lunedì 19 marzo 2018

I Crociferi nojani, testimoni del Sacrificio di Cristo

In questo Tempo di Passione e nella festa di S. Giuseppe, Padre putativo di Gesù e Sposo della Beatissima Sempre Vergine Maria, rilanciamo questo contributo del prof. Vito Abbruzzi.


Francesco Coghetti, S. Giuseppe col Bambino in trono e Santi (SS. Adelaide, Antonio da Padova, Lupo e Michele arcangelo), 1828, Bergamo

Antonio Guadagnini (attrib.), S. Giuseppe col fanciullo Gesù, 1840-60, Bergamo

Francesco Saverio Raffaele Altamura, Gesù fanciullo nella bottega di S. Giuseppe, 1882, Napoli

Ponziano Loverini, S. Giuseppe col bambino Gesù, 1896, Bergamo

Ambito campano. S. Giuseppe col bambino Gesù, prima metà XIX sec., Acerra

Ambito emiliano, Madonna col Bambino tra i SS. Giuseppe e Camillo de Lellis, XIX sec., Bologna

Ambito abruzzese, Stampa di S. Giuseppe col Bambino, XIX sec., Termoli

Josef Kastner, S. Giuseppe col Bambino Gesù, Muttergotteskirche, Vienna




I Crociferi nojani, testimoni del Sacrificio di Cristo

di Vito Abbruzzi

Chi ha mai letto L’uomo che si vendicò di Dio? È la storia commovente di John Green Hanning: un ex cowboy dal carattere difficile, morto in concetto di santità nella trappa del Gethsemani nel Kentucky (USA) col nome di Fratel Gioacchino.
Riprendendo tra le mani questo libro dopo molti anni, confesso di essere rimasto sorpreso e perplesso nel leggere quanto segue:
«Se la penitenza consistesse nelle fustigazioni corporali, i Flagellanti di Nuova Messico sarebbero assai migliori dei trappisti del Kentucky, per il semplice motivo che quelli frustano a sangue il loro corpo, mentre questi fanno soltanto sanguinare il loro cuore. I Flagellanti, abbracciata una croce di legno e portata sulla cima di un colle, ci si fanno legare sopra e ci stanno appesi in agonia per ore intere: i trappisti non fanno assolutamente nulla di simile. Eppure il trappista è il penitente cristiano, e il Flagellante un povero illuso, perché la penitenza consiste nella metànoia e non nel melodramma. Il trappista punta a quella auto-repressione che mena alla santità, il Flagellante invece indulge in una sadica auto-repressione che conduce all’insania».
Siamo di fronte ad un giudizio a dir poco impietoso, ché getta discredito sulle pie pratiche penitenziali della Settimana Santa, ancor oggi molto sentite dalle popolazioni un  tempo fortemente influenzate dalla Spagna e dalla sua cultura religiosa. Si tratta, pertanto, di un vero e proprio pregiudizio ideologico, volto ad esaltare un cristianesimo sin troppo asettico e vagamente filo-protestante contro un cristianesimo più passionale e di chiara matrice cattolica. Basti vedere lo scempio architettonico perpetrato nel 1960 ai danni della superba chiesa abbaziale della trappa dove visse Fratel Gioacchino a fine ’800: distrutti tutti i segni caratteristici del gotico cistercense: altari, archi, finestre e vetrate, abside, balaustra, rivestimenti e decorazioni: tutto, proprio tutto ciò che potesse far pensare ad un edificio di culto tradizionalmente e autenticamente cattolico (v. qui). Faccio notare che quelle radicali e infelici trasformazioni furono apportate alla sfortunata chiesa conosciuta e amata da Fratel Gioacchino quando in quella trappa viveva Thomas Merton: scrittore molto famoso, affascinato dal buddismo tibetano, e per questo ancora oggi tenuto in grande considerazione. Non fa dunque meraviglia se poi certi ordini religiosi (in primis l’inclito Ordine Benedettino), un tempo fiorenti di vocazioni, oggi languiscano a motivo del loro essere in piena crisi di identità.
Perciò, mi sento di controbattere all’autore di quel libro (e a quanti la pensano come lui), riprendendo le sue stesse parole: se è vero che «il trappista […] non assume mai le arie del drammatico, e meno ancora del melodrammatico», altrettanto vero lo è per coloro contro cui egli punta l’indice: i Flagellanti del New Mexico, e non solo.
E qui il mio pensiero va spontaneamente ai Crociferi di Noicattaro (l’antica Noja): uomini (giovani e meno giovani) che, pur non essendo stinchi di santo, sono veri; come vero è il loro sacrificio. 
Mi piace qui citare il più giovane tra i Crociferi miei conoscenti: Raffaele, quattordici anni, ormai un veterano: porta la Croce da quando aveva dieci anni e questo sarà per lui il quinto anno da crocifero. Raffaele, a vederlo, è ancora un bambino, nel fisico e nella mente, ma, come tutti i suoi compagni e amici Crociferi di lungo corso, mostra una maturità che commuove e fa riflettere. Quando gli dissi che sapevo del suo essere crocifero, egli immediatamente cambiò tono ed espressione: dal “garzoncello scherzoso, d’allegrezza pieno” a quello del “vecchierel mezzo vestito e scalzo, con gravissimo fascio in su le spalle”, di leopardiana memoria. Sì, perché la Croce invecchia, nel senso più nobile del termine, anche i ragazzini: li rende precocemente saggi, assimilandoli ai loro padri, dei quali vanno giustamente fieri. Mi è bastato sentir dire da Raffaele: «È un sacrificio», per capire tutto. “Sacrificio” era la parola chiave che mi mancava per comprendere appieno e sin in fondo quanto un anno fa due altri Crociferi nojani, anch’essi giovanissimi, Vito Nicola e Michele, mi dissero a proposito del loro portare la Croce: non di certo per esibizione, ma esclusivamente per amore verso Gesù.
