Certo, umanamente parlando, era indubbiamente una persona che credeva in quel che faceva e credeva di fare la cosa giusta.
Ma cristianamente è sufficiente???
Abbiamo già detto delle problematicità del suo magistero. Ma pensiamo anche al suo impegno “per la pace”. Egli pensava che la pace dipendesse unicamente dagli uomini, dalla giustizia e che le guerre fossero frutto delle disuguaglianze sociali e dell’iniqua distribuzione dei beni tra paesi ricchi e paesi poveri. Famosa in questo senso fu un suo intervento alla trasmissione RAI Samarcanda, condotta da Michele Santoro, del 21.2.1991, in un dibattito col giornalista Mario Cervi sul tema della Guerra del Golfo (v. qui).
Ma la visione di Mons. Bello era assai parziale e, diremmo, ideologica, pregna com’è di venature marxiste e socialiste. E diremmo anche materialiste. Non sapeva, infatti, che, dal punto di vista cristiano, la pace è prima di tutto e soprattutto un dono di Dio e che, per quante ingiustizie si possano vincere, per quante disuguaglianze si possano eliminare, se non entra Dio, la pace non sarà mai possibile. Evidentemente non aveva compreso, come affermano i Salmi: «Se il Signore non costruisce la casa, invano si affaticano i costruttori. Se il Signore non vigila sulla città, invano veglia la sentinella. Invano vi alzate di buon mattino e tardi andate a riposare, voi che mangiate un pane di fatica: al suo prediletto egli lo darà nel sonno» (Sal. 127, 1-2).
Don Bello cercava la pace sì, ma non quella che viene da Dio e dal suo Cristo, ma quella che potevano dare gli uomini. «Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi» (Gv. 14, 27).
Appunto: don Bello leggeva in quelle parole evangeliche non una realtà, ma un’immagine, una rappresentazione di ciò che i cristiani avrebbero dovuto fare. Diffondere e far conoscere Cristo???? Nient’affatto. Diffondere la pace nelle relazioni umane. Ovviamente, come si potesse diffondere questa pace senza far conoscere il Principe della pace (secondo l’espressione del celebre vaticinio di Isaia) rimane un …. mistero … .
Come vescovo – sempre nella trasmissione Samarcanda – domandava di cosa si sarebbe dovuto occupare un vescovo: del colore dei paramenti o del numero dei ceri da mettersi sull’altare??? Rispondiamo noi: semplicemente di Cristo. Se si fosse occupato di Cristo, di farlo conoscere, ricordarlo ad un mondo ateo e materialista, sarebbe stato un vero operatore di pace. Se avesse ricordato che le guerre e le disuguaglianze non derivano dall’ingiustizia nella distribuzione dei beni tra ricchi e poveri – come vorrebbero i teorici del materialismo e del marxismo – bensì da un male dell’anima, cioè dal peccato e che dove vi è peccato vi è guerra e disordine; se avesse ammonito il mondo incredulo e gaudente, dimentico di Dio e della sua legge, queste verità e ricordando l’esistenza del peccato e che Dio punisce l’umanità per i peccati, allora sì che sarebbe stato un profeta ed operatore di pace! Infatti, sarebbe andato alla radice del problema, non fermandosi agli effetti epidermici di quel problema. Del resto, non aveva detto la stessa Vergine Maria ai tre pastorelli, a Fatima: «Avete visto dove vanno le anime dei poveri peccatori. Per salvarle, Dio desidera stabilire nel mondo la devozione al Mio Cuore Immacolato. Se ciò che vi chiedo sarà fatto, molte anime saranno salvate e vi sarà pace. … . La guerra sta per finire; ma se la gente non cessa di offendere Dio, una peggiore scoppierà durante il regno di Pio XI». La Madonna disse alla Beata Giacinta: «Le guerre non sono altro che il castigo per i peccati del mondo». Altro che iniqua distribuzione dei beni e delle ricchezze!!! Questa è la vera diagnosi del male, della radice di ogni male e disordine.
Ecco di cosa si sarebbe dovuto occupare un vescovo!
Per cui, anche se umanamente parlando mons. Bello può essere stata anche una brava persona, tuttavia ciò, dal punto di vista cristiano, era da ritenersi insufficiente.
Qual è oggi l’eredità di mons. Bello???
È significativo che taluno, commemorando il 25° anniversario della morte del vescovo, abbia affermato (v. qui), citando il mons. Bello: «“Amiamo il mondo. Vogliamogli bene. Prendiamolo sotto braccio. Usiamogli misericordia. Non opponiamogli sempre di fronte i rigori della legge se non li abbiamo temperati prima con dosi di tenerezza”. Sono parole che rivelano il desiderio di una Chiesa per il mondo: non mondana, ma per il mondo. Che il Signore ci dia questa grazia: una Chiesa non mondana, al servizio del mondo». Una Chiesa al servizio del mondo??? Se è al servizio del mondo, non può non essere mondana. Ed essere al servizio del mondo, delle sue logiche, in fondo, è essere al servizio, di fatto, di colui che del mondo ne è il principe, il principe di questo mondo, che non è certo il Cristo. Non va dimenticato che il mondo non ha riconosciuto la Luce vera e continua a non riconoscerlo! Si legge nel Prologo di Giovanni: «Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, eppure il mondo non lo riconobbe» (Gv 1, 9-10).
