-1911, Bergamo

Cristianesimo e Islam, la storia di uno scontro secolare in un saggio di Massimo Viglione

di Veronica Rota


L’ultima fatica (parola più che mai indovinata, trattandosi di una epocale ricostruzione storica) di Massimo Viglione presenta quattro secoli e oltre di storia religiosa, politica, diplomatica, ovviamente militare. Il quadro che esce da La conquista della “mela d’oro” (Solfanelli, 360 pagine, 30 euro) è impressionante, tra Papi e Sultani, Imperatori e re, santi e visir, battaglie di terra e di mare, condottieri e avventurieri, diplomatici e corsari, e la grande massa delle popolazioni massacrate ma anche ribelli. Ogni potenza europea ne viene coinvolta: oltre al Papato e all’Impero, troviamo la Francia con la sua ambigua e a volte per niente ambigua politica filo-ottomana, la Borgogna, la Spagna di Carlo V e Filippo II, ovviamente Genova e soprattutto Venezia (le due potenze dei “mali christiani”, vittime della loro stessa scaltra politica), anche gli Stati italiani minori, l’Ungheria di Huhyadi e l’Albania di Scanderbeg e gli Stati balcanici minori, la Polonia di Sobieski e la Russia di Pietro il Grande, la Grecia e le potenze islamiche africane, con i fratelli Barbarossa in primis. Un grande ed epocale affresco di uomini e di eventi politici, militari, diplomatici e anche religiosi.