Altrimenti non si spiegherebbe quel bisogno (perché di bisogno si tratta) di eclissarsi agli occhi del mondo, incappucciati, sotto una veste lunga e per giunta alquanto scomoda. I Crociferi – è bene ribadirlo – non sono e non vogliono essere riconosciuti. E questo in ossequio a quanto raccomandato da Gesù: «Perché la gente non veda […], ma solo tuo Padre che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà» (Matteo 6,18).
Volto dell'Ecce Homo,
Chiesa della SS. Passione,
Conversano (BA).
Foto di Mino Mincarone
Nel segreto, infatti, il Crocifero si commuove sino alle lacrime, dando così liberamente sfogo ai propri sentimenti, che solo Gesù, “Uomo dei dolori”, ben conosce, comprende e compatisce (cfr. Isaia 53,3; Ebrei 4,15). 
Ecco cosa mi ha confidato al riguardo il buon Vito Nicola, dandomi testimonianza del proprio e dell’altrui essere crocifero: «La croce come in Gesù assume un significato di penitenza. Io quando porto la mia croce prego molto e mi chiudo con la mia fede e chiedo perdono dei miei peccati, perché con l’arrivo della Pasqua mi sento pronto per la pace. Io prima di portare la croce in giornata riesco a confessarmi e quando la metto sulle spalle quella è la mia penitenza, però riesce sempre a farmi piangere perché sento in me il calore di qualcosa, la liberazione dal peccato». Non ho volutamente apportato correzioni alle parole di Vito Nicola, perché si percepisse l’emozione che vive un Crocifero, smentendo chi la croce gliela dà addosso con ingiuste sentenze. Così anche mi piace riportare quanto Michele mi ha scritto commentandomi una foto scattatagli lo scorso anno dal bravissimo Mino Mincarone, postata sulla pagina facebook “Festa Associazione” e qui riportata, in cui lo si vede bere acqua da una bottiglietta mentre porta la Croce: «Gesù sapeva ciò che si provava ad essere dissetati: io come lui ho provato questa sensazione.
È la Veronica che mi ha portato l’acqua». Soffrire, quindi, non solo il peso della Croce ma anche quello della sete. Solo lo scorso anno, viste le eccezionali temperature, più alte del solito, si consentì ai Crociferi di potersi dissetare con acqua (non altra bevanda), «perché – detto da Michele – faceva molto caldo e non si respirava sotto i cappucci. Si moriva». Michele – lo ricordo – è il ragazzo che l’anno scorso mi spiegò, senza tanti giri di parole, l’importanza della Croce di Cristo quale strumento necessario e insostituibile per la nostra redenzione. Verità questa ridimensionata dalla odierna teologia liturgica che, mettendo al centro il mistero della Resurrezione, ha finito col mettere in secondo piano “il mistero della Croce, sulla quale Gesù, nostra vita, subì la morte e con la morte ci ridonò la vita” (come è detto nel Vexilla Regis, il bellissimo inno gregoriano composto da San Venanzio Fortunato).
E proprio perché quello dei Crociferi è un sacrificio offerto a Dio, mettere sulle spalle di ciascuno di essi una persona seriamente sofferente nel corpo o nello spirito rende il loro sacrificio veramente gradito a Dio. E i Crociferi questo lo sanno benissimo, rispondendo molto generosamente alle richieste di aiuto, che li motiva ancor di più in quello che fanno e, soprattutto, in quello che sono. Sì, perché Crocifero lo si è, non lo si fa! E lo si è mettendoci l’unico muscolo che conta davvero: il cuore. In questo ha ragione Saint-Exupery: «Non si vede bene che con il cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi». È, per dirla con la Scrittura, la “sapienza del cuore” (Salmo 90,12): ciò che esattamente contraddistingue il Crocifero. «La parola della Croce infatti è stoltezza per quelli cha vanno in perdizione, ma per quelli che si salvano, per noi, è potenza di Dio. Sta scritto infatti: “Distruggerò la sapienza dei sapienti e annullerò l’intelligenza degli intelligenti”. Dov’è il sapiente? Dov’è il dotto? Dove mai il sottile ragionatore di questo mondo? Non ha forse Dio dimostrato stolta la sapienza di questo mondo? Poiché, infatti, nel disegno sapiente di Dio il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione. E mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio. Perché ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini» (1 Corinzi 1,18-25).
Il Crocifero comprende molto bene, col proprio sacrificio, il senso di quella frase sconvolgente del profeta Isaia riferita al Cristo, il Servo Sofferente: «Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori» (Isaia 53,10). Una frase che non può non suscitare sconcerto e scandalo: lo scandalo, appunto, della Croce. Ho chiesto provocatoriamente a Michele citandogli quel passo di Isaia: «Per te crocifero questo Dio non è crudele?»; mi ha risposto: «Noi crociferi pensiamo che Dio non è crudele: è un simbolo di forza e tanta tanta voglia in Lui che ci ispira a farlo». E qui Michele mi ha ancora una volta stupito, richiamando alla mia mente quell’altro passo di Isaia avente sempre come protagonista il Servo Sofferente: «Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro. Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi. Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare confuso» (Isaia 50,5-7).
Proprio vero il popolare detto pugliese: Addumann a lu patuto, no a lu saputo! *
Buon tempo di Passione.

*Rinaldo Nazzaro, Ricordi degli Usi e Costumi dell'Antica Deliceto, Youcanprint, 2013.

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