Dio ha sì amato il mondo da dare il Suo Figlio unigenito, «perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna» (Gv. 3, 16), ma quest’espressione (mondo) qui adoperata, nella concezione giovannea, è da intendersi riferita a tutti coloro che, abbracciando la fede, sono destinati alla vita eterna (cfr. At. 13, 48); a coloro che, credendo in Lui, non muoiono, ma vivano in eterno!
L’espressione “mondo”, invece, come è intesa da mons. Bello (ed emerge dalla citazione evocata) e ovviamente durante la commemorazione della sua morte, è da ritenersi riferita, alla sua valenza negativa, cioè a tutto ciò che rifiuta e si oppone, per antonomasia, a Cristo ed alla sua luce. Questo mondo, secondo mons. Bello, bisognerebbe abbracciare, prendere sotto braccio ed usare misericordia. Abbracciare ciò che rifiuta e si oppone a Cristo??? Ecco perché esserne al servizio, significa, in altre parole, essere al servizio di ciò che a Cristo si oppone. Gesù, del resto, nel suo lungo discorso durante l’ultima cena, fu drastico dinanzi al rifiuto del mondo: «Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per coloro che mi hai dato, perché sono tuoi» (Gv 17, 9).
È significativo, ma in quest’ottica può segnalarsi l’affermazione di un discepolo e testimone di primo piano di mons. Bello, che deve tutto allo stesso (v. qui) e che non tentò né di convertire né – come dice – di “metterlo in riga” (v. qui), il quale in un’intervista recente (v. qui), ha affermato che anche «la Chiesa si dovrebbe convertire».
Chi dice questo, ignora probabilmente che la Chiesa è il Corpo di Cristo, fatto di membra, che devono essere docili al Suo insegnamento e alla sua grazia. Allora, a chi si dovrebbe convertire la Chiesa? Si può presumere che s'intenda al mondo, cioè a quella realtà che, come detto, pensa al contrario di Dio e che Cristo è venuto a redimere. L’unico servizio al mondo - meglio, per la verità, all’uomo - che il Figlio di Dio ha compiuto, è di salvarlo.
Diversamente, si va dietro a questa o quella lobby o al “potente di turno”, che, p. es., permette di avere un figlio affittando un utero. Chiunque parli di “rivoluzione” da portare nella Chiesa e nel mondo, sovverte la logica delle Beatitudini, che, come è noto, chiamano felici, beati, i discepoli, che, seguendo il Signore Gesù, non sono amati dal mondo, perché, dice il Divino Redentore nel Vangelo di Giovanni, «se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo, per questo il mondo vi odia» (Gv. 15, 18-19). Il mondo ama coloro che gli appartengono.
Esorta per questo l’apostolo prediletto: «Non amate né il mondo, né le cose del mondo! Se uno ama il mondo, l’amore del Padre non è in lui; perché tutto quello che è nel mondo, la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita, non viene dal Padre, ma dal mondo. E il mondo passa con la sua concupiscenza; ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno!» (1 Gv. 2, 15-17).
Il Signore, per questo, afferma: «beati sarete voi, quando vi perseguiteranno e mentendo diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia» (Mt 5, 12).
Non la Chiesa deve convertirsi, dunque, ma gli ecclesiastici ed i fedeli, che seguono i potenti di turno, le logiche del mondo, assecondandolo e conformandosi alla mentalità del secolo presente – come dice l’Apostolo (Rm 12, 2) – ossia il modus hodiernus di vivere (di qui la parola modernismo). La vera “rivoluzione” è solo la conversione, perché, in realtà, come qualcuno ha detto, in ogni rivoluzionario sonnecchia un borghese. San Paolo dice che l’uomo vecchio è sempre in agguato, anche in coloro che, per il battesimo, sono diventati nuovi. Solo la conversione consente quella “rivoluzione permanente” del cuore, da cui dipende la salvezza della nostra anima e del mondo. Per questo il Signore ha istituito i sacramenti. La rivoluzione borghese o socialista o ecologista o pacifista sortisce solo rancori, odi e desideri di vendetta, attuati poi dalla generazione che succede a quella che è stata sconfitta. La storia lo documenta. Chi auspica, perciò, la rivoluzione è un modernista; chi persegue la conversione è cattolico.