Vengono nello specifico descritte (sebbene mai in maniera troppo approfondita, per lasciare più spazio alle vicende politiche, diplomatiche e religiose) le battaglie di Kossovo, Nicopoli, gli assedi di Costantinopoli, Varna, Belgrado, la caduta di Costantinopoli, la tragedia di Otranto (e tante altre tragedie), Rodi, Mohács, il primo assedio di Vienna, Tunisi, Algeri, Buda, Malta, Cipro, Lepanto, e quindi la Lunga Guerra, Candia, il trionfo di Vienna, le guerre di Morea e quelle finali di Eugenio di Savoia. Soprattutto però viene descritto l’operato dei grandi protagonisti militari e politici (da Hunyadi a Scanderbeg, da Maometto II a Barbarossa e a Solimano il Magnifico, da La Valette a don Giovanni D’Austria e i protagonisti di Lepanto, dal Montecuccoli al Morosini, da Hunyadi ad Eugenio di Savoia), per non parlare dei grandi predicatori, come Giovanni da Capistrano, Lorenzo da Brindisi e, soprattutto ovviamente, padre Marco d’Aviano.
Ma la maggiore attenzione viene data alla politica. Anzitutto a quella pontificia, che vide decine e decine di papi combattere gli ottomani, sebbene non certo in ugual misura; quindi a quella dei sovrani cristiani, dal XV secolo ai Re Cattolici, da Carlo V – cui si è dato particolare spazio, essendo stata la sua politica crociata un aspetto sempre sottovalutato finora – e Filippo II al collaborazionismo dei sovrani francesi, da Leopoldo imperatore al Re Sole, il “Turco Cristianissimo”, come venne chiamato per la sua costante alleanza con gli ottomani (senza dimenticare personaggi “minori” ma importanti, come Carlo di Gonzaga Nevers o Vlad III Dracul, e vari altri del suo genere…); infine, agli aspetti più diplomatici e ideologici di questa immensa vicenda, che vede coinvolti decine e decine di protagonisti di ogni genere e tipo.
Poi vi sono i corsari, tanto islamici (a partire dai fratelli Barbarossa) che cristiani; i cavalieri di Rodi e Malta e quelli di Santo Stefano; gli avventurieri, i rinnegati, e le figure, spesso davvero interessanti, dei gran visir (quasi tutti rinnegati un tempo cristiani) e dei paşa. Il tutto contornato da una costante caterva di inumane violenze, che avvennero sempre, fino alla fine.
Piuttosto indovinata risulta la scelta di compiere questa ricostruzione generale dell’intero plurisecolare fenomeno, perché in Italia non esiste nulla del genere. La quasi totalità dell’enorme produzione storiografica sulla Crociata si incentra infatti nei due secoli usuali medievali. Da qualche decennio ci si interessa del XIV e XV secolo, sebbene vi sia ancora molto da approfondire. Ma ancora poco è stato scritto dei tre secoli successivi, e quel poco non sempre ha avuto spiegazioni o interpretazioni corrette. Soprattutto, gli studi – che comunque non mancano, sia chiaro – si sono sempre incentrati su specifici aspetti, limitati nello spazio o nel tempo. Ma nessuno insomma aveva finora offerto alla storiografia italiana, e anche al grande pubblico, la ricostruzione generale, intera, di tutta la guerra “crociata” e “non crociata” tra Impero ottomano e Cristianità.
“Crociata” e “non crociata”: Viglione fa molta attenzione a questa fondamentale distinzione. Pur seguendo i più seri e importanti lavori degli ultimi decenni, ha scelto, con piena convinzione, di non sposare in toto la linea, dominante, della relativizzazione degli ideali crociati e comunque dei grandi ideali cavallereschi come spiegazione degli eventi (tipico atteggiamento della storiografia irrigimentata). E la semplice veritiera ricostruzione dei fatti dimostra la giustezza della scelta di Viglione. Se molto di questa storia non può essere definito “crociata” (ma solo guerra antiottomana: basti pensare a Venezia o ad alcuni potentati balcanici, preoccupati solo di sopravvivere e pronti in ogni momento a collaborare con il Nemico a tal scopo), molto può invece esserlo definito, e nel XVII secolo più che nel XV. La storia non procede in linea retta, anche questa grande vicenda lo dimostra ampiamente. Per Carlo V o Filippo II, per Hunyadi o Scanderbeg, per Morosini o Montecuccoli, per Carlo di Gonzaga Nevers o per Eugenio di Savoia, non si trattava solo di “guerra antiottomana”, ma di vera e propria “Crociata”, nel perdurare dello spirito plurisecolare nella Cristianità medievale. Ma furono soprattutto i pontifici, come detto, gli artefici dell’immenso sforzo di resistenza all’aggressore della Cristianità, per tutti i secoli dell’età moderna (come di quella medievale): furono i pontefici romani a salvare, anche sotto questo aspetto, la nostra civiltà e libertà.
Anche se, come detto, non tutti alla stessa maniera: uno dei risvolti più interessanti che ci offre l’autore è proprio l’evidenziazione delle differenze tra pontefice e pontefice nella resistenza all’invasore ottomano. Se un Niccolò V scriveva, nei giorni della caduta di Costantinopoli, che Maometto era «filius satana, filius perditionis, filius mortis, animas simul et corpora cum patre suo diabulo cupiens devorare» e subito dopo Callisto III giurava a Dio, nel giorno della sua intronizzazione, di spendere ogni giorno del suo pontificato, fino alla morte, per recuperare «Costantinopoli, che, a punizione del peccatore genere umano, fu conquistata e distrutta dal nemico del Crocifisso Salvatore, dal figlio del diavolo, Mohammed; per liberare inoltre i cristiani languenti in schiavitù, per rialzare la vera fede ed estirpare in Oriente la diabolica setta del reprobo e infedele Mohammed», se Pio II moriva di crepacuore per il dolore di essere abbandonato da tutti nel suo tentativo di Crociata, se san Pio V, Clemente VIII e il beato Innocenzo XI saranno i salvatori della Cristianità sotto attacco, altri pontefici ebbero ben altro atteggiamento: a volte “distratto”, a volte perfino complice (Clemente VII), a volte… inconcepibile (Paolo IV Carafa, in pieno Concilio di Trento, afferma pubblicamente che era pronto a ricorrere ai turchi pur di fermare gli Asburgo!).
Sono questi alcuni dei più interessanti rivolti di questa storia, fermo rimanendo che le pagine forse più da scoprire sono, al dunque, quelle dell’immenso scontro tra Carlo V da un lato a difendere la Cristianità e il traditore Francesco I di Francia con Solimano uniti dall’altro, scontro proiettato sul mare nei due uomini rivali giganti della guerra di corsa: il Barbarossa (uno dei più grandi criminali della storia umana, ma geniale in guerra) e Andrea Doria, colonna dell’impero asburgico.
Sottilmente interessante rimane anche scoprire la vita al TopKapi: il ruolo dei visir, quello dei giannizzeri, quello dei rinnegati e dei loro figli (in pratica, sultani e visir erano tutti di sangue occidentale), quello delle donne dell’Harem, spesso cristiane rapite da fanciulle, come la onnipotente Roxellana, preferita di Solimano e difensore dei cristiani. Da notare è che gli stessi sultani hanno quasi sempre arrecato la guerra anzitutto per ragioni religiose: essi stessi dovevano rispondere agli Ulema, oltre che a tutto il loro complesso mondo politico-militare. E solo in seconda battuta per ragioni economiche.
Insomma, si tratta di un’opera unica nel suo genere, finora inesistente in lingua italiana, che fornisce l’intero mosaico della plurisecolare guerra tra Islam ottomano e Cristianità. E apre le porte alla comprensione di tanti eventi successivi, fino ad arrivare al presente, nel quale, la Turchia, come sempre, svolge il suo preoccupante ruolo di “penetrazione” dell’islam in ambiente europeo.