In questa festa del santo vescovo e dottore della Chiesa Anselmo d’Aosta o di Canterbury, insigne confessore della fede e della libertà della Chiesa, fuggitivo ed esule, che trovò a Roma, come d’altronde sant’Atanasio, e presso il beato Urbano II, accogliente benevolenza e protezione, e che affermò, scrivendo al re di Gerusalemme, Baldovino: «Dio non ama null’altro in questo mondo che la libertà della sua Chiesa. … Dio vuole che la sua sposa sia libera non già schiava» («Nihill magis diligit Deus in hoc mundo quam libertatem Ecclesiæ suæ. ... Liberam vult esse Deus sponsam suam, non ancillam»: Sant’Anselmo, Ep. Ad Balduinum regem Hierusalem, in Epistolæ, lib. IV, ep. 9, in PL 159, col. 206B), pubblichiamo volentieri l’intervista integrale di don Nicola Bux su Mons. Bello (quella parziale è stata pubblicata qui).
Ambito veneto, Miracolo di S. Anselmo, XVIII sec., Verona |
Antonio Vanzo (attrib.), Addolorata tra i SS. Dorotea, Anselmo ed il Alfonso de' Liguori, 1850, Trento |
A 25
ANNI DALLA MORTE DI MONS.ANTONIO BELLO. INTERVISTA INTEGRALE A MONS. NICOLA BUX
di Vito
Palmiotti
D.:
Monsignor Bux, Il cardinale Carlo Caffarra in una intervista dello scorso anno,
osservava: «Solo un cieco può negare che nella Chiesa ci sia grande
confusione». Cardinali, vescovi e preti si contrappongono tra loro. Al
Convegno romano del 7 aprile scorso, il filosofo Marcello Pera si è chiesto in
che cosa consiste veramente la confusione oggi, nella Chiesa cattolica, e ha
risposto che riguarda la natura del cristianesimo: è ancora una proposta di
salvezza eterna o è diventata un’offerta di liberazione terrena? La differenza
è che, la prima, riguarda tutti e ciascuno, allo stesso modo, senza
distinzione: non c’è giudeo o greco, schiavo o libero, uomo o donna, e perciò
non c’è ricco né povero, perciò non c’è immigrato né residente, e così via.
Invece «Il messaggio di liberazione riguarda alcuni, e non tutti allo stesso
modo, perché non tutti devono essere o possono essere egualmente liberati. Si
libera la donna, non l’uomo. Si libera il debole, non il potente; il povero non
il ricco; l’immigrato non il residente. Il linguaggio della liberazione fa una
distinzione, e concepisce il destinatario del messaggio di Cristo in maniera
diversa». Certo, la incarnazione di Cristo è avvenuta in questo mondo, per
dare all’uomo il centuplo quaggiù – cioè la vita di comunione ecclesiale - e l’eternità.
Quanto di buono si fa in questo mondo, concorre alla salvezza nell’altro mondo,
non in modo automatico, ma se fatto per Cristo. Altrimenti si riduce il
cristianesimo ad un umanesimo senza Cristo. Però, il cristiano deve essere
consapevole che i poveri li avremo sempre con noi, che la pace non vi sarà mai
del tutto, che le frontiere non cadranno, se l’uomo non si converte a Dio. All’origine
di tutto c’è l’atto di superbia, il peccato originale che ci fa fare il male
che non vorremmo, invece del bene che vorremmo. A questo mondo non ci sarà
dunque giustizia, senza la conversione. Per questo Gesù ha posto questo invito
all’inizio della sua missione. Senza conversione e senza la grazia divina che
riceviamo nei sacramenti, siamo impotenti a cambiare noi stessi e il mondo, beninteso
quello che viviamo nel breve spazio della nostra vita, della generazione a cui
apparteniamo.
R.: Da alcuni decenni, una ideologia ha colpito la Chiesa,
trasformando il cristianesimo in un umanesimo orizzontale o, come si diceva
negli anni sessanta del secolo scorso, in una teologia della liberazione,
mirante a realizzare alcuni ‘valori’ ritenuti assoluti: la libertà, l’eguaglianza,
la fraternità, la pace...Così, si è sostituito l’annuncio di Gesù Cristo con
quello dei ‘valori’ come appunto, la fraternità, la pace, la solidarietà, l’accoglienza,
l’uguaglianza. All’inizio, questi valori son stati proposti come declinazioni
del Vangelo; pian piano, però, si sono staccati da questa radice nonché dalla
prospettiva dell’eternità (nonostante i chierici parlassero frequentemente di
escatologia) e sono stati proposti in modo assoluto, a se stanti, come modi di
realizzare sulla terra il regno di Dio. Si è dimenticato quel che Gesù ha detto
a Pilato: «Il mio regno non è da questo mondo». Quando i cristiani, in specie i
chierici, cedono a tale impostazione, finiscono per proporre - dice il
Catechismo della Chiesa Cattolica - «una impostura religiosa che offre agli
uomini una soluzione apparente ai loro problemi, al prezzo dell’apostasia dalla
verità.» Tutti quei valori, infatti, la Chiesa non ha i mezzi e non è in grado
di realizzarli, ad ogni generazione che si succede, perché il regno di Cristo
non è, appunto, di questo mondo. Tu Vito, sei di Molfetta, una città che ha
conosciuto come Pastore il vescovo Mons. Antonio Bello del quale vi apprestate
a commemorare il 25° anniversario della morte. Ecco io partirei proprio di qua
in questa mia riflessione, ponendo questa volta io una domanda chiedendomi se in
questi 25 anni dalla morte di mons. Antonio Bello, quei valori si siano
maggiormente affermati, per capire se egli abbia seguito Gesù Cristo oppure
inseguito una utopia o un “sogno” messianico. Il Catechismo a tal
proposito chiarisce che: «La massima impostura religiosa è quella dell’Anti-Cristo,
cioè di uno pseudo-messianismo in cui l’uomo glorifica se stesso al posto di
Dio e del suo Messia venuto nella carne» (n. 675). Ancora: «Questa impostura
anti-cristica si delinea già nel mondo ogni qualvolta si pretende di realizzare
nella storia la speranza messianica che non può essere portata a compimento se
non al di là di essa, attraverso il giudizio escatologico; anche sotto la sua
forma mitigata, la Chiesa ha rigettato questa falsificazione del regno futuro
sotto il nome di millenarismo, soprattutto sotto la forma politica di un
messianismo secolarizzato “intrinsecamente perverso”» (n. 676).
D.: Tra
le iniziative proposte dalla Diocesi di Molfetta, c’è stata la settimana
Teologica che ha visto la partecipazione in qualità di relatore di Mons. Angiuli,
anche in preparazione alla visita di Papa Francesco alla nostra comunità. Una
delle frasi che ha suscitato la mia attenzione è stata una menzione dello
stesso Papa, che descrive il tempo presente come un «cambiamento d’epoca
piuttosto che come un’epoca di cambiamento».
R.: E cosa vuol dire? Se siamo in un cambiamento d’epoca, è
lo stesso che dire: siamo in un’epoca di cambiamento, perché le epoche cambiano
in quanto si succedono. Fino a prova contraria, tutte le epoche cambiano,
altrimenti l’epoca sarebbe sempre la stessa. Se l’epoca è un’epoca di
cambiamento, vuol dire che cambia l’epoca … È quasi un sillogismo aristotelico.
In realtà, è uno dei tanti slogan usati senza pensarci e ripetuti a cascata;
uno slogan che sbalordisce superficialmente, perché, ragionandoci su, non può
significare altro. Frasi, a mio avviso ad effetto, che hanno come scopo
incantare.
D.: Come
i fuochi d’artificio...
Vivendo
a Molfetta e avendo vissuto l’epoca di Don Tonino, in età adolescente , nel
pieno della mia formazione cristiana cattolica, all’epoca sentivo risuonare
slogan come la chiesa del grembiule. Mons. Angiuli ha opportunamente
sottolineato che il messaggio di Don Tonino era incentrato sulla Chiesa della
stola e del grembiule: la mia impressione con grande rammarico, è che a
Molfetta venga solo evidenziato il secondo aspetto, quello cioè della Chiesa
del grembiule, inteso come il servizio a chi soffre di povertà materiale,
isolandolo dal primo che viene spesso ignorato, fino a desacralizzarlo. Senza
pensare che il servizio ai poveri ha senso, a mio avviso, se aiuti i poveri a
convertirsi a Cristo.
R.: Gesù Cristo ha detto che bisogna evangelizzare i poveri,
nel discorso programmatico della sinagoga di Nazareth. Ora, l’evangelizzazione
cosa significa? Far conoscere la notizia nuova che Dio è venuto nel mondo,
prendendo la nostra natura umana. Questo è il Vangelo. Altrimenti, perché la
Chiesa dovrebbe occuparsi dei poveri, se non avesse a cuore la loro salvezza
eterna? La Chiesa non è un’agenzia di beneficenza, una ONG, ma il Corpo di
Cristo, un soggetto che è costituito, nelle sue membra, dai poveri, potremmo
dire in gran parte - poveri che non sono da intendere solo in senso materiale,
ma anche morale e spirituale - e li aiuta a entrare nel mistero di Cristo.
D.:
Questa però, ho l’impressione che sia la dimensione meno percepita e praticata.
R.: Ma questa è l’autentica dimensione che ha visto nascere
nella Chiesa una miriade di santi della carità, che, nel momento stesso in cui
si occupavano dei poveri, li catechizzavano. Molfetta ha già un Servo di Dio,
anzi Venerabile, spero, un prossimo santo, che è Ambrogio Grittani, il quale
scrive, tra l’altro, che i poveri voleva portarli all’altare. Quindi non si
preoccupava soltanto di sfamarli col cibo materiale, ma innanzitutto della loro
salvezza eterna, del loro bisogno spirituale, perché, come diceva Madre Teresa
di Calcutta, «la vera povertà è la non conoscenza di Dio». Quindi, solo
in questo senso la Chiesa evangelizza davvero i poveri. Un vescovo come mons.