Mostra del pittore Giovanni Gasparro. "I Papi di Napoleone" - Museo Napoleonico, Roma, 22 marzo - 6 maggio 2018

Ieri si è aperta a Roma, presso il Museo Napoleonico, la mostra del noto artista, e nostro amico, Giovanni Gasparro, dedicata ai Papi dell’epoca napoleonica, Pio VI e Pio VII. Ovviamente, la mostra è arricchita anche di opere dello stesso artista, riguardanti quel periodo storico, come ad es. un ritratto del Santo dell’Anti-rivoluzione, S. Gaspare del Bufalo, fondatore della Congregazione del Preziosissimo Sangue. Non mancano, peraltro, opere di altri artisti coevi ai due papi.
La mostra rimarrà aperta sino al prossimo 6 maggio.
Volentieri, quindi, la segnaliamo e ne pubblichiamo una recensione. Ringraziamo l'amico Alessandro Franzoni per le foto, tratte dal suo profilo facebook.







Giovanni Gasparro, Pio VI Pontefice Massimo, 2016

Giovanni Gasparro, Studio per "Quum memoranda. Ritratto del servo di Dio, Papa Pio VII", 2014

Giovanni Gasparro, Quum memoranda. Ritratto del servo di Dio, Papa Pio VII, 2014

Giovanni Gasparro, Studio per "San Gaspare del Bufalo intercede per le anime del Purgatorio", 2016


Giovanni Gasparro, Beata Anna Maria Taigi, 2016

Jean-Baptiste Wicar, Studio per la "Ratifica del Concordato", 1803

Anonimo, Stemma di Pio VII, inizio XIX secolo

Vito Marini, Facciata di Casa Marini a Recanati in occasione del passaggio di Pio VII, 1814

GIOVANNI GASPARRO. I PAPI DI NAPOLEONE


a cura di Fabio Benedettucci

Museo Napoleonico. Piazza di Ponte Umberto I, Roma
22 marzo – 6 maggio 2018

Giovanni Gasparro. I Papi di Napoleone è un’esposizione incentrata su due dipinti del giovane artista pugliese raffiguranti i pontefici regnanti durante l’età di Napoleone: Pio VI Braschi e Pio VII Chiaramonti. La mostra, ospitata al Museo Napoleonico dal 22 marzo al 6 maggio 2018, è promossa da Roma Capitale, Assessorato alla Crescita culturale - Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali. Servizi museali di Zètema Progetto Cultura.
Insieme ai due dipinti saranno esposti anche alcuni bozzetti, utili per comprendere il processo creativo dell’artista. A corredo dell’esposizione, il Museo Napoleonico presenterà un selezionato nucleo di opere grafiche generalmente conservate nei depositi, attraverso le quali saranno illustrati aspetti e momenti differenti dei pontificati di Pio VI e Pio VII, entrambi caratterizzati da lunghi periodi d’esilio.
In un ideale dialogo con i dipinti di Giovanni Gasparro, saranno esposti acquerelli, disegni, incisioni, realizzati da numerosi artisti significativi vissuti tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento. Tra essi, l’orafo Paolo Spagna, autore di un disegno raffigurante lo stemma di papa Braschi, Giuseppe Valadier, del quale si presenterà il progetto per un arco trionfale, e Jean–Baptiste Wicar, rappresentato in mostra da un raffinato disegno preparatorio per un grande dipinto oggi nella residenza pontificia di Castel Gandolfo.
Giovane, ma già affermato pittore, Giovanni Gasparro è nato a Bari nel 1983. Diplomato all’Accademia di Belle Arti di Roma, ha esposto in numerose mostre personali e collettive in Italia e all’estero. Il suo lavoro ha ricevuto importanti riconoscimenti: nel 2014, con Quum memoranda - ritratto di papa Pio VII (esposto in mostra), Giovanni Gasparro ha vinto il Premio Pio Alferano e il Premio Brazzale. Nella Basilica di San Giuseppe Artigiano all’Aquila ha dipinto 19 tele, commissionate nel 2011 a seguito del terremoto, che rappresentano il maggior ciclo di pitture religiose eseguito in Italia negli ultimi decenni.