Bello, o un sacerdote, o un laico cristiano, non dovrebbe avere un’idea
diversa. Quindi, perché accusare la Chiesa di disinteresse - come si legge in
non poche omelie di Bello - quando da sempre si è occupata dei poveri; e proprio
a Molfetta, dove c’era il Boccone del povero, messo su da Don Grittani,
l’opera San Giuseppe Labre; proprio lì, nella sua diocesi, insieme ad altre
opere caritative e sociali. Quindi, perché prendersela con la Chiesa? Mons.
Bello se la doveva prendere col mondo, semmai. Ma, nella misura in cui se la
prende col mondo, un vescovo cattolico deve essere consapevole che la Chiesa è
stata mandata ad esso per evangelizzarlo e portarlo a Dio, per salvare gli
uomini.
D.:
Mons. Angiuli ha posto in rilievo l’aspetto dell’enfatizzazione che se ne fa
della Chiesa del grembiule, quasi dimenticando la Chiesa della stola, che non
può essere staccata dalla prima.
Bisogna
tenere conto quando si affronta questo aspetto, che Don Tonino a Molfetta e non
solo, non faceva solo discorsi. Lui le viveva queste sue convinzioni. Tra i
poveri ci andava veramente, quando non li portava da lui, verrebbe da dire ci
viveva. Spesso suscitando polemiche.
Mi
chiedo: che cosa è rimasto di quel suo vissuto?
E poi
ancora: Ma una volta che abbiamo badato ai poveri, abbiamo messo a posto la
nostra coscienza cristiana? Se i poveri li avremo sempre con noi, come ha
ammonito Gesù, ma non sempre avremo Lui: che cosa vuol dire interessarsi dei
poveri?
R.: Un vescovo, un prete, un cristiano, oltre che aumentare l’azione
caritativa - non dimentichiamo che la Chiesa, in Italia e nel mondo, ha
promosso le Caritas,- oltre che desiderare il moltiplicarsi delle opere
di carità, innanzitutto deve desiderare che l’uomo incontri Gesù Cristo ed
entri nella Chiesa, perché Cristo è venuto nel mondo per far conoscere Dio, per
rivelare se stesso come la via della salvezza e ha istituito la Chiesa come
ambito di salvezza dell’uomo. Il massimo aiuto da dare ai poveri, è portarli a
Cristo; ecco il senso dei sacramenti, che fanno entrare l’uomo nella Chiesa,
nel Corpo di Cristo, che è la Chiesa. Se un vescovo dimenticasse questo,
avrebbe una comprensione carente del suo ministero. Infatti, gli Apostoli
istituirono i diaconi perché si dedicassero alla carità, mentre riservarono per
sé la predicazione e i sacramenti.
D.:
Forse si è ridotta la comprensione del termine “carità”.
R.: Credo che si sia ridotto innanzitutto il senso dell’incarnazione,
cioè la ragione per cui Dio si è fatto uomo. Di conseguenza, non conoscendo più
questo, siamo caduti in una sorta di deismo, per cui basta credere in un Dio
qualsiasi … Di conseguenza, non c’è motivo di ripetere l’invito di Cristo a
convertirsi e a credere al Vangelo, per cui la parola “conversione”, è assente,
nella predicazione, nelle conferenze teologiche, perché questo termine, come
dire, andrebbe a toccare quella che è la condizione reale dell’uomo,
chiedendogli davvero un mutamento di mentalità. Cristo ha inaugurato la sua
missione pubblica invitando a convertirsi e credere al Vangelo: la Chiesa è
stata istituita per questo. Se si vuol definire magistero l’insegnamento di un
vescovo, mancando quell’invito, non è più magistero, perché non attinge alla
parola chiave, ciò per cui il Vangelo è un fatto nuovo, una novità, e si
finisce per ridurlo a un discorso moralistico o sociologico. Cristo ha portato
ogni novità portando se stesso, come dice Ireneo: che cosa di nuovo avrebbe un
povero dall’incontro con Cristo, se non ci fosse la conversione? La realtà è
Cristo (Colossesi 3, 17). Tutto va ricapitolato in Lui: in terra, sottoterra
e in cielo.
D.: E
quindi il termine carità come lo dobbiamo intendere?
R.: Il termine “carità” va inteso, come lo ha sempre inteso
la tradizione cattolica, l’amore verso Dio e l’amore verso il prossimo, che
sono assolutamente inscindibili. Questa è la carità, che deve essere una virtù,
cioè un abito permanente del cristiano. Siccome non sussiste l’amore verso il
prossimo, se prima non c’è l’amore verso Dio, bisogna, appunto, amare Dio. L’amore
di Dio implica dare del tempo a lui - ecco il senso del culto a Dio, nella
preghiera a Dio, nella fede in Dio - e di conseguenza scaturisce l’attitudine,
la virtù dell’amore verso il prossimo. E quindi, dal tempo che diamo a Dio, consegue
anche la dedizione nostra al prossimo. Altrimenti la nostra attenzione al
prossimo, si confonde col volontariato; ma il volontariato non è la carità. Il
volontariato è l’azione a cui presiede la volontà; ma direbbe San Paolo: se anche
dessi le mie sostanze ai poveri, ma non ho la carità... Quindi l’Apostolo del
celebre cap. XIII della lettera ai Corinzi, spiega che la carità è un’altra
cosa dal volontariato, perché, lo sperimentiamo spesso, la volontà oggi può
esserci, domani diventare più fiacca, e quando non ho la volontà, una cosa non
la faccio. Invece la carità è una virtù permanente, cioè un habitus che
mi sta addosso anche quando non me la sento, anche quando non voglio. E quindi
è molto differente la virtù dal volontariato.
D.: E
quindi, dalla conferenza di mons. Angiuli, che idea emerge di d. Tonino Bello?
R.: Egli parla dei lontani da raggiungere, commentando l’azione
di mons. Bello. Ora, i lontani, la Chiesa gli ha sempre desiderato portarli
vicini a sé, includerli nella Chiesa; altrimenti, oggi, sarebbero quattro
gatti. Il punto è che mons. Bello, come i c.d. cristiani del dissenso
degli anni ‘70, manifesta spesso una insofferenza per la Chiesa, al punto – mi
pare in qualche omelia – di descriverla come matrigna e non madre. Eppure, la
Chiesa ha sempre avuto l’anelito missionario di raggiungere tutti i confini
della terra, in obbedienza al comando di Gesù, di andare in tutto il mondo e
fare discepole tutte le creature e battezzarle. Invece, si accusa la Chiesa di
aver colonizzato i popoli, di averli espropriati della loro cultura, e così
via. Ma domandiamoci: i lontani, oggi, si sono avvicinati alla Chiesa, con
tutte le attività pastorali che si promuovono? Un tempo si usava il termine,
molto più appropriato, di apostolato e si operava per riportare l’uomo nella
casa, nella casa sua che è la Chiesa del Dio Vivente. Così, era molto minore la
lontananza. Invece, con tutti i discorsi e le azioni pastorali, la società si è
scristianizzata; all’inizio del secolo scorso il drammaturgo inglese Thomas
Eliot diceva: «È l’umanità che ha abbandonato la Chiesa o è la Chiesa che ha
abbandonato l’umanità?». Quindi la Chiesa non può chiamarsi fuori: essa
abbandona l’umanità, non quando non compie le opere per i poveri, ma quando non
annuncia Dio ai poveri, intendendo per poveri, l’umanità che ha bisogno di Dio,
che cerca la Verità e ha bisogno di Dio, perché anche chi chiede il pane, a suo
modo cerca Dio; quindi la Chiesa non può dare solo il pane che perisce - ha
detto Gesù - ma deve dare il pane di vita eterna; perciò ho fatto l’esempio di
don Ambrogio Grittani.
Non è la
Chiesa che si deve convertire – come talvolta, con insofferenza ripeteva mons. Bello
– no, la Chiesa del Dio vivente non si deve convertire: siamo noi membri della
Chiesa che ci dobbiamo convertire; la questione è un po’ diversa. La Chiesa
vive in noi che siamo le membra del suo corpo e dobbiamo servirci l’un l’altro.
Così, il servizio di cui spesso si parla con l’immagine ad effetto del grembiule,
è quello che il sacerdote svolge indossando la stola: il servizio di insegnare,
di governare e soprattutto di santificare con i sacramenti; dunque, non c’è
dualismo tra stola e grembiule: quest’ultimo è solo la versione secolarizzata
della prima. Ricorrere a un emblema diverso, diventa un espediente per colpire
l’immaginazione e far pensare quasi che la Chiesa non abbia mai avuto o abbia
smesso il desiderio di servire, preferendo esercitare un potere. Sarà pure
accaduto a taluni, ma questo appartiene alla miseria degli uomini; gli
ecclesiastici di oggi non sono meno miseri di quelli del XV o del XVI sec. Il
servizio da richiamare, dev’essere l’appello all’uomo perché si converta a Dio:
questo è il vero servizio.
Il
vescovo Angiuli fa un’ ottima disamina del fatto che il cristiano deve affidare
se stesso a Gesù Cristo, facendosi servo per amore di lui, addirittura schiavo;
quindi, giustamente, egli dice che Paolo si riferiva alla identificazione con
Cristo nel momento in cui si autodefiniva servo di Gesù, e avvertiva di non
appartenere più a se stesso, perché comprato al prezzo del sangue di Cristo;
ecco, questa consapevolezza dell’Apostolo, deve essere anche la consapevolezza
del sacerdote, la consapevolezza del vescovo, e deve poi trasmettersi, deve
diventare la consapevolezza del singolo cristiano, del povero, perché anche il
povero è chiamato ad essere cristiano e quindi a sentirsi appartenente a
Cristo.
D.:
Altrimenti ci si ferma alla superficie, senza andare al cuore, e si cade nell’attivismo.
R.: San Paolo afferma con forza, con una delle frasi più
forti del Nuovo Testamento: «non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me»
(Galati 2, 20). È la nuova e definitiva identità. Se il battesimo è la
nuova esistenza del cristiano, gli conferisce un’identità nuova. Avremo paura
dell’identità cristiana? La parola identità viene da idem, e vuol dire “la
stessa cosa”; quindi, il cristiano che ci tiene alla sua identità, vuol
dire che ci tiene a Gesù Cristo, non è un cristiano che si diluisce nella
società; anche la comunità cristiana è fatta di membra del corpo di Cristo, ma
ognuno ha la sua dignità singolare, non mutua l’identità dalla comunità; l’identità
noi la prendiamo dall’appartenenza a Gesù Cristo, cioè dal fatto che siamo
stati innestati in Lui a cominciare dal battesimo, dal momento in cui ci siamo
convertiti, abbiamo aderito a Lui con la fede, abbiamo rinunciato al mondo e
abbiamo detto: «Io credo in Gesù Cristo»; quindi lì nasce la nostra identità, il
fatto che io sono uno con Cristo Gesù.
D.:
Quindi, è questa l’identità! Perché allora avere paura dell’identità e
sostituirla con la convivialità delle
differenze, un’altra delle frasi che spesso risuonano, e che tanto sembrano
aprire il cuore della gente, di d. Tonino? Questa espressione lui la usa per
sostenere che tra le Persone della Trinità vi sono differenze: ma il prefazio
della Trinità non proclama che non v’è differenza tra le Persone divine?
R.: Il termine convivialità, Giovanni Paolo II lo usò per il
sinodo del Libano, perché in quel paese, notoriamente, i musulmani e i
cristiani da secoli convivono; ma la intendeva come uno scambio di quanto era
possibile mettere in comune nella vita di ogni giorno, non una accettazione
indifferenziata di quanto era incompatibile con l’identità cristiana; chi
conosce i musulmani, sa che questo non l’accettano. Ora, l’espressione «convivialità
delle differenze», facilmente viene scambiata per l’indifferentismo: come dire:
«non è importante la differenza».
Sono
molto scettico su espressioni del genere, non diverse da altre, come “teologia della liberazione”, “teologia
della speranza”, “teologia del
servizio”...; teologia significa: “parlare di Dio” e, aggiungerei,
parlare con Dio; quindi, se si parla di Dio, si deve parlare del suo servizio
primigenio che è di aver creato l’uomo, di averlo salvato, e del fatto che,
nella misura in cui prendiamo coscienza di questo, dobbiamo compiere il
servizio della parola divina, dobbiamo far conoscere la parola che salva l’uomo:
questo è il vero servizio, sia attraverso le parole che attraverso i gesti,
cioè le opere di carità e di misericordia; sempre con l’obiettivo di portare l’uomo
al Signore perché l’uomo ha sete di Dio; finché non arriva a vedere il suo
volto, il suo cuore è inquieto, come scrive sant’Agostino, perché l’anima sua
non ha raggiunto la patria; ecco in che senso noi possiamo parlare di felicità,
altrimenti cadiamo nell’edonismo, nell’epicureismo insomma (godi che tanto poi
la vita finisce, devi morire), invece la felicità che noi annunciamo è quella
che viene dall’incontro con Cristo che dà il centuplo quaggiù e l’eternità.
Comunque l’espressione “convivialità delle differenze”, applicata alla
Trinità, è una vera e propria eresia. Probabilmente Mons. Bello, non ne era
consapevole. Per lui i misteri della fede erano solo un pretesto per parlare
dell’uomo.
D.:
Nella relazione di mons. Angiuli, citando un passaggio di una relazione di don
Tonino dice: «Attenzione amici, i mali dei giovani vengono sempre da lontano. L’idea
del rizoma (pianta senza radici e senza fusto) ci deve preoccupare, perché il
rifiuto del passato sul piano religioso, si estende al rifiuto della
Tradizione, della chiesa, della morale cristiana, della sua struttura
organizzativa, della disciplina, del dogma. Il passato, tutto il passato desta
sospetto. La storia viene guardata con riserve, o snobbata o rifiutata. Anche
qui da noi ci troviamo di fronte a una gioventù che vuol essere ‘senza padri ne
maestri’».
Condivide
questa analisi?
E
aggiungo: Ma la chiesa non ha l’unico compito di far incontrare in ogni luogo e
in ogni tempo Gesù Cristo essendone il Corpo?
R.: L’analisi di mons. Angiuli può anche essere
condivisibile. Tuttavia Gesù Cristo non faceva analisi sulla situazione del suo
tempo ma proponeva se stesso a chiunque incontrava, quale risposta al bisogno
di verità e di Vita che è proprio di ogni uomo in ogni tempo. Per questo, i
giovani cercano la tradizione, cercano le radici, come si suol dire. Molti, non
cercano la cucina tradizionale, i locali tipici, la casa d’epoca, i mobili
antichi, perché aiutano a recuperare il rapporto con la storia? Come si fa a
sostenere, quindi, che c’è il rifiuto della tradizione! Ora, la tradizione cattolica,
mi riconnette a Cristo, perché, attraverso i due millenni, attraverso tutti i
santi, gli uomini e le donne che mi hanno preceduto nella fede, arrivo agli
apostoli, arrivo a Cristo. Gli stessi vescovi, senza la tradizione apostolica,
non sarebbero vescovi, perché ricevono l’episcopato grazie alla tradizione che
viene, appunto, trasmessa, comunicata; lo stesso Vangelo è la trasmissione
della tradizione, da Cristo agli Apostoli, alla Chiesa fino ai nostri giorni.
San Giovanni ha consacrato il termine tradizione quando dice alla fine del
Vangelo: «Ci sono molte altre cose che ha fatto Gesù, le quali, se fossero
stare scritte ad una ad una, non so se il mondo stesso potrebbe contenere i
libri che si dovrebbero scrivere» (21, 25). La costituzione Dei Verbum,
ricorda che le fonti della rivelazione sono due: la Sacra Scrittura e la
Tradizione. Pertanto, cosa deve fare innanzitutto il vescovo e noi tutti
cristiani? Dobbiamo far in modo che l’incarnazione del Verbo, continui
attraverso il corpo della Chiesa presente nel mondo; come ha già fatto quando
era presente in tanti ambienti: le ferrovie, le fabbriche, gli uffici .... con
i cappellani e gli assistenti, ma soprattutto con l’apostolato dei cristiani;
oggi la Chiesa deve essere presente in tutti gli ambienti, deve aiutare i
giovani cattolici a dare testimonianza a Cristo nell’università se sono
universitari, nella scuola se sono studenti, nelle fabbriche se sono
lavoratori. In questo, Don Luigi Giussani è stato pioniere esemplare, perché,
quando a Milano le parrocchie si erano svuotate dei giovani, promosse la
presenza negli ambienti, in università, a scuola, perché è la che si gioca la
fede.
D.: Lei
ha prima affermato che «Per lui (don Tonino ndr.) i misteri della
fede erano solo un pretesto per parlare dell’uomo», mi pare un’affermazione
abbastanza forte. Tuttavia mi sembra faccia il pari con quest’altra: «La
Chiesa del futuro deve essere “debole”, deve condividere il travaglio della
perplessità, deve essere compagna del mondo, deve servire il mondo senza pretendere
che il mondo creda in Dio o che vada a Messa la Domenica o che viva
maggiormente in linea col Vangelo ...» (Don Tonino Bello, Benedette inquietudini., B.,
2001, p. 15).
Inquietudini appunto...
Alla luce di quanto appena sottolineato
lo vede d. Tonino Bello,
santo?
R.: Nell’opuscolo Tibi Silentium Laus, l’autore, don
Bernardino Palmieri, parroco di san Francesco di Paola a Capurso, riporta il
colloquio con l’eremita: «Uno degli eremiti si rivolse a me direttamente e
senza giri di parole mi disse: Caro padre, nel tornare alla vita sacerdotale
non dimentichi che la predicazione cristiana ha dimenticato Gesù. Molti
confratelli parlano e parlano di temi e problemi sociali, di quello che è
legato a certi bisogni dell’uomo, dell’ecologia e della pace nel mondo, ma al
di là di tanta retorica, il grande assente nella predicazione è proprio il
Cristo, il Figlio di Dio. Molti che salgono qui all’eremo per ricevere una
parola ce lo riferiscono quasi con tono accusatorio ... E la misura della
nostra fede che si è affievolita. La nostra, dico, di noi sacerdoti. Ma egli è
e rimane. Cristo è la vera realtà di fronte alla quale la realtà del mondo è
nulla. Non hanno consistenza, né il mondo, né il tempo ... È l’istante della
fede che tocca Dio.- Mamma mia, dissi, dentro di me... Posso solo fare silenzio».
Fin qui,
don Palmieri. Del resto, è san Paolo che afferma: «la realtà invece è Cristo»
(Col 3, 17). Povera Chiesa se dimenticasse questo! Ma non avverrà del tutto,
perché vi sarà sempre un resto, una ‘minoranza creativa’, come disse Benedetto
XVI. Ci saranno sempre sacerdoti e vescovi cattolici. Il santo è colui che
attira a seguire Gesù Cristo: Mons. Bello ha attirato a Cristo o a se stesso? il
santo è colui che attira a seguire Gesù Cristo: Mons. Bello ha attirato a Cristo
o a se stesso? La liturgia che egli proponeva era orizzontale, invece che
verticale; ma il culto deve essere mistico, per aiutare a entrare nel mistero,
a incontrare la Presenza divina. Perché l’essenziale, è invisibile agli occhi! Allora,
anche la cultura e la politica verranno orientati verso Dio. Taluni discepoli
di Mons. Bello, gli attribuiscono di essere stati confermati nel loro ateismo o
nei loro comportamenti piuttosto lontani dalla morale cattolica, attingendo al
suo insegnamento. Non ha detto Gesù: dai frutti li riconoscerete?